Gualdi, il bilancio della Due Giorni di Vertova e non solo…

09.09.2025
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La Due Giorni Ciclistica Internazionale Juniores di Vertova si è confermata uno degli appuntamenti più prestigiosi del calendario giovanile italiano. Una gara che mette a confronto i migliori talenti nazionali con alcune delle squadre più forti d’Europa, diventando un banco di prova fondamentale per misurare il livello del movimento juniores (in apertura foto Zanetti).

Con Patrick Pezzo Rosola grande protagonista, Mirco Gualdi – organizzatore della corsa – traccia un bilancio della manifestazione, analizzando le differenze con il ciclismo straniero e riflettendo sul futuro dei giovani in Italia.

Mirco Gualdi, ex iridato fra i dilettanti, ora nell’organizzazione della due giorni bergamasca
Mirco Gualdi, ex iridato fra i dilettanti, ora nell’organizzazione della due giorni bergamasca
Mirco, partiamo dalla tua gara: sei soddisfatto? Come è andata?

Allora, soddisfatto perché innanzitutto non ci sono stati incidenti e quindi nessuno si è fatto male. Questo è il primo risultato minimo. Non abbiamo avuto problematiche legate al traffico. Ci sono state delle cadute, ma solo piccole sbucciature, nulla di grave. Dal punto di vista tecnico e organizzativo è filato tutto liscio: avevamo più di 100 volontari sul percorso.

Quindi i presidi erano capillari?

Sì, praticamente in ogni comune avevamo qualcuno. A volte chiedo 15 persone e loro ne portano 20. Molti tornano ogni anno volentieri. A ottobre facciamo una cena con tutti i volontari e gli sponsor per ringraziarli pubblicamente. Rispetto a dieci anni fa i corsi e i vincoli burocratici sono raddoppiati, ottenere permessi è diventato complicato e sfiancante. Gli enti proprietari delle strade ti obbligano a farti carico al 100 per cento della responsabilità.

E l’aspetto tecnico delle gare?

Il sabato è stato velocissimo: più di 47 orari di media su un tracciato tortuoso a metà e scorrevole nell’altra. Il gruppo correva a oltre 50 orari, con tanti attacchi. Alla fine si è formato un quartetto e i due ragazzi della Team Grenke, Anatol Friedl e Karl Herzog, hanno giocato di squadra. Ha vinto un corridore che da poco è diventato campione europeo di mountain bike juniores, segno che la famosa multidisciplinarità paga.

Al sabato l’arrivo in parata dei due tedeschi Karl Herzog e Anatol Friedl (poi vincitore) del Team Grenke. (foto Zanetti)
Al sabato l’arrivo in parata dei due tedeschi Karl Herzog e Anatol Friedl (poi vincitore) del Team Grenke. (foto Zanetti)
E la domenica?

E’ stata ancora una gara tirata. Gli italiani hanno fatto una bella figura, correndo senza timori reverenziali. C’erano due delle migliori squadre danesi, altre formazioni straniere di altissimo livello, e diverse squadre del Nord Italia. Il secondo posto è andato a Patrick Pezzo Rosola, il quarto a Mattia Agostinacchio.

Abbiamo avuto cinque italiani nei primi dieci: un bel segnale…

Infatti eravamo contenti. Altrimenti diventa un monologo straniero e dispiace, visto che l’organizzazione è per tutti. Se gli italiani emergono, l’appeal della corsa cresce.

Come ti è sembrato il movimento juniores rispetto a qualche anno fa?

La differenza è che le squadre straniere crescono, mentre alcune realtà italiane faticano. All’estero i team juniores sono legati a strutture professionistiche: ad esempio la Grenke è il vivaio della Red Bull-Bora. Quest’anno non c’era la Decathlon-AG2R, ma il livello è quello. Sono ragazzi che corrono gare 1.2 e hanno già un approccio internazionale.

Il giorno dopo, Georgs Tjumins conquista il Trofeo Paganessi
Il giorno dopo, Georgs Tjumins conquista il Trofeo Paganessi
In cosa consiste questo approccio?

