Ruggero Borghi ha una storia da raccontare che si sposa benissimo con i tempi moderni e con il suo ruolo attuale: quello del preparatore. Borghi è sceso dalla bici 16 anni fa, vive a Cantù, e da 8 anni collabora con il CC Canturino, curando la parte atletica.
«Mi piace passare parte della mia esperienza ai giovani – ci racconta Borghi – ho iniziato a correre tardi, al secondo anno da allievo. In realtà avevo messo il sedere sulla bici anche da più piccolo, ma c’era di mezzo il pallone e andai su quello. Poi a 16 anni tornai al ciclismo. Ho fatto il dilettante con grandi prestazioni e 12 anni da pro’ che non hanno ripercorso gli stessi risultati. Sono sempre stato appassionato di preparazione atletica, così una volta smesso trovare la mia strada è stato facile».
Borghi passa professionista nel 1995 con la Mercatone UnoIl suo ultimo anno da corridore è il 2006, lascia il ciclismo dopo 12 stagioniBorghi passa professionista nel 1995 con la Mercatone UnoIl suo ultimo anno da corridore è il 2006, lascia il ciclismo dopo 12 stagioni
Di cosa hanno bisogno ora i ragazzi?
Di un aiuto, perché sono molto intelligenti e preparati, ma devono capire bene come funziona. Mi rendo conto che questi ragazzi guardano tanto alla tecnologia (misuratore di potenza in particolare, ndr). E’ importante saper usare gli strumenti, ma bisogna farlo nel modo corretto. Prima viene il rapporto tra il preparatore e il ragazzo.
Come si costruisce?
Nel tempo. Il lavoro del preparatore è fare test e dare tabelle di allenamento, ma il rapporto vero lo si crea attraverso i feedback dell’atleta. Quando la stagione non parte bene, loro ti chiedono, fanno domande. Tu devi essere bravo a non fargli perdere la fiducia, ci sono tanti fattori esterni. Tante cose possono fare la differenza…
Una volta terminata la carriera, Borghi è diventato preparatore: otto anni la fa la chiamata del CC CanturinoUna volta terminata la carriera, Borghi è diventato preparatore: otto anni la fa la chiamata del CC Canturino
Quali?
La testa. I ragazzi devono capire che è quella che fa la differenza. Hanno la scuola, una vita da costruire e tanti impegni. Da juniores non è obbligatorio vincere, ma crescere e imparare. Io cerco di farglielo capire. E’ vero che se vinci, è più probabile che trovi squadra, ma c’è un percorso da fare.
La crescita?
Sì. Vincere da junior serve il giusto. A questa età c’è chi è più sviluppato e chi meno. Non puoi pretendere che tutti spingano il 53×11 (il riferimento è all’uso dei rapporti liberi nella categoria juniores, ndr). E’ da under 23 che costruisci la tua carriera e devi farlo con i tempi giusti.
Quali sono i tempi giusti?
La categoria under 23 dura quattro anni. Anche lì c’è tanta fretta di andare e di arrivare. Tutto si è velocizzato molto, ma devi costruire. Io da dilettante andavo fortissimo, ci ho messo anni a trovare il ritmo tra i professionisti.
A sinistra uno dei primi corridori seguiti da Borghi: lo riconoscete? E’ Andrea BagioliA sinistra uno dei primi corridori seguiti da Borghi: lo riconoscete? E’ Andrea Bagioli
La fretta arriva anche dai Devo Team del WT, che spesso fanno solamente due anni di contratto.
Un esempio è qui al CC Canturino: Mattia Sambinello. Lui andrà all’estero (alla Hagens Berman, ndr) ma io gli ho parlato tanto. Mi sarebbe piaciuto fosse rimasto in Italia a correre. Ma Sambinello ha la sua mentalità e dice che all’estero ha più occasioni. In Italia però c’è tanta cultura del ciclismo e squadre che fanno un’attività adeguata.
Tante continental non hanno fatto il cambio di passo che ci si sarebbe aspettati…
Vero anche questo, però i team ci sono. La Colpack e il CTF sono un bell’esempio.
Tu hai iniziato a lavorare con gli juniores 8 anni fa, il mondo del ciclismo era tanto diverso. Cos’è cambiato?
Il primo anno che ho lavorato con il CC Canturino c’era qui Andrea Bagioli. Lui è uno che ha fatto un bel percorso, rimanendo sempre in Italia, è passato con la Colpack e poi è andato nel WorldTour.
Fancellu è un altro dei ragazzi passati dal CC CanturinoFancellu è un altro dei ragazzi passati dal CC Canturino
Ma 8 anni fa i Devo Team non esistevano, quindi si era abituati a rimanere in Italia. Ora l’estero è più attrattivo.
Entrare in quel mondo ti permette di avere un piede nel professionismo e questo va bene per i corridori che sono pronti, che hanno testa. Bagioli era uno di quelli che era predisposto, anche da junior, a fare il corridore. La sua carriera ne è un esempio. Altri ragazzi non lo erano o lo erano di meno. Mi viene in mente Fancellu, che forse avrebbe fatto meglio a rimanere in Italia e fare un percorso più tradizionale. I talenti li abbiamo…
Di questo siamo certi…
Altrimenti non verrebbero a prenderli dall’estero. Sono davvero tanti i ragazzi che finita la categoria juniores se ne vanno via (ora anche gli juniores possono andare all’estero, ndr). Serve un progetto per farli rimanere qui, per dare loro un’alternativa che possano ritenere valida.
Per gran parte del ciclomercato, di Albert Withen Philipsen non si è parlato. E’ vero che ha solo 17 anni, è vero che l’attende un altro anno da junior (anche se nel 2022 aveva già gareggiato più volte con atleti di categoria superiore), ma parliamo pur sempre del campione del mondo. Anzi, del campione vincitutto, quello che trionfa su strada come in mtb e come nel ciclocross.
Il silenzio intorno al suo futuro aveva una ragione ben specifica, perché intorno a questo talento si sta combattendo una battaglia fra tutti i team principali del WorldTour, pronti a fare pazzie per ingaggiarlo. Lo ammette lo stesso Philipsen, pronto a raccontare il “dopo Glasgow”.
«Mi hanno contattato un po’ tutti – dice – ma al momento non ho preso alcuna decisione. So che sui giornali dicono che Bora Hansgrohe e Lidl-Trek sono ora avvantaggiate sulle altre squadre, ma in realtà io non ho deciso alcunché e per il prossimo anno sono concentrato a rimanere nel mio team e a fare del mio meglio. Se ne parlerà a fine 2024».
Philipsen resterà un altro anno con lo Tscherning Cycling Academy, correndo fra strada e mtbPhilipsen resterà un altro anno con lo Tscherning Cycling Academy, correndo fra strada e mtb
Fra i due titoli mondiali vinti a Glasgow, qual è stato il più difficile?
Penso che la strada sia stata la più complicata, perché ho meno esperienza. Diciamo che è ancora un gioco piuttosto nuovo per me e, per quanto riguarda la tattica, devo ancora imparare molto. Quel risultato ha sorpreso anche me, perché so che posso fare molto meglio.
E’ per questo che preferisci l’offroad alle gare su strada?
In realtà ho cambiato un po’ idea, da Glasgow in poi. Quando ho iniziato quest’anno, la mia priorità principale era la mountain bike o l’offroad in generale. Ma nel corso dell’anno mi sono concentrato sempre di più sulla strada e ho deciso che l’anno prossimo il mio obiettivo principale sarà proprio progredire in questa specialità. Vedere dove posso arrivare anche se non abbandonerò la mountain bike.
Subito dopo la vittoria a Glasgow, dicevi di dover imparare ancora molto del ciclismo su strada: che cosa in particolare?
Penso alle dinamiche di guidare in gruppo: non è una cosa naturale, si acquisisce con la pratica e io ne ho avuta poca. Lo stesso mondiale l’ho corso tenendo presente questo handicap. Sicuramente ho molto da imparare, come anche sul saper leggere la gara, per non usare tutte le energie nei momenti sbagliati ed essere più strategico. Quindi questo è uno dei miei grandi punti focali per il prossimo anno.
Albert con il suo team, all’estrema sinistra il team manager Palle CampagnerAlbert con il suo team, all’estrema sinistra il team manager Palle Campagner
Su strada che tipo di corridore sei, quali sono le gare che ti piacciono di più?
