Spezialetti, un vero abisso fra squadroni e resto del mondo

07.01.2022
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Dopo aver partecipato allo Zoom fra l’Androni ed Ethic Sport della scorsa settimana, era rimasta in circolo qualche scheggia. Sensazioni strane, frasi in sospeso. Come se fra i corridori delle piccole squadre e la scienza si frapponesse un’esperienza fatta di consuetudini difficili da mettere in discussione. Pertanto, dato che per tutto il tempo della riunione era rimasto in silenzio, abbiamo approfittato di una sosta durante l’allenamento per fare due chiacchiere con Alessandro Spezialetti.

Spezialetti assieme a Ellena è uno dei diesse più esperti della Drone Hopper
Spezialetti assieme a Ellena è uno dei diesse più esperti della Drone Hopper

«Una sola cosa rende tutto più difficile – dice – la maledetta abitudine di imitare quello che fanno negli squadroni. E’ una moda che forse c’è sempre stata. Ad esempio sentono che alla Jumbo Visma usano i chetoni e ci si buttano sopra. Per il resto, credo che tutto sia migliorato nella qualità, ma i concetti che ci sono alla base dell’integrazione sono gli stessi. I sali hanno diverse composizioni, ma sempre per quello si usano. Le maltodestrine hanno diversa composizione, ma l’effetto che fanno rimane quello di sempre. Non abbiamo corso cinquant’anni fa, per cui ci saranno pure nuovi prodotti, ma i concetti sono quelli…».

Scienza ed esperienza

Il discorso regge, ma fondamentalmente scricchiola. E’ vero che i principi di base dell’integrazione sono gli stessi, ma ci sono stati così tanti cambiamenti nel settore, che fermarsi ai concetti di 10 anni fa rischia di farti restare indietro. E se questo accade, il gap fra team WorldTour e professional rischia di diventare incolmabile anche su aspetti tutto sommato abbordabili.

Spezialetti ha corso fino al 2012: ultima squadra la Lampre
Spezialetti ha corso fino al 2012: ultima squadra la Lampre

«Se vogliamo dirci la verità – parte Spezialetti – certe raffinatezze possono farle le grandi squadre, che possono investire su certi dottori e certe pratiche. Il nostro Giorgi è preparatissimo e aperto a questi discorsi. Perciò anche noi che magari ci troviamo a gestire le borracce sull’ammiraglia ci teniamo aggiornati parlando con lui, con qualche amicizia e leggendo. E per il resto andiamo avanti con l’esperienza. Chi ha corso sa come sta il corridore in certi momenti. Puoi dargli tutte le raccomandazioni che vuoi, ma in certi momenti la bici non è tanto lineare, per cui devi dare indicazioni sintetiche e chiare».

Servono le gambe

Il punto precedente continua però a stuzzicarci. La prassi di imitare gli squadroni può produrre disastri ed è davvero una prassi piuttosto diffusa.

Fase di rifornimento all’ammiraglia in cima a una salita
Fase di rifornimento all’ammiraglia in cima a una salita

«Copiare è tutto casino – conferma il diesse abruzzese – come se poi alla Jumbo Visma andassero così forte per certe cose. Se non hai il corridore con il motore grande, puoi mangiare quello che ti pare, ma non funziona. Anche noi quando avevamo Bernal o Ballerini potevamo fare corsa di testa. Se trovi i corridori giusti, vi assicuro che certe attenzioni servono anche meno. Noi proviamo a prendere dei buoni corridori, ma una squadra che spende 50 milioni avrà corridori migliori dei nostri e potrà prepararli meglio di quanto potremo mai fare noi. La Ineos le prende da Pogacar, eppure fino a due anni fa erano convinti di aver preso il più forte di tutti con Bernal. Egan fino a qualche tempo fa sembrava molto più forte, ora forse non è più così. E non dipende dalle borracce, dipende dalla qualità degli uomini».

E se fosse Cataldo il regista giusto per Ciccone?