E’ diverso: all’estero vedono i ragazzi come uomini, non come bambini. Li lasciano crescere, sbagliare, maturare. In Italia hai procuratore, mental coach, preparatore, ma il giovane resta “solo un ragazzo” e al tempo stesso è sotto pressione per fare risultato a tutti i costi. Se non porti punti da juniores, rischi di non trovare squadra under 23. All’estero magari hanno meno, ma come detto vengono trattati da uomini.

Chiaro…

E poi servono direttori sportivi, ma non ce ne sono se vuoi fare una doppia attività. I genitori non possono accompagnare e di conseguenza qualche ragazzo deve rinunciare a correre quella domenica. Con Giuseppe Guerini e altri ex corridori giriamo a turno con i ragazzi, ma il legame tra chi dirige e la realtà sembra mancare. Il rischio è che, senza un cambio di mentalità, molte squadre spariranno.

Il discorso è davvero ampio….

Quali obiettivi ci poniamo? L’obiettivo di avere un vivaio rifornito o, se capita, qualche campione? Noi come UC San Marco Vertova facciamo promozione nelle scuole e nelle piazze, ma è tutto volontariato. Non esiste un sistema federale che sostenga queste iniziative, né tutele legali. Se un bambino si fa male provando la bici, la responsabilità è nostra. Se continua così, serviranno accademie federali provinciali. Intanto però chiudono le squadre più grandi, che garantivano rimborsi ai ragazzi.

Patrick Pezzo Rosola quest’anno è stato anche in Nazionale. Dal DNA offroad si sta spostando verso la strada con ottimi risultati
Patrick Pezzo Rosola quest’anno è stato anche in Nazionale. Dal DNA offroad si sta spostando verso la strada con ottimi risultati
Veniamo a Patrick Pezzo Rosola: come lo hai visto?

Non ho avuto modo di parlarci molto, ero preso dall’organizzazione. L’ho visto un po’ contrariato dopo l’arrivo. Bisogna capire se lo fosse perché deluso, o per il modo in cui è stato battuto. Nel finale c’era un’inversione a U, il campione lettone a cronometro, Georgs Tjumins , è entrato fortissimo e ha preso subito due metri. Che all’uscita della curva sono diventati, tre, quattro, sette… Forse Patrick pensava che con un approccio diverso avrebbe potuto cambiare l’esito.

Alla fine però ha fatto una grande gara…

Esatto, è stato il migliore sulla salita finale, non si è fatto riprendere dal gruppo. Dopo 130 chilometri durissimi, vuol dire avere gamba e carattere. Ma torno al punto: le squadre straniere hanno un programma internazionale incredibile, tra Germania, Belgio, Olanda e Francia. Gli italiani invece non sono stati nemmeno alla Parigi-Roubaix juniores quest’anno. Senza esperienze fuori, cosa pretendiamo?

E quindi il nodo resta quello delle corse internazionali?

Assolutamente. La Federazione dovrebbe dire: “La Due Giorni di Vertova diventa la nostra Coppa del Mondo juniores. Cosa vi serve?”. Noi ospitiamo 17 squadre straniere e 18 italiane, metà del budget va per vitto e alloggio. Quasi tutti gli altri sono volontari, appassionati ed amici che lavorano gratis. Serve una visione d’insieme: i ragazzi italiani devono correre di più all’estero e avere appuntamenti di riferimento anche in patria.

La storia prestigiosa del Paganessi. Il racconto di Gualdi

07.09.2023
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Per un bergamasco il Trofeo Paganessi è qualcosa di particolare, talmente radicato nella tradizione locale che non può andare assolutamente perso. Non è quindi un caso se una gloria locale come Mirco Gualdi si sia mosso in prima persona per tenere in vita la due giorni ciclistica riservata agli juniores, che ha visto al sabato la vittoria di Davide Donati nella sfida a due contro il belga Jarno Widar e il giorno dopo la rivincita di quest’ultimo (apertura, foto Il Giorno), ultimo astro nascente della categoria.