In realtà sto ancora cercando di capirlo e anche per questo penso che scegliere ora una squadra sia prematuro, per me come per loro. In questo momento sono un po’ un tuttofare, quindi posso fare bene in pianura, ma posso anche fare tappe di montagna e posso anche fare buone cronometro. Sono un po’ a metà e non ho ancora deciso quale tipo di ciclista sognerei di essere. Spero di capirlo un po’ di più l’anno prossimo, ma probabilmente ci vorranno anni.
Nella tua passione per il ciclismo quanto ha influito la tua famiglia?
La mia famiglia ne è una parte importante. Ho sempre ricevuto molto sostegno dai miei genitori. E’ davvero un lavoro di squadra. Non puoi fare questo sport da solo e ci vuole molta energia e tempo. Serve molto il sostegno della mia famiglia.
Oltre ai titoli mondiali, il danese ha vinto anche quello europeo a cronometroOltre ai titoli mondiali, il danese ha vinto anche quello europeo a cronometro
Chi sono i tuoi corridori preferiti?
Amo quelli come me che mescolano varie discipline, quindi mi piacciono molto VDP, Van Aert, Pidcock: non ho un preferito fra loro. Se poi dovessi scegliere un corridore che fa solo strada, il mio preferito è Pogacar, ha un modo di correre unico nel suo genere.
Pensi di avere maggiore futuro nel ciclismo su strada o nella mountain bike?
Nel ciclismo su strada – risponde secco Philipsen – penso che questa sia la direzione in cui sto andando adesso. Il mio obiettivo però è continuare a mescolare le discipline, perché farlo continua a mantenere questo sport interessante per me.
Subito due vittorie nel ciclocross in condizioni impervie in avvio di stagione 2023-24 (foto Instagram)Subito due vittorie nel ciclocross in condizioni impervie in avvio di stagione 2023-24 (foto Instagram)
Nel 2024 ti vedremo più su strada o nella mtb?
Penso che aumenterò la percentuale di corse su strada facendone di ogni tipo, almeno il 70 per cento del mio calendario sarà lì e il restante in mountain bike. Il mio obiettivo principale sarà la strada, ma continuerò a mixarla.
In questa stagione ti vedremo nel cross e soprattutto ai mondiali?
Sì, in realtà ho già fatto due gare di ciclocross quest’anno, proprio all’inizio di stagione e le ho vinte. In questo momento mi sto prendendo una pausa dalle corse, concentrandomi solo sull’allenamento. E poi tornerò di nuovo al ciclocross alla fine di dicembre, con alcune gare utili per portarmi al massimo della forma ai campionati del mondo. Essere il primo a conquistare tutti e tre i titoli mondiali in sequenza è un progetto che mi solletica tanto…
L’approdo di Santiago Umba all’Astana Qazaqstan Team e le parole di Peschi, suo diesse fino a quest’anno, ci hanno incuriosito. Il tecnico toscano ha detto che il giovane colombiano dovrebbe allenare la forza in salita. Abbiamo così preso questo spunto per parlare di come si allena questo aspetto, e lo facciamo con Maurizio Mazzoleni coach del team kazako, in cui la preparazione di Umba sarà affidata a Yeyo Corral, uno degli allenatori interni.
«Il ciclismo – dice Mazzoleni – è uno sport di endurance che si basa su picchi di forza costanti. Il lavoro del preparatore cura i diversi aspetti della forza: massima, dinamica, esplosiva e rapida. Si lavora con tecniche e metodologie diverse. Nel caso dello scalatore non parlerei di allenare la forza in salita, ma in generale. Ci sono vari mezzi per farlo: macchinari isotonici, ovvero palestra, attraverso il carico naturale, quindi sfruttando il peso del proprio corpo, e con il mezzo specifico, cioè la bici».
Tanti giorni di corsa consecutivi fanno ridurre i picchi di forza, servono periodi di allenamento per ristabilirli (foto Instagram Astana)Tanti giorni di corsa consecutivi fanno ridurre i picchi di forza, servono periodi di allenamento per ristabilirli (foto Instagram Astana)
Costanza
Sentendo parlare il preparatore bergamasco, passa il concetto di forza a livello generale: ogni corridore deve curare tutti gli aspetti e allenarla in maniera completa. La parte difficile è riuscire a tenere, durante tutto l’arco della stagione, una costanza di rendimento.
«Si fa un’analisi a inizio stagione – spiega – per ogni corridore. Per uno scalatore la forza è importante al fine delle prestazioni. Il ciclismo uno sport di endurance, si deve tenere monitorato l’atleta durante tutto l’anno. Questo perché si rischia di avere una deflessione dei picchi di forza. Gli scalatori, più di chiunque altro ciclista, sono soggetti a questo “pericolo”, fondamentalmente per due fattori. Il primo è legato alla diminuzione del peso e la conseguente perdita di massa magra a livello tonico-muscolare. Il secondo motivo è che la forza diminuisce dopo tante gare. Ciò è dovuto al fatto che in corsa non si fanno dei lavori specifici, per cui è opportuno fare dei richiami durante l’anno per recuperare la forza stessa.
«Per quanto riguarda il peso corporeo e la possibile perdita di massa magra – continua Mazzoleni – c’è da anni un lavoro di affiancamento tra preparatori e nutrizionisti, per trovare il giusto equilibrio e non avere oscillazioni di peso eccessive nell’atleta».
Il lavoro in palestra va calibrato a seconda delle esigenze dell’atletaIl lavoro in palestra va calibrato a seconda delle esigenze dell’atleta
Palestra
Per allenare la forza è necessario passare attraverso l’utilizzo di strumenti, con i classici esercizi che si fanno in palestra.
«In palestra attraverso i vari macchinari – analizza il preparatore – si possono fare, ad esempio, esercizi di squat e leg press. Con la giusta distribuzione dei carichi, abbiamo visto che possiamo arrivare a lavorare in questo senso fino a una o due settimane dal via di un grande Giro. Ci sono due fattori importanti nel lavoro in palestra: il giusto calcolo dei carichi massimali, che si fa in base al peso dell’atleta e al momento della stagione. In secondo luogo sono importanti gli angoli di esecuzione dell’esercizio, che devono essere mirati a simulare il gesto tecnico della pedalata. Per anni si sono fatti i lavori in palestra con angoli sbagliati e questo ha portato a pensare che fossero dannosi, ma non è così.
«A mio modo di vedere – continua – è importante allenare la forza in palestra, simulando la gara. Il ciclista si trova ad esprimere alti picchi di potenza in situazioni di affaticamento muscolare. Per questo nei circuiti in palestra prevedo poche pause, dobbiamo avvicinarci il più possibile alla richiesta prestazionale della corsa».
Non possono mancare i lavori a corpo libero, il peso dell’atleta diventa il “mezzo” di allenamentoNon possono mancare i lavori a corpo libero, il peso dell’atleta diventa il “mezzo” di allenamento
Carichi naturali
Non sono tuttavia da sottovalutare i lavori a corpo libero, dove il peso dell’atleta diventa lo strumento di allenamento.
«Per quanto riguarda gli esercizi a corpo libero – analizza Mazzoleni – ci sono decine di esempi. In inverno (per agganciarci anche al periodo dell’anno, ndr) vengono fatti degli esercizi di pliometria per sviluppare la forza esplosiva e dinamica. Questi generalmente preferisco farli in ritiro così da mostrare bene agli atleti come eseguirli. Ci avvaliamo del lavoro di un personal trainer, Marino Rosti, per la corretta spiegazione. Se gli allenamenti vengono mostrati bene in ritiro a casa l’atleta avrà minori possibilità di sbagliare l’esecuzione e quindi di danneggiare il proprio fisico».