09.11.2021
5 min
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«Vado con un altro abruzzese – sorride Dario Cataldo – direi un passaggio naturale. Con Giulio ci stiamo inseguendo da anni. Suggerivo di prenderlo prima che passasse, ma poche persone in gruppo sanno fidarsi dell’esperienza dei corridori. Poi l’ho segnalato quando era alla Bardiani, ma ancora niente. Ora si è concretizzato ed è come se il cerchio si fosse chiuso».

Dario Cataldo, abruzzese classe 1985, parla così di Giulio Ciccone, anche lui abruzzese, ma del 1994. In quei nove anni c’è il mondo, compreso il fatto che uno dei primi direttori sportivi di Ciccone fu Michele Cataldo, padre di Dario. E’ una storia di storie che si intrecciano e che alla Trek-Segafredo vedrà dal prossimo anno i due con la stessa maglia, come mai successo prima.

Cataldo è andato alla Movistar nel 2020 dopo 5 anni all’Astana con Aru e Nibali
Cataldo è andato alla Movistar nel 2020 dopo 5 anni all’Astana con Aru e Nibali

Eppure non è stato un passaggio facile, perché a un certo punto della storia il nome di Dario era fra quelli in cerca di squadra e nonostante il suo procuratore Manuel Quinziato si stesse dando un gran da fare, per la fatidica firma c’è stato da aspettare novembre. Tanto avanti.

Qualcosa di buono

Ne avevamo parlato a settembre, nei giorni della Vuelta per la quale non era stato convocato, avendo così il primo sentore del fatto che la Movistar non lo avrebbe confermato. Avevamo parlato dell’attitudine dei team nel far firmare ragazzini di primo pelo, quasi… drogati dall’ansia di trovare il nuovo Evenepoel soffiandolo a qualcun altro.

«Che non fosse una bella situazione ne ero consapevole – racconta – perché arrivi a ottobre e non hai ancora chiuso… Però avevo fiducia di aver seminato bene e mi chiedevo perché mai non dovesse venire fuori qualcosa di buono. Con Trek-Segafredo si parlava da giugno, ma ho firmato solo un paio di giorni fa. Resta però che questa situazione dei giovani sta cambiando la direzione delle squadre».

E’ anche difficile immaginare il modo per cambiarlo…

Ho riflettuto tanto sulle persone che gestiscono le squadre e su come certe volte commettano degli errori grossolani. Pochi sanno vedere le cose come stanno ed è singolare che nel prendere certe decisioni non si senta il parere dei corridori, che correndo accanto tutto il tempo, potrebbero dare indicazioni molto precise.

Che valutazione daresti a questo punto di Ciccone?

E’ certo che abbia tanto potenziale, difficile dire quale sia il terreno migliore su cui possa esprimersi. Sul fronte delle corse a tappe conta tanto la gestione sua e di chi gli sta intorno e dietro, perché per restare a galla per tre settimane devi fare tutto nel miglior modo possibile. Giulio è tanto istintivo, si butta nelle mischie. Questo nelle classiche può essere un’arma vincente, nei Giri un po’ meno.

Ti ricorda qualcuno?

Mi ricorda Vincenzo (Nibali, ndr), che all’inizio era così. Capace di inventarsi le classiche e nei Giri un mix di motore e fantasia. Chissà che Giulio non possa percorrere quella strada…

Invece della tua strada cosa diciamo?

Ho fatto 15 anni di professionismo, sempre in squadre WorldTour. Ho sempre fatto il massimo, qualche volta ho provato a fare la mia corsa e non sempre è andata bene. Ho corso accanto a grandi corridori, per cui è capitato che qualche possibilità mi sia stata preclusa.

Nel 2015 ha scortato Aru fino alla vittoria della Vuelta
Nel 2015 ha scortato Aru fino alla vittoria della Vuelta
Che cosa intendevi poco fa dicendo di aver seminato bene?

Penso di essere un corridore che riesce a mantenere la serietà in gruppo, non sono uno che fa cavolate. Cerco di rispettare i compiti che ricevo e non c’è mai stato motivo di mettere in discussione il mio impegno e la mia serietà. Perché sono uno di cui ci si può fidare, che ha sempre fatto la vita del corridore…

Un po’ come Bennati, con cui ti sei incrociato per un anno alla Liquigas e che ha corso con la Movistar e prima ancora nel gruppo Trek?