Gualdi però non è il solo a essersi messo in gioco, perché anche altri grandi nomi del ciclismo locale lo hanno fatto: «Praticamente c’è stato un passaggio di consegne ai vertici della società San Marco Vertova e siamo stati coinvolti io e Giuseppe Guerini. Siamo tutti da sempre legati al sodalizio e ci siamo messi all’opera per la parte organizzativa della due giorni, ma non solo, perché pensiamo anche alla ristrutturazione della società partendo dai giovanissimi. Bisogna considerare che qui i bambini sono fortemente orientati a identificare la bici con la mtb più che con il ciclismo su strada, noi facciamo in modo di ampliare i loro orizzonti».

Mirco Gualdi, ex iridato fra i dilettanti ora nell’organizzazione della due giorni bergamasca
Mirco Gualdi, ex iridato fra i dilettanti ora nell’organizzazione della due giorni bergamasca
La cosa che colpisce parlando del Trofeo Paganessi è l’enorme riscontro che ha all’estero, richiamando tutti i principali team internazionali…

Diciamo che è una gara che si autopromuove, non è che facciamo particolare pubblicità all’estero. Ma d’altronde è stato così da sempre. Potrei fare un elenco lunghissimo di campioni passati da queste parti, basti dire che almeno 60 corridori fra attuali WorldTour e professional hanno gareggiato al Paganessi. Fra loro gente come Ganna, Pogacar, Hirschi, Ewan, Skjelmose, ma potrei andare avanti per ore. Se poi guardiamo al passato, spuntano i nomi di Bugno, Argentin, Bettini… Ma a proposito del richiamo all’estero, la storia del Paganessi dice qualcosa di originale.

Che cosa?

Bisogna tornare all’immediato dopoguerra, quando dalle nostre parti ci fu un vero esodo verso l’estero. Quando la società nacque e lanciò il trofeo, alcuni dirigenti avevano cugini in Francia che provarono a sondare il terreno fra le equipe d’oltralpe, così aprirono le porte, poi vennero i team svizzeri e man mano l’elenco è andato sempre ingrossandosi. Quest’anno c’erano 20 team esteri su 36 e tantissime richieste italiane e straniere sono rimaste purtroppo inevase.

Il podio dell’ultimo Trofeo Vertova, vinto da Donati davanti al belga Widar e a al danese Louwlarsen (photors.it)
Il podio dell’ultimo Trofeo Vertova, vinto da Donati davanti al belga Widar e a al danese Louwlarsen (photors.it)
E il Trofeo Vertova?

Ci accorgemmo nel tempo che per i team stranieri spostarsi per una sola gara diventava dispendioso, ma c’era la disponibilità a trovare una soluzione perché tenevano troppo a esserci. Si pensò così di unire al Paganessi un altro evento, il giorno prima, in modo da permettere alle squadre di sostenere una trasferta onerosa con un giusto contrappunto: due gare in due giorni che diventavano anche un bel test per i propri corridori. In questo modo vengono più volentieri anche perché le gare sono profondamente diverse: quella del sabato è un circuito alla belga, con strappi, pavé, strade strette; quella della domenica una classica vera e propria, con un sviluppo più lineare.

La risonanza crescente della gara vi stupisce?

Fino a un certo punto, diciamo che siamo noi organizzatori che dobbiamo stare al passo. Quest’anno ad esempio c’è stata la prima diretta televisiva tramite il canale Bici Tv. Inoltre abbiamo coinvolto direttamente i Comuni attraversati dal percorso per fare del Paganessi anche un richiamo turistico e tramite loro sono stati coinvolti i produttori della zona, le aziende che hanno capito come la corsa potesse essere un ottimo veicolo promozionale anche all’estero. Il nostro intento è rendere l’evento pienamente autosufficiente: se un domani il Comune non dovesse più essere titolare della sua gestione insieme alla società – ma non c’è alcuna avvisaglia che lo faccia pensare – avremo comunque le forze per andare avanti insieme agli sponsor che ci affiancano.