Ogni esigenza ha il suo allenamento: per la forza dinamica si fanno le volate lanciate (foto Instagram Astana)Ogni esigenza ha il suo allenamento: per la forza dinamica si fanno le volate lanciate (foto Instagram Astana)
Si sale in bici
La forza si allena anche in bici: com’è giusto che sia, l’allenamento passa anche attraverso il gesto tecnico, vediamo come:
«Gli esercizi sono tantissimi – conclude Mazzoleni – lo scalatore allena tutte le tipologie della forza, perché sono tutte importanti e utili ai fini della corsa. Nonostante il fisico esile, anche uno scalatore può ritrovarsi a fare una volata ristretta. E avere un picco di 850 watt al posto di 800, può fare la differenza tra vincere e perdere. La cosa importante, chiaramente, è il dosaggio dei volumi di lavoro e della potenza allenata, questo per tutelare il corridore. Una volta in bici si usavano quasi ed esclusivamente le SFR, mentre ora ci sono anche altri metodi. Si decide la tipologia di allenamento in base alle caratteristiche da allenare: per la forza massimale si usano le partenze da fermo, mentre per la forza dinamica le volate lanciate. Oltre alla tipologia di esercizi è importante la giusta cadenza, la pendenza e anche il rapporto da spingere. Tutto passa dalla cura dei dettagli».
«Se fossi ancora corridore – riflette Marco Pinotti alla fine della chiacchierata – forse anche io farei sui rulli i lavori specifici per la crono. Sempre che la pista su cui li ho sempre fatti fosse chiusa. Altrimenti non avrei dubbi e tornerei a Dalmine…».
Un passaggio dell’incontro con Giampaolo Mondini, parlando dell’arrivo di Roglic alla Bora-Hansgrohe e di conseguenza su bici Specialized, continuava a risuonarci nelle orecchie. Per mandare via il ronzio, serviva un esperto di crono e preparazione, per cui ci siamo rivolti a Marco Pinotti.
«Una cosa molto interessante che mi ha detto Primoz – aveva raccontato Mondini – è che lui usa la bici da crono anche tre volte a settimana, però sui rulli, come fanno i triatleti (in apertura, lo sloveno sui rulli in un’immagine da Instagram, ndr). Magari prima fa l’uscita su strada, poi se deve fare un’ora di variazioni di ritmo, le fa sui rulli. Mi ha spiegato che è soprattutto un fatto di sicurezza, perché i lavori con la bici da crono si fanno ad alta velocità e le strade di Monaco non sono le più adatte».
La pista di Dalmine è stata a lungo il teatro degli allenamenti specifici di Pinotti (foto L’Eco di Bergamo)La pista di Dalmine è stata a lungo il teatro degli allenamenti specifici di Pinotti (foto L’Eco di Bergamo)
Un’abitudine diffusa
In realtà, quella che poteva sembrare un’originalità dello sloveno ha preso la forma di un’abitudine ormai radicata: «Anche qua (riferendosi alla Jayco-AlUla di cui Marco è preparatore, ndr) tanti australiani fanno lavori sui rulli – è stata la prima risposta di Pinotti su whatsapp – per una questione di sicurezza delle strade e per mantenere la posizione. Io li facevo in pista».
E allora andiamo a capire quali siano i lavori che vengono meglio sui rulli e se ci siano delle criticità, legate ad esempio alla dimestichezza con la bici, ai valori fisiologici espressi e alle temperature che si raggiungono sui rulli. Pinotti prende il filo del discorso e si incammina.
«Il primo con cui ho avuto questo tipo di esperienza – dice – è stato Patrick Bevin, il neozelandese che avevo quando eravamo al CCC Team. L’ho seguito per un anno e mi diceva che i lavori specifici li faceva sui rulli. Io ne prendevo atto, anche se viveva a Girona, che non dà l’idea di un posto così trafficato. Non è che fossi troppo favorevole, perché va bene lavorare in posizione, però dopo quando vanno in bici sanno fare le curve? Fra gli australiani è una cosa abbastanza comune. Magari fanno sui rulli il lavoro più impegnativo, poi escono con la bici strada e allungano».
Luke Durbridge, in una foto di tre anni fa, lavorando sui rulli con la bici da crono (foto Instagram)Luke Durbridge, in una foto di tre anni fa, lavorando sui rulli con la bici da crono (foto Instagram)
Sicurezza e valori certi
Quali siano i lavori che vengono meglio sui rulli è facile da intuire. Si tratta di quelli che richiedono strada libera perché si svolgono ad alta velocità, con la visibilità limitata dal fatto che con la bici da crono si tende spesso a guardare verso il basso.
«Magari si tratta di lavori di alta intensità – dice Pinotti – e non continui. I classici over-under, cioè un minuto in soglia e due minuti sotto. Oppure 40 secondi sotto e 20 secondi sopra. Lavori un po’ strutturati che su strada sono difficili da programmare. Difficilmente si ha la strada libera e senza traffico o rotonde. Per cui c’è sicuramente la componente della sicurezza e un po’ l’esigenza di fare bene il lavoro. Fare per quattro volte 10 minuti consecutivi su strada non è semplice. Magari puoi aggiustarti un po’ andando a cercare qualche pendenza. Ma se qualcuno è un po’ più fissato sui valori, quindi preferisce avere dati privi di variazioni, allora sul rullo li ha proprio esatti. Potrei obiettare che le curve e l’esigenza di frenare le hai anche in gara, ma se è una necessità legata alla sicurezza, allora alzo le mani.
«Sono lavori che si fanno in pianura, mentre con la bicicletta da strada si fanno per la maggior parte in salita, quindi la velocità è più bassa e c’è meno traffico. Se anche vuoi trovare la strada secondaria in pianura, l’imprevisto può sempre saltar fuori. Perché con la bici da crono vai a 50 all’ora e ti trovi quello allo stop che sottovaluta la velocità del ciclista e si immette lo stesso. Basta un attimo e ci scappa l’incidente…».
E’ rischioso circolare a testa bassa su strada, a 50 all’ora, simulando le condizioni di garaE’ rischioso circolare a testa bassa su strada, a 50 all’ora, simulando le condizioni di gara
Meglio in pista
Servono rulli di nuova generazione, chiaramente. Fare certi lavori con quelli di una volta, che frenavano la gomma posteriore e davano una pedalata a scatti, sarebbe impensabile e poco produttivo.
«I nuovi rulli hanno la pedalata molto simile a quella su strada – spiega Pinotti – ma certo non ti danno l’abitudine a guidare la bici fra gli imprevisti della strada. Non perché uno improvvisamente diventi incapace di fare le curve, ma perché comunque stare in posizione e assorbire le folate di vento, che è l’ostacolo principale, è soprattutto un fatto di esperienza. E poi ci sono l’asfalto irregolare, le buche, gli ostacoli improvvisi. Per questo io preferivo andare a fare i miei lavori in salita oppure nella pista di Dalmine.
«E’ una pista abbastanza lunga – fa notare Pinotti – alla fine il vento c’è e c’è anche la sicurezza. E poi comunque piuttosto che stare fermo come sul rullo, ti muovi e hai ventilazione naturale. Poi possono esserci tante variabili. Magari Roglic sta sui rulli anche per stimolare l’adattamento al caldo: ci sono tanti studi in questo senso. Ma se lo scopo è solo fare lavori specifici, allora è bene che ci siano ventilazione e temperatura sufficientemente bassa».
Le brevi progressioni che si fanno nel riscaldamento prima di una crono somigliano ai lavori che si fanno anche a casaLe brevi progressioni che si fanno nel riscaldamento prima di una crono somigliano ai lavori che si fanno anche a casa
Watt e sudore
L’adagio è ben noto: un’ora sui rulli, vale come un’ora e mezza su strada. E se questo è vero per il semplice girare le gambe, quando si passa sul fronte dei lavori specifici, che sono brevi e di duratacontrollata, le cose cambiano?
«A livello generale – sorride Pinotti – una differenza c’è. Se io faccio un’ora e mezza di rulli, in termini di consumo in kilojoule è come farne due su strada. In pratica pedalo sempre e la potenza media che ne deriva viene più alta. Invece su strada c’è il momento in cui non pedalo, per cui la potenza media si abbassa. Invece se parliamo di lavoro specifico, non c’è grossa differenza. Parliamo di piccoli intervalli, quindi se sei a casa e pedali in un ambiente adeguatamente ventilato, dovresti riuscire a non sentire tanta differenza».
Il tema della sicurezza per gli alleamenti su strada si amplifica in caso di cronosquadreIl tema della sicurezza per gli alleamenti su strada si amplifica in caso di cronosquadre
Ottimizzare il tempo
Però ci piace tornare alla frase da cui questo articolo ha avuto inizio, al fatto che se fosse ancora corridore e fosse impossibilitato a usare la pista, anche Pinotti sceglierebbe di fare i suoi lavori sui rulli.