Bennati è sempre riuscito a fare squadra. Sa cosa vuol dire lavorare per un leader e sa esserlo a sua volta. E’ sempre stato rispettoso del lavoro altrui e per questo ha sempre avuto la stima del gruppo. Sono certo che sarà un ottimo cittì.

Carlos Betancur, Palmiro Masciarelli, Giro dell'Emilia 2011

Qualche punto in sospeso fra Masciarelli e Rapone

22.12.2020
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Masciarelli dice che lui dalla contesa federale abruzzese è rimasto fuori. Per cui quando gli hanno fatto leggere il passaggio “sulla chiamata alle armi” da parte dei senatori di cui ha parlato Virginio Rapone, si è sentito di chiarire un paio di passaggi.

«Non mi sono esposto – dice Masciarelli – nessuno mi ha chiamato e non ho ricevuto messaggi. E di conseguenza non ho proprio votato. Se però lo avessi fatto, avrei sostenuto l’altro candidato. Perché mi ha dato una mano per il trasferimento di mio nipote Lorenzo in Belgio e perché con il cittì Scotti ho un ottimo rapporto per il grande lavoro che sta facendo nel ciclocross».

Testa bassa e pedalare

Masciarelli va avanti. «Ho avuto anche io la squadra juniores – dice – e ho sempre dovuto fare tutto da me, andavo con le mie gambe. Partecipavamo alle corse e, quando ho potuto, ho portato i ragazzi in pista. Ma adesso sono fuori, per cui se questa federazione faccia poco oppure tanto dovrebbero dirlo quelli che svolgono attività adesso. Ma andando a memoria, il ciclismo, qua e altrove, è sempre stato testa bassa e pedalare. Io presi la maglia azzurra alla Settimana Bergamasca e dovetti cavarmela da solo. Andai su in treno. Dormivo in un convento di frati in cui mi davano anche da mangiare. Mi preparavo da solo i rifornimenti. E andavo e venivo in bici dalle corse. Senza l’appoggio di nessuno».

Virginio Rapone
Virginio Rapone, candidato sconfitto nelle elezioni regionali abruzzesi
Virginio Rapone
Rapone, sconfitto nelle elezioni abruzzesi

Il nodo ciclocross

Però qualche nota vagamente stonata emerge quando Palmiro, grande gregario di Moser, dopo aver detto di non aver avuto contatti, racconta di aver parlato con Rapone.

«Mi è parso di assistere a quei duelli politici che si vedono in tivù – dice – con uno che critica e non propone alternative. Se mi avessero chiamato prima e mi avessero coinvolto nel programma, magari avrei potuto valutare. L’unica cosa che ho chiesto a Rapone è che cosa pensano di fare a livello di ciclocross? E lui mi ha fatto capire che se ci sarà un cambio ai vertici federali, l’attuale gestione potrebbe essere messa in discussione. Siccome io con Scotti ho un ottimo rapporto, gli ho detto che non ero d’accordo».

Il punto di Rapone

A questo punto abbiamo incrociato i dati e chiamato Rapone, come si conviene in simili dispute.

«Che Palmiro non sapesse niente – dice – lo trovo strano, visto che l’anno scorso fu organizzato un pranzo proprio per questo. E poi di recente sono stato a trovarlo in azienda. Non posso avergli detto certe cose sulla gestione del cross, perché io ero candidato alla presidenza regionale e non so che cosa pensino al riguardo la Isetti e Martinello. Non so che cosa succederà dopo, ma di certo ricordo di avergli detto che un commissario tecnico dovrebbe essere al di sopra dalle campagne elettorali. E aggiungo che questo è un vecchio problema della nostra federazione».

Il punto finale

E Masciarelli cosa dice? «Ricordo quel pranzo. Mi invitarono senza dirmi molto, vidi solo che c’erano tanti ex corridori, compreso Onesti che aveva corso per me. Avevo da fare, vidi che c’era anche Rapone, ma a un certo punto andai via e tornai per il caffè».

E’ l’eterna storia del ciclismo italiano, spaccato per mille motivi e interessi diversi. Un sistema che si è stratificato negli anni, mandato dopo mandato. Pescando in una memoria