L’arrivo vittorioso di Jarno Widar dall’alto, in una giornata piovosa (foto Benagli)
L’arrivo vittorioso di Jarno WIdar dall’alto, in una giornata piovosa (foto Benagli)
Tornando ai nomi del passato, non hai citato il tuo…

E’ curioso il fatto che per me che tenevo in maniera spasmodica a questa gara, non ci fu fortuna. Il primo anno avevo una gran gamba, ero stato terzo ai tricolori, ma caddi il giorno prima e vidi sfumare la mia presenza. L’anno dopo avevo la sinusite e non andavo avanti, così dovetti rinfoderare le mie aspettative.

Guardando al passato, che cosa è cambiato nel ciclismo degli juniores?

E’ difficile dare una risposta secca. Notavo ad esempio che quest’anno le velocità sono state le stesse dello scorso anno, ma quel che noto è l’atteggiamento dei ragazzi. Hanno tutti un approccio alla Pogacar o Evenepoel, attaccano sempre, senza tatticismi. Ai nostri tempi si stava molto più a ruota. Io ho visto corridori che hanno già nel sangue la professione, che attaccano 7 volte in 10 chilometri, che toccano velocità altissime. Uno come Widar è già pronto per livelli più alti e infatti ha già firmato con la Soudal, ma non è neanche un caso se ilquarto e il quinto del Paganessi (Storm e Fietzke, ndr) sono stati nella top 5 anche al mondiale.

Trofeo Paganessi 2014: un giovanissimo Filippo Ganna stacca tutti e vince in solitudine
Trofeo Paganessi 2014: un giovanissimo Filippo Ganna stacca tutti e vince in solitudine
Negli ultimi 10 anni ci sono state vittorie italiane con Ganna, Conci, Piccolo e Meris. Secondo te quanto attenderemo per rivedere un italiano primo al traguardo?

Donati ha dimostrato che il livello dei nostri juniores è all’altezza. Io mi aspettavo un acuto dal mio omonimo Gualdi, ma sabato era caduto e aveva un dito steccato e 4 punti al mento, eppure ha chiuso 11° mancando di un nulla l’aggancio col gruppetto che si è giocato la vittoria. Io dico che non dovremo attendere molto, abbiate fiducia…

Gualdi Mondiali 1990

Gualdi, raccontaci: com’è sudare (e vincere) in Giappone?

20.07.2021
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Fra i tanti vincitori di titoli mondiali nel ciclismo italiano, Mirko Gualdi riveste un ruolo particolare, almeno in questi giorni, perché conquistò il suo titolo (allora fra i dilettanti) nel 1990 a Utsunomiya, nel lontano Giappone. Il Paese dove ormai tra un pugno di giorni ci si giocherà il titolo olimpico, ossia l’ingresso nella leggenda. Sono passati tanti anni e la vita di Gualdi, da quel giorno, è trascorsa attraverso mille peripezie, ma alcuni particolari di quella gara sono ben presenti nella memoria e possono essere anche un buon bagaglio di esperienze per Cassani & C.

Se gli si chiede che cosa ricorda inizialmente, il lombardo non ha dubbi: «Il caldo… gareggiammo fra i 35 e i 38 gradi con l’85 per cento di umidità. Ricordo soprattutto una ricognizione sulla salita più dura nei giorni precedenti. In cima mi tolsi la maglietta, la strizzai e colava acqua come tirata fuori dalla lavatrice senza centrifuga… ».

Come vi difendeste da quel caldo opprimente?

Borracce di acqua e sali come se piovesse, ma soprattutto è importante mentalizzarsi su quel che si troverà, avere ben presente che il clima costituirà un fattore come lo fu per noi.

Gualdi Caruso 1990
Gualdi in mezzo con il massaggiatore Glauco Stacchini e Roberto Caruso, secondo al traguardo nella gara dei dilettanti del 1990
Gualdi Caruso 1990
Gualdi in mezzo con il massaggiatore Glauco Stacchini e Roberto Caruso, secondo al traguardo nella gara dei dilettanti del 1990
Il fuso orario influì?