«Ovviamente – sorride – continuerei a preferire la pista. Però la stagione fredda crea delle situazioni che vanno calcolate. Qui dove abito, d’inverno le strade sono ancora meno percorribili, perché nelle vallate fa troppo freddo. Quindi se l’alternativa fosse vestirmi come un palombaro e fare l’impossibile per trovare una strada su cui fare dei lavori, magari finirei col farli sui rulli. Sarebbe il modo migliore per ottimizzare il tempo e risolvere il problema sicurezza.
«In effetti, se non vuoi fare i lavori in salita, perché non sei comodissimo e stando basso non respiri bene, per avvicinarti al modello della gara dovresti fare i lavori in pianura, dato che la maggior parte delle crono ormai sono in pianura. E non è tanto raccomandabile farli su strade con il limite a 50 e doverlo superare con la bici. Ed è peggio quando dobbiamo preparare la cronosquadre. A volte si affittano gli autodromi, ma non sempre si può. Quest’anno ne avevamo una alla Parigi-Nizza. Ho guardato di trovare una strada adatta intorno Parigi, ma invano. Alla fine abbiamo scelto di non far niente e siamo stati bravi lo stesso (la Jayco-AlUla concluse al 3° posto, a 4″ dalla Jumbo-Visma, ndr).
Abbiamo incontrato Matthews durante le visite della Jayco-AlUla. Ci ha raccontato dei problemi dell'estate, della paura di morire e ora la voglia di rifarsi
La pista non va mai in vacanza, lo si può affermare serenamente. Nei suoi tanti appuntamenti è sempre presente un certo tipo di agonismo, anche per ciò che c’è in palio. Dal prestigio personale all’affinamento della condizione, dai punti per il ranking internazionale alle qualificazioni olimpiche o mondiali.
La collezione autunno-inverno tradizionalmente è sempre stata popolata dalle iconiche Sei Giorni (come quella di Gand), cui nelle ultime tre stagioni si è aggiunta la Uci Track Champions League, voluta per rendere le gare nei velodromi appetibili ad un pubblico più ampio e meno di nicchia, come ci aveva detto il suo direttore Florian Pavia. La campagna primaverile-estiva invece lascia spazio alle prove di Nations Cup e alle gare nei velodromi scoperti. Ma esistono differenze di livello qualitativo tra queste varie corse? E se sì, quali sono? Abbiamo chiesto le risposte a Francesca Selva, che con la sua partecipazione alla Champions League se ne è fatta un’ulteriore idea. Sentiamo cosa ci ha detto la 24enne veneziana di Marcon, che in questi giorni è impegnata a Montichiari per un raduno azzurro in vista delle prossime gare e del 2024, nel quale proverà ad intensificare anche l’attività su strada.
Selva corre su strada col team irlandese Torelli. Nel 2024 vorrebbe intensificare l’attività in funzione della pistaSelva corre su strada col team irlandese Torelli. Nel 2024 vorrebbe intensificare l’attività in funzione della pista
Ormai Francesca possiamo considerarti fissa nel gruppo della nazionale?
Direi di no per il momento, perché mi devo ancora confrontare con calma con Marco (Villa, il cittì della pista, ndr). Lui però sa che io sono disponibile alle sessioni di allenamento che ci sono sempre state tutte le settimane. E sa anche che se c’è bisogno, può contare su di me. Le convocazioni in Nations Cup per Cali nel 2022 e per Il Cairo lo scorso marzo sono state le occasioni per entrare nel giro azzurro ed io voglio provare ad investirci più tempo.
Punti a guadagnarti un posto per le prossime Olimpiadi?
A chi non piacerebbe andarci? Ma non esageriamo (sorride, ndr). Non mi sono fatta alcun tipo di aspettative e false speranze. So perfettamente che c’è già un gruppo di atlete che andrà a Parigi ed è giusto così. Vedremo dopo le Olimpiadi se si potranno aprire nuove possibilità. Di sicuro so che vorrei allenare l’inseguimento a squadre e migliorare altre mie caratteristiche. E’ per questo che proverò a correre un po’ di più su strada sempre in funzione della pista. La Torelli, la mia squadra, ha ricevuto nuovamente l’invito per correre la RideLondon e nel 2024 vorrebbero farmela correre. Sono affascinata da quella gara, ma dovrò prepararmi bene.
Cosa intendi per “in funzione della pista”?
Non sono mai stata entusiasta di correre su strada, ma l’ho rivalutata dopo le gare che ho fatto tra fine luglio e settembre. In Polonia ho finito una piccola corsa a tappe e non lo avrei mai detto. Sono rimasta piacevolmente sorpresa perché non ero abituata a quel tipo di fatica. Ho capito che su strada posso migliorare la mia resistenza in pista, visto che faccio le discipline endurance. Anche se di pochi secondi, in pista necessito sempre di un momento dove poter rifiatare e a volte è quello che ti manca per fare la differenza o finire meglio la gara. Anche le tre kermesse che ho fatto in Belgio erano simili allo sforzo che faccio solitamente in pista. Facendo così, spero quindi di potermi presentare più preparata alle prossime corse nei velodromi.
Secondo Selva, nelle gare classe 1 e classe 2 i pistard sanno tutti cosa fare e come correreIntesa. La danese Amelie Winther Olsen è la fidata compagna di madison (e di squadra) di SelvaSecondo Selva, nelle gare classe 1 e classe 2 i pistard sanno tutti cosa fare e come correreIntesa. La danese Amelie Winther Olsen è la fidata compagna di madison (e di squadra) di Selva
Proprio a Londra si è conclusa la Champions League. Cosa prevede ora il tuo calendario?
Nel frattempo, verso fine novembre, ho disputato la “4 Giorni di Ginevra” infilandoci anche qualche giorno di recupero. La settimana prossima torno in Svizzera per la Track Cycling Challenge di Grenchen, poi andrò a Copenaghen per le gare di fine anno (28 e 29 dicembre, dove sarà presente anche Viviani, ndr). A gennaio invece sarò in Germania per le Sei Giorni di Brema e Berlino, anche se in realtà correrò le mie discipline rispettivamente solo per uno e tre giorni.
Considerando le esperienze che hai accumulato nelle varie manifestazioni in pista, ci sono differenze fra loro?
Assolutamente sì, ma vanno contestualizzate. Ho corso tante gare di classe 1 e classe 2, ho fatto la Nations Cup e ultimamente la Champions League. Tre eventi diversi fra loro per modo di correre e dove ci sono corridori con esperienze ed obiettivi diversi. Le differenze maggiori le ho notate sul piano tecnico.
Puoi spiegarcele?
Parto dalla Champions, visto che era una novità per me. Anche se non c’era la madison, la mia specialità principale, devo dire che a livello mentale è piuttosto semplice, così come per l’interpretazione. Tuttavia si ha una qualità dei partecipanti molto alta. Si viaggia con rapporti folli e si va a tutta per quei 10/15 minuti. Se ne hai da restare agganciata, meglio per te. Paradossalmente andando così forte, non devi quasi preoccuparti di tattica o errori altrui. Cose che invece si verificano nelle altre competizioni.
Selva dopo Parigi 2024 vorrebbe allenare meglio l’inseguimento a squadre e altre sue caratteristicheSelva dopo Parigi 2024 vorrebbe allenare meglio l’inseguimento a squadre e altre sue caratteristiche
Continua pure.
Alla Nations Cup ho sempre trovato un livello poco omogeneo. Questo è dato anche dal periodo in cui si corre. Spesso le prove sono in concomitanza con l’attività su strada e quindi la qualità può variare tanto. Sia a Cali che al Cairo ricordo che nella madison c’erano 3/4 coppie forti o che comunque sapevano correre, tra le quali inserisco anche noi italiane. Le altre invece erano pericolose e si vedeva che non erano ben affiatate. Infatti la difficoltà maggiore era stare attente continuamente alle manovre delle ragazze meno pratiche. Molte di loro facevano il cambio al contrario rispetto al tradizionale e questo può influire sulla gestione della gara.
In che modo?
Se non si parte forte o davanti, poi si rischia di restare imbottigliate per troppo tempo. Per uscire dalle retrovie o per evitare le cadute si consumano tante energie psicofisiche. Ad esempio a Il Cairo abbiamo sempre corso col coltello fra i denti. Eravamo tante coppie e pure le qualifiche per la madison erano state difficili. Personalmente soffro sempre tanto una madison disordinata e, come me, credo anche altri puristi della pista.
Per Selva ci sono evidenti differenze tra le gare all’aperto e quelle indoor, però il livello è sempre altoAlla Nations Cup, Selva ha trovato un livello eterogeno e atlete meno esperte del solitoPer Selva ci sono evidenti differenze tra le gare all’aperto e quelle indoor, però il livello è sempre altoAlla Nations Cup, Selva ha trovato un livello eterogeno e atlete meno esperte del solito
Nelle gare di classe 1 e classe 2 invece che livello c’è?
A proposito di puristi, lì si trovano proprio quegli atleti che in pista sono a proprio agio e che amano quel tipo di ciclismo. Non sono gare facili perché molti corridori vengono per prendere punti per il ranking. Di base il livello è medio-alto, poi ci sono sempre quelle star che lo alzano ulteriormente. Ci sono differenze anche tra le corse all’aperto e indoor. Non solo per una questione climatica ma anche per il fondo in legno o in asfalto. Sembrano due mondi totalmente agli antipodi. Ecco, nonostante tutto e si vada forte anche qua, diventa più semplice correre perché ogni atleta sa cosa deve fare e come si corre.
A volte un oro iridato non basta come biglietto da visita. Liam Bertazzo sembrava non trovare squadra ed invece è arrivato l'ingaggio del Maloja Pushbikers
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Davide Malacarne e Stefano Viezzi: fra loro ci sono 19 anni di differenza, come 19 sono gli anni fra il 2004 dell’ultima vittoria in Coppa del mondo del primo e quella di Viezzi a Troyes. Appena una settimana dopo, il friulano si è presentato a Dublino e ha vinto anche la seconda tappadella challengedel cross, rafforzando il suo primato in classifica.
Tanti punti in comune e tante differenze fra i due. Malacarne, molto impegnato nel suo lavoro per Gobik e Ridley, ammette che non ha avuto tempo e modo di vedere direttamente le imprese di Viezzi, ma lo ha seguito attraverso i media e i social, apprezzando come il friulano sia riuscito a ricucire un periodo di astinenza fin troppo lungo. Abbiamo allora pensato di metterli direttamente in contatto, attraverso le possibilità che la tecnologia oggi consente, per una chiacchierata che ha riservato molti spunti d’interesse.
Pontoni e Viezzi, un selfie per celebrare il suo secondo successo. Prossimo impegno a Namur il 17 dicembrePontoni e Viezzi, un selfie per celebrare il suo secondo successo. Prossimo impegno a Namur il 17 dicembre
Un tuffo nel passato
«Le vittorie di Stefano mi hanno fatto tornare indietro con la memoria – esordisce Davide – e mi fa piacere potermi complimentare direttamente con lui che sta dando nuova luce alla nostra disciplina. Seguo purtroppo poco quello che era il mio mondo, ma so bene che cosa significa essere in cima al mondo ed è una bellissima sensazione».
«Non posso che ringraziare Davide per le sue parole – replica subito Viezzi – io mi sto impegnando al meglio e sto anche scoprendo tante cose. A Dublino dove per la prima volta, indossando la maglia di leader, sapevo di essere il punto di riferimento per i corridori. Perciò ho corso di rimessa lasciando l’iniziativa agli altri fino a un giro e mezzo dalla fine, quando ho rotto gli indugi ed è andata bene».
Davide riprende la parola e lancia un primo argomento di discussione: «E’ passato molto tempo fra le nostre due carriere e conoscendo ora Stefano, voglio dirgli di non ripetere i miei errori, per poter rimanere sulla cresta dell’onda».
Davide Malacarne vince i mondiali juniores di ciclocross nel 2005 a Sankt WendelCon la vittoria di Dublino, Viezzi ha rafforzato il primato nella classifica di Coppa (foto FCI)Davide Malacarne vince i mondiali juniores di ciclocross nel 2005 a Sankt WendelCon la vittoria di Dublino, Viezzi ha rafforzato il primato nella classifica di Coppa (foto FCI)
Gli errori del “Mala”
Quali sono questi errori? «Lasciarsi influenzare da commenti e valutazioni esterne che finiscono per fuorviare. E’ innegabile – spiega – che i nostri tempi vissuti sulla bici siano diversi, oggi siamo nell’era della multidisciplinarietà. Esempi come quelli di Van Der Poel e Van Aert hanno cambiato tutto, stanno influenzando la cultura stessa del nostro sport. Allora era diverso, era un ciclismo più radicale dove il ciclocrossista era visto come lo sfigato. Quello di serie B che era quasi costretto a scegliere il passaggio armi e bagagli alla strada. Ma per un cambiamento totale, soprattutto qui in mezzo alle radicate tradizioni italiane, ci vuole tempo e per questo Stefano deve resistere alle pressioni esterne».
«Spero davvero di non trovarmi in una situazione simile – risponde il leader di Coppa – io da parte mia non ho la minima intenzione di mollare il cross, anche se, come è normale che sia, guardo alla strada come attività primaria. Questo però non deve comportare una scelta, sono specialità che possono benissimo coesistere».
La splendida stagione di Viezzi è iniziata con la vittoria nell’apertura del Giro d’Italia a Tarvisio (foto Billiani)La splendida stagione di Viezzi è iniziata con la vittoria nell’apertura del Giro d’Italia a Tarvisio (foto Billiani)
I consigli interessati
L’argomento, ricordando anche le tante discussioni dopo la conquista del titolo mondiale 2005, solletica ancor di più Malacarne, che poi ha avuto una buona carriera nel WorldTour (anche se allora si chiamava ProTour) dal 2009 al 2016 fra Quick Step, Europcar e Astana.
«Sono d’accordo – sorride – e da tifoso italiano trovo le parole di Stefano molto incoraggianti. Valutando bene gli impegni si può fare tutto. E’ giusto considerare la strada come impegno fondamentale per la propria carriera, ma va fatto in maniera ponderata. Se c’è un atteggiamento di chiusura da parte di chi consiglia, posso solo dire a Stefano di chiedersi sempre perché, che cosa c’è dietro da parte di chi la pensa in quel modo».
Ma se Malacarne avesse corso nel ciclismo di Van Aert e Van der Poel, sarebbe cambiato qualcosa? «Probabilmente sì considerando il peso che hanno. Anche ai miei tempi – risponde il veneto – c’era chi correva su strada a buoni livelli, da Sven Nys a De Clercq, ma non era la stessa cosa, non avevano quell’importanza. Ora la multidisciplina comanda: lo stesso Pogacar d’inverno fa qualche gara di cross e nessuno lo condanna per questo».
Malacarne ha corso su strada per 8 stagioni, conquistando anche una tappa alla Volta a CatalunyaMalacarne ha corso su strada per 8 stagioni, conquistando anche una tappa alla Volta a Catalunya
Due epoche diverse
Stefano, hai avuto occasione di vedere online qualcuna delle gare di cross al tempo di Malacarne? «Non ho visto direttamente quelle di Davide – ammette il friulano – ma alcune sì, soprattutto le imprese di Pontoni. Le differenze con i cross di adesso sono notevoli, soprattutto a livello di componentistica e di percorsi. La cosa che mi ha colpito è che gli ostacoli allora si speravano ancora a piedi, ora li saltiamo direttamente…».
«Il cross stava cambiando ai miei tempi – ricorda Malacarne – si cominciava anche allora a superare le tavole rimanendo in bici. Prima dei miei tempi le gare erano molto più basate sulla parte podistica e le bici pesavano tantissimo. Si cominciava a lavorare sulle sue varie componenti. Ora il peso è enormemente minore e questo ha contribuito a cambiare lo stesso modo di intendere la specialità».
Per Viezzi una discreta stagione su strada per il Team Tiepolo, con il 2° posto al Giro del Friuli (foto Instagram)Per Viezzi una discreta stagione su strada per il Team Tiepolo, con il 2° posto al Giro del Friuli (foto Instagram)
Belgio e Olanda? Semplici comparse…
Continuiamo nel confronto fra le due epoche, partendo dalle prove di Viezzi, che ha avversari di valore, ma pochi provenienti dalle due patrie della specialità, Belgio e Olanda. Perché?