Non poco. Noi scegliemmo di partire per tempo, considerando gli studi che indicano un recupero di un’ora al giorno. Altri scelsero altre vie, gli olandesi ad esempio partirono due giorni prima per non cambiare il ciclo metabolico, col risultato di ritirarsi tutti… Servirebbero almeno 10 giorni per trovare il giusto assetto.

Com’era il percorso?

Molto duro. Non conosco quello dell’Olimpiade, ma so che non sarà tenero neanche quello. Noi lavorammo molto sul tracciato, Zenoni lo aveva studiato nei minimi particolari. In quell’occasione imparai che mettendo in correlazione preparazione e risultati si è premiati e so che Cassani, che era in gara a Utsunomiya fra i pro’, fa lo stesso.

L’ambiente?

Erano tempi diversi da oggi, dove con gli smartphone sei sempre collegato con il mondo e quindi con casa. Noi stavamo tutti insieme in hotel, l’unico diversivo era la telefonata serale, il difficile era stare soli in camera. Fu fondamentale l’apporto dello psicologo Sergio Rota.

Gualdi Bettini 1998
Gualdi insieme a Paolo Bettini al Giro d’Italia 1998. Nella sua carriera da pro’, Gualdi ha vinto 3 corse
Gualdi Bettini 1998
Gualdi insieme a Paolo Bettini al Giro d’Italia 1998. Nella sua carriera da pro’, Gualdi ha vinto 3 corse
Che cosa ricordi della gara?

Eravamo in 6, nella prima parte l’obiettivo era piazzare un paio di corridori in ogni fuga, altrimenti si sarebbe lavorato per la volata finale di Baldato. Si formò una fuga di 12 corridori con me e Roberto Caruso dentro. In salita rimanemmo in 4, sempre con Roberto insieme a me e successivamente provai ad andare via e vidi che ero rimasto solo. Mancavano 65 chilometri al traguardo: è stata la più lunga fuga vincente dei mondiali, solamente Soukhoroutchenkov aveva completato un’azione superiore ai Giochi di Mosca ’80.

La tua carriera professionistica è durata solo 7 anni, dal 1993 al 2000, con qualche guizzo ma tanta sfortuna. Che cosa accadde?

I primi 3 anni furono contraddistinti da una marea di guai fisici: una bronchite che non andava via, poi la frattura a una spalla, nel ’95 l’operazione alla schiena. La mia prima vera gara fu il Tour ’96, dove ottenni un 2° e un 3° posto parziali. Nel ’98 fui 3° ai tricolori a cronometro e feci una grande Vuelta, finendo 21°, ma vedendomi sfuggire la vittoria per ben tre volte a un chilometro dal traguardo. Nel 2000 fui 3° a Milano nella tappa finale del Giro, venti giorni dopo ebbi un’incidente che mi costò la piena mobilità di un polso e dovetti chiudere così. Quel problema non mi ha più permesso di guidare la bici, non posso tenere il manubrio.

Gualdi famiglia 2018
Ritiratosi nel 2000, Gualdi (qui con la famiglia) è oggi responsabile commerciale della Brinke
Gualdi famiglia 2018
Ritiratosi nel 2000, Gualdi (qui con la famiglia) è oggi responsabile commerciale della Brinke
Da allora che cosa ha fatto Mirco Gualdi?

Sono rimasto nel mondo della bici. Per molti anni ho lavorato alla Bianchi, ora però sono responsabile commerciale della Brinke, una start up nata 7 anni fa, con sede a Desenzano del Garda, un impiego che mi dà molta soddisfazione perché c’è sempre la voglia di crescere.

Da osservatore esterno che conosce a cosa gli azzurri andranno incontro, sei fiducioso?

Sì, per più motivi. Innanzitutto perché Cassani sa quello che fa e se ha scelto quei 5 uomini ha sicuramente in mente una tattica adatta. Poi perché penso anche che una grande corsa a tappe può darti una buona gamba, ma interpretare subito dopo una grande gara in linea non è la stessa cosa, i picchi di velocità e l’interpretazione cambiano. Il principio negli anni non è cambiato: se lavori sulla preparazione, sulla prestazione i risultati poi verranno.