«E’ una bella domanda. Io credo – ragiona – che nelle categorie giovanili ci sia maggior concorrenza, tanti Paesi operano nel cross e possono emergere. Ogni gara è a sé, dipende dalle caratteristiche del corridore che si mette in luce su questo o quel percorso. Poi arrivando fra i professionisti, le due scuole principali fanno leva sul loro movimento di gare e prendono il sopravvento».
«Quando io vinsi il mondiale – annota Malacarne – il secondo fu uno svizzero che poi ha avuto una lunga carriera nel ciclocross, terzo un tedesco che fino a due anni fa correva con la Bora. Belgi e olandesi? Neanche visti. Concordo con Stefano, quel che cambia con la crescita è la situazione culturale: in Belgio e Olanda con il cross si può vivere bene, si monetizza, c’è un gran movimento di gare con cui non possiamo competere. Ma pian piano anche altri Paesi stanno emergendo, la stessa Gran Bretagna non è più legata solo a Pidcock, tanto per fare un esempio».
Davide Malacarne si è ritirato da qualche anno. Lavora per Gobik e Ridley e conserva con cura i suoi ricordiDavide Malacarne si è ritirato da qualche anno. Lavora per Gobik e Ridley e conserva con cura i suoi ricordi
Lo stimolo Philipsen
E’ il momento di chiudere la piacevole parentesi, ma prima Davide ha un augurio da fare: «Stefano, il talento e il tempo sono dalla tua parte, vai avanti su questa strada e pensa che è decisamente ora di riportare quella maglia a casa. E magari non solo quella…».
«Ce la metterò tutta – risponde fiero Viezzi – non ho paura di chi mi troverò davanti. So che anche Philipsen sta per arrivare, che punta alla terza maglia iridata dopo quelle su strada e in mtb: sarà uno stimolo in più…».
ROMA – In città per assistere a un musical al Teatro Brancaccio che vede sua figlia Giulia Sol come protagonista, Gabriele Sola si presta al racconto, che parte dal ciclismo e arriva alla sua nuova vita (nella quale è incluso anche il cambio del cognome). Un passo per volta, tuttavia. Quando non c’erano gli addetti stampa, se con il corridore avevi sufficiente confidenza, l’intervista si faceva in camera oppure ai massaggi. Altrimenti, se il compagno di stanza stava riposando, ci si dava appuntamento nella hall. I cellulari non c’erano, i social e i loro ideatori erano ancora embrioni. In questo quadro decisamente nostalgico, Gabriele Sola fu il primo degli addetti stampa italiani.
Dopo essersi dimesso dalla Regione Lombardia rinunciando al vitalizio, Gabriele Sol è oggi un mental coachDopo essersi dimesso dalla Regione Lombardia rinunciando al vitalizio, Gabriele Sol è oggi un mental coach
Un giornalista della radio
La Mapei aveva appena salvato la Eldor-Viner di Marco Giovannetti, subentrando come sponsor nel 1993. E quando successivamente si trattò di strutturare la squadra a cubetti che, in un modo o nell’altro, avrebbe fatto la storia del ciclismo italiano, Giorgio Squinzi si guardò intorno e decise di introdurre qualcuno che facesse da filtro nei rapporti con i media. Ai tempi si ragionava di grandi giornali, riviste, radio e televisioni. E l’unica squadra ad essere già dotata di una figura del genere era la Banesto, che per fare muro attorno a Miguel Indurain aveva investito del ruolo Francis Lafargue.
«In realtà – ricorda Gabriele con un bel sorriso – la figura che era stata individuata da Squinzi era lo stesso Giovannetti. Lo aveva sempre apprezzato, è una persona talmente ricca su piano personale e bravo nelle relazioni, che la scelta era caduta su di lui. Credo però che Marco in quella fase avesse compreso che non era quello che desiderava fare e declinò l’offerta. Io arrivai a fine 1995. Nel frattempo avevo lavorato con RTL102,5 e avevo iniziato una collaborazione con Telemontecarlo, che faceva la trasmissione Ciclissimo con Davide De Zan. Mapei era uno degli sponsor, quindi ci fu modo di conoscersi e da lì partì il progetto».
Fino a quel momento, il solo team con un addetto stampa era la Banesto, con Lafargue per Indurain (foto El Diario Vasco)Fino a quel momento, il solo team con un addetto stampa era la Banesto, con Lafargue per Indurain (foto El Diario Vasco)
Qual era lo scopo? Avvicinare la stampa alla squadra o tenerla lontana?
Gestire la stampa. A volte avvicinarla, tenerla lontana mai. Credo che uno degli aspetti che portò alla scelta del sottoscrittore fu proprio il fatto che venissi dal mondo del giornalismo. L’anno precedente ero al Tour de France e ci fu un incidente diplomatico con Rominger.
Cosa accadde?
Da bravo giornalista rampante, gli arrivai davanti dopo una cronosquadre che non era andata particolarmente bene e gli feci una domanda secca. Tony, che parlava benissimo italiano, mi rispose in inglese o francese, dicendomi: «Ma è possibile che un giornalista al Tour de France mi faccia una domanda in italiano? Forse è il caso che tu vada a fare il Giro d’Italia». Mi trattò malissimo. Immaginate la sorpresa quando al primo giorno di lavoro in Mapei, mi ritrovai a lavorare con lui.
Quale compito ti fu affidato?
Mi fu chiesto di mediare. L’idea era di agevolare l’interazione tra tutte le parti, facendo in modo che si trovassero dei punti di equilibrio. Quindi in alcuni momenti è capitato di dover limitare un po’ la stampa, in altri è stato il contrario.
La Mapei nacque per la spinta del patron Giorgio Squinzi, che creò un patto di acciaio con Aldo SassiLa Mapei nacque per la spinta del patron Giorgio Squinzi, che creò un patto di acciaio con Aldo Sassi
Per il ciclismo italiano era un periodo di grande popolarità e grandi campioni, non c’erano ancora i social. Forse era davvero un altro mondo…
Manco da parecchio, ma forse in quel periodo c’era più rispetto delle reciproche esigenze. C’era un rapporto di calore umano, a volte anche conflittuale. C’erano tensioni, ma anche momenti meravigliosi di unione. Il racconto dello sport veniva trasposto in una dinamica molto accesa, oggi molto meno. Leggo ancora i giornali e mi sembra che su quel versante sia tutto un pochino impoverito. E questo nonostante ci siano più strumenti per interagire. Anche i social, usati in un certo modo, potrebbero consentire un’interazione migliore. Il fatto che non sia più così forse arriva anche alla gente, perché alla fine diventa tutto un po’… plasticoso. Un certo stile va bene per le altre discipline, non per il ciclismo.
Percepivi nei corridori la voglia di raccontarsi?
Allora (sorride, ndr), c’erano corridori e corridori. Franco Ballerini era un grande narratore. Percepivi davvero il piacere di raccontare, non lo faceva per esibizionismo, come alcuni suoi colleghi di cui non faccio il nome. Franco aveva il piacere di condividere con i giornalisti l’esperienza che viveva. E quando raccontava, ti sembrava essere in bicicletta con lui, come se volesse rivelarti le sensazioni più profonde e autentiche del suo vivere il ciclismo. Soprattutto al Nord.
Franco era una grande eccezione?
Di sicuro, c’erano quelli che tendevano a sgomitare per farsi vedere e anche quelli estremamente riservati e chiusi, che quasi consideravano il dover incontrare i giornalisti un dovere ingiustificato. E allora toccava a me spiegargli che facesse parte del loro lavoro e che la giornata non finiva nel momento in qui tagliavano il traguardo. Ho avuto a che fare con persone molto diverse, con cui negli anni si sono create belle interazioni.
Bartoli vince la Freccia Vallone 1999 sotto la neve: Gabriele ricorda distintamente il freddo di quel giornoBartoli vince la Freccia Vallone 1999 sotto la neve: Gabriele ricorda distintamente il freddo di quel giorno
Qualche esempio?
Quella con Gianni Bugno, che poi è stato padrino di mio figlio. Col tempo abbiamo fatto alcune cose molto belle. Mi piace pensare che il Gianni della Mapei fosse diverso da quello degli anni precedenti. E poi Bartoli, con cui ho vissuto una complicità bellissima. Michele era talmente immerso nel trip della competizione, che con lui creai una specie di routine. Per 2-3 minuti dopo l’arrivo, andava blindato. A quel punto, una volta sbollita l’adrenalina, tornava una persona meravigliosa. Una delle persone più belle e autentiche che abbia conosciuto nel mondo del ciclismo. E questo a volte è stato il suo problema nelle relazioni con i giornalisti, perché era davvero schietto. Arginarlo nel dopo gara era un modo per tutelarlo soprattutto da se stesso…
Quali sono gli episodi che porti con te?
Ce ne sono diversi. Uno proprio con Michele, quando vinse la Freccia Vallone del 1999 sotto una nevicata terribile. Dopo l’arrivo era veramente intirizzito e mi ricordo che gli diedi il mio giubbino. Mi guardò come per dire «Grazie». Non me lo disse, bastò lo sguardo. Invece un episodio da ridere ci fu proprio con Bugno.
Cosa successe?
Un giorno al Tour de France, c’era la crono e come al solito ci dividevamo per seguire i corridori. Io di solito ero dietro qualche gregario, invece la sera prima Gianni chiese che seguissi lui. A me prese un colpo. Gli dissi: «Gianni, sei sicuro? Io ho due mani sinistre, non sono capace di aiutarti. Se capita una cosa alla bicicletta, sei fritto…». Lui invece disse che non avrebbe fatto la crono al massimo e così il giorno dopo mi misi nella sua scia con la mia Ulysse tutta cubettata.
Bugno è stato uno degli atleti seguiti da Gabriele Sol, che ne è poi diventato amicoBugno è stato uno degli atleti seguiti da Gabriele Sol, che ne è poi diventato amico
Andò bene?
Era pieno di tifosi in mezzo alla strada. Faceva veramente paura, perché lui era popolarissimo in Francia. A un certo punto però alza la mano, problema meccanico: terrore. Mi avvicino. Lo affianco. E lui mi fa: «E’ un Ecureuil». E mi descrive la marca e le caratteristiche dell’elicottero della televisione che lo stava inquadrando dall’alto. Questi sono due episodi personali, ma ci sono state anche fasi più complesse.
Ad esempio?
Eravamo al Tour e Rominger era particolarmente in difficoltà. Non stava bene e cominciava a perdere sicurezza nei suoi mezzi. Poiché è molto intelligente, creammo una sorta di narrazione parallela a quella reale. Non si negò mai all’attenzione dei media, solo che per proteggerlo decidemmo di raccontare una versione che non rivelasse al mondo esterno il suo momento di difficoltà.
Per finire, che personaggio è stato per te Giorgio Squinzi?
Fantastico. Io ero tra i pochi che spesso veniva chiamato nel suo ufficio al sesto piano. E nel momento in cui il ciclismo entrava nella sua stanza, era come se si accendesse la luce. E’ stato un grandissimo imprenditore con lo stress delle sfide adeguate al suo ruolo. Ma quando veniva alle corse, guai se non c’era la pastasciutta aglio, olio e peperoncino fatta da Giacomo Carminati. C’era tutto un insieme di rituali, complicità e situazioni che lui viveva intensamente. L’ammiraglia, il pullman, iIl rapporto con il corridore e con tutti i membri dello staff. Viveva tutto con grande generosità e si stupiva di vedere che per altri non fosse lo stesso. Io non l’ho mai vissuto nei panni di presidente di Confindustria o in una trattativa importante, ma credo che lo Squinzi visto nel ciclismo, fosse il vero Squinzi.
Mondiale di Varese, Bettini e Gabriele Sol, che faceva parte dell’organizzazione: per entrambi l’ultima corsaMondiale di Varese, Bettini e Gabriele Sol, che faceva parte dell’organizzazione: per entrambi l’ultima corsa
Perché finì?
Nel 1999 venni contattato dalla Juventus. C’era la possibilità di prendere il posto di capo ufficio stampa e io mandai il curriculum. Questa cosa credo non la sappia praticamente nessuno. Mi chiamarono a fine Vuelta. A ottobre ci furono tutti i colloqui ealla fine scelsero me. Avrei iniziato il 2 novembre del 1999, senonché mia moglie si mise di traverso. Non voleva andare a Torino. Giulia aveva appena quattro anni e alla fine rinunciai. Solo che lo avevo già detto a Squinzi. Lui non era stato entusiasta, mi aveva lasciato andare a malincuore, essendo per giunta milanista. Così quando tornai indietro, mi aprì le porte, però percepii che le cose erano cambiate. Perciò nel 2000 aprii la mia agenzia e iniziammo a seguire la Liquigas, una parte della comunicazione internazionale per il Tour de France e nel 2008 i mondiali di Varese.
Sappiamo della carriera politica in Regione Lombardia e ora del tuo lavoro di mental coach. Hai mai sentito la mancanza del ciclismo?
La parentesi politica fu istruttiva è un po’ distruttiva. Sono felice di seguire alcuni corridori, ma con la conoscenza attuale, mi piacerebbe essere più dentro al mondo del ciclismo: il cuore è lì. Non vengo più alle corse, perché rischio di star male e quindi me le guardo in TV. E nel frattempo abbiamo anche cambiato nome. Abbiamo seguito nostra figlia Giulia. Lavorando come artista a Roma, ha scelto come nome d’arte Giulia Sol. Finché un bel giorno, dato che come mental coach lavoro in tutta Italia e faccio pubblicità sul web, ho pensato che chiamarsi Sola non fosse un bel biglietto da visita. Così siamo andati dal Prefetto e abbiamo tutti cambiato cognome. Esattamente un anno fa sono diventato Gabriele Sol, ma per il resto giuro che sono sempre lo stesso.
Beppe Damilano, tecnico di grande esperienza, entra nel dibattito aperto da Bartoli. Il confronto fa crescere, lo squilibrio uccide il settore giovanile
Nell’inverno dei ciclisti la palestra assume un ruolo di grande importanza. Tanti esercizi di riattivazione passano attraverso dei macchinari oppure esercizi a corpo libero. L’equilibrio da trovare tra palestra e bici è delicato. Quindi come si uniscono questi due tipi di allenamento? Andrea Giorgi, preparatore della Green Project-Bardiani CSF-Faizanè, ce lo racconta.
«Partiamo dal presupposto – dice subito – di chiederci a cosa serva la palestra per un ciclista. La performance si divide in tre aree: aerobica, anaerobica ed efficienza. In bici si allenano le prime due, mentre la palestra agisce sull’efficienza. Ci sono degli studi che dicono che se un atleta va in palestra, migliora l’efficienza della pedalata. E chi è efficiente ha una migliore durabilità, ovvero alte prestazioni in fasi di affaticamento. Per capirci dopo le 5 ore in sella».
Il dottor Andrea Giorgi dal 2023 è parte dello staff del team Green Project-Bardiani CSF-FaizanèIl dottor Andrea Giorgi dal 2023 è parte dello staff del team Green Project-Bardiani CSF-Faizanè
Come si inserisce nell’allenamento?
L’atleta farà palestra con degli obiettivi. Un ciclista ha come esercizio principale quello di endurance. Allenarsi agli attrezzi e poi andare in bici non induce ad un’ipertrofia muscolare. Queste due attività contribuiscono a ridurre la massa grassa, favorendo la muscolatura.
Si tratta di trovare un giusto equilibrio?
Esatto. La palestra toglie tempo alla specificità, ma allo stesso tempo è utile per migliorare l’efficienza. Bisogna trovare il giusto compromesso tra le ore fatte in sella e quelle passate in sala pesi. Quest’ultima non è l’attività principale del ciclista, quindi è più facile che alla fine di una sessione di allenamento si abbia mal di gambe. Di conseguenza il giorno dopo non si possono fare determinati lavori in bici.
Prima di uscire in bici dopo un allenamento in palestra, Giorgi fa aspettare i suoi corridori fino a sei orePrima di uscire in bici dopo un allenamento in palestra, Giorgi fa aspettare i suoi corridori fino a sei ore
Ci spieghi meglio.
Una sessione di allenamento in palestra prevede del recupero, che sono ore in meno passate in bici. Per questo io preferisco metterla a inizio stagione. Degli studi dimostrano che i benefici degli allenamenti in palestra si perdono in 8 settimane.
Veniamo all’uscita in bici post palestra…
Uno studio del 2021 dice che conviene aspettare tra le due e le tre ore prima di salire in bici. Questo sistema di attesa è necessario solamente per gli elite, non si sa ancora il perché ma ci sono due ipotesi. La prima è che gli atleti professionisti lavorano in maniera pesante in palestra. Il secondo motivo è legato ai volumi, che nei pro’ sono molto maggiori. Io preferisco fa attendere anche sei ore ai miei atleti prima di farli salire in bici.
I lavori su strada vanno a sollecitare le componenti muscolari allenate in palestraI lavori su strada vanno a sollecitare le componenti muscolari allenate in palestra
E cosa fanno una volta in sella?
Un’uscita di un’ora o un’ora e mezza, anche sui rulli. Qualche lavoro come possono essere degli sprint da 10” per sei volte. Il totale dei lavori è di 15 minuti, il resto è tutto in Z2. Si fa un minimo richiamo di lavori dove si attivano delle componenti muscolari che hai deciso di allenare precedentemente in palestra.
Ipotizziamo una settimana tipo? Magari con due sessioni in palestra…
Lunedì palestra con esercizi sulla forza per un totale di una o due ore. Poi un’oretta di rulli la sera. Martedì scarico, quindi un paio d’ore in Z2. Mercoledì bici con lavori in cambio di frequenza, da 50 a 110 pedalate al minuto a ritmo medio-alto. Giovedì e venerdì stessi lavori che si sono fatti lunedì e martedì. Mentre nel weekend aumentano le ore in bici. Il sabato un lungo di 5 ore con lavori anche ad alta intensità. La domenica 4 ore più tranquille.
Gli allenamenti a gamba singola in palestra servono a riprodurre la dinamica della pedalataGli allenamenti a gamba singola in palestra serve a riprodurre la dinamica della pedalata
Questo per quanto?
Per le prime due settimane. Poi tolgo lo scarico e metto qualche ora in più in bici, magari tre o quattro.
Hai parlato di allenamento ai rulli, come mai?
Per fare degli allenamenti a gamba singola. Il ciclismo è uno sport dove si pedala con due gambe, ma in maniera disgiunta. In palestra si cerca di allenare questa cosa con esercizi alla pressa, utilizzando una sola gamba o facendo degli affondi. Sui rulli questa caratteristica si allena con esercizi ad una gamba che attivano la coordinazione neuromuscolare. Aiutano l’atleta a concentrarsi per trovare la rotondità di pedalata. Serve usare il rapporto giusto e accompagnare bene il pedale.
E durante la stagione la palestra si mantiene?
Io la accantono. Al massimo inserisco un richiamo ogni dieci giorni, ma lontani dalle corse.
Si parla sempre tanto, di questi tempi, dei “tre tenori” come paladini della multidisciplina, ma guardando i calendari che Van Der Poel, Pidcock e Van Aert hanno messo a punto per la stagione di ciclocross, ci si accorge che anche loro sono stati costretti a mettere da parte tante velleità individuali. Soprattutto considerando che siamo nell’anno olimpico, che certamente influisce e cambia gli equilibri, perché una medaglia a cinque cerchi fa gola a tutti e vale una carriera intera.
Mathieu Heijboer ha preso da quest’anno le redini della preparazione di Van Aert (foto Photonews)Mathieu Heijboer ha preso da quest’anno le redini della preparazione di Van Aert (foto Photonews)
Preparazione rimodellata
Focalizzandosi su Van Aert, si nota che il suo programma di cross sia stato fortemente compresso: per ora sono ufficiali appena 8 gare, partendo dalla prova dell’Exact Cross di Essen. Il belga ha tenuto aperta la porta a un paio di altre uscite, per cercare di calmare gli animi in seno all’Uci che non vedono assolutamente di buon occhio la poca considerazione che i tre tenori (ma anche altri) hanno nei confronti della challenge ufficiale della federazione privilegiando altre, più remunerative gare.
Ma la scelta di Van Aert ha radici profonde, che il suo allenatore Mathieu Heijboer ha specificato in un’intervista rilasciata al media belga Sporza, nella quale ha chiarito anche quale sia il suo apporto. Il tecnico ha già lavorato con Van Aert facendo parte dello staff della Jumbo-Visma (dal 2024 Visma-Lease a Bike) in qualità di Head of Performance, ma in vista del delicatissimo 2024 ha preso direttamente in mano la situazione diventando il referente principale di Wout. Una scelta voluta anche da quest’ultimo, che si è reso ben conto di come fosse necessario cambiare qualcosa per centrare importanti appuntamenti dopo troppe vittorie sfuggite di un nulla.
Van Aert al Tour, a lavorare per Vingegaard. Ora però cerca una nuova dimensione al GiroVan Aert al Tour, a lavorare per Vingegaard. Ora però cerca una nuova dimensione al Giro
Conta il lavoro sul fondo
Heijboer ha affrontato la questione di petto, cambiando completamente l’approccio alla primavera, primo vero pilastro della stagione del fiammingo. Ciclocross mantenuto in agenda, ma in maniera “soft”, evitando soprattutto lo stress e le fatiche del mondiale, sia dal punto di vista fisico che per evitare una nuova sconfitta pesante dal punto di vista psicologico.
«Il ciclocross – ha spiegato Heijboer – dovrebbe essere un punto fondamentale nella sua stagione e non un punto di rottura. Ma io devo guardare il quadro generale di una stagione più difficile delle altre. Wout vorrebbe sicuramente fare più gare e scalpita per iniziare a competere, ma capisce che tutto vada visto in prospettiva. L’inverno è incentrato sulle prestazioni della primavera, c’è da lavorare sul fondo che è fondamentale per avere la condizione giusta al momento giusto».
Il belga con VDP alla Roubaix. Nel ciclocross si sfideranno durante le Feste, ma non al mondialeIl belga con VDP alla Roubaix. Nel ciclocross si sfideranno durante le Feste, ma non al mondiale
Recupero post-ciclocross
Heijboer ha messo l’accento su quanto comporta l’attività del ciclocross: «Ho guardato le stagioni precedenti, notando che la preparazione dei mondiali di ciclocross e il successivo necessario periodo di decompressione hanno influito fortemente sulla sua primavera, a prescindere dai risultati e dalle sue vittorie. Wout doveva prendersi necessari periodi di riposo prima delle classiche, questi hanno influito sulla sua forma, quindi andava ripensato il tutto, ridistribuita la sua attività. Io voglio che Wout arrivi al Fiandre e alla Roubaix affamato, carico, fisicamente in piena evoluzione. Con un programma più limitato so che non ci saranno più lacune nella sua preparazione».
Per Van Aert è un sacrificio importante, ma fatto di buon grado considerando anche che sulla soglia dei 30 anni, vuole anche cambiare un po’ le sue caratteristiche. Non è un segreto il fatto che dopo anni il belga abbia deciso di saltare il Tour de France e soprattutto di rivedere il suo ruolo nei grandi Giri, come regista in corsa e luogotenente dei capitani deputati alla conquista del simbolo del primato. Van Aert punta ormai apertamente al Giro d’Italia (anche se nei giorni scorsi ha raccontato a La Lanterne Rouge di avere a cuore le tappe più che la classifica), con tutte le incognite che ciò comporta.
Dopo la doppia piazza d’onore di Tokyo, per Van Aert l’appuntamento olimpico di Parigi è fondamentaleDopo la doppia piazza d’onore di Tokyo, per Van Aert l’appuntamento olimpico di Parigi è fondamentale
No alla Sanremo
Per questo il suo calendario su strada sarà molto diverso dal solito. Esordio alla Volta ao Algarve a metà febbraio e niente Milano-Sanremo, puntando invece alla Strade Bianche. Nel periodo delle classiche “all in” sulle prove del Nord, Fiandre e Roubaix con l’intenzione di fare la magica doppietta. Poi l’avvicinamento al Giro E solo poi, mente focalizzata sulla preparazione delle sfide di Parigi, a cronometro e in linea su un percorso che potrebbe esaltare le sue caratteristiche. E se c’è da fare qualche rinuncia, ben venga: all’Uci se ne dovranno fare una ragione…
Dopo la Coppa del mondo di Vermiglio, la Val di Sole rilancia sul ciclismo. Dalla sfida nella neve, al gravel estivo. E il ciclocross tornerà il 17 dicembre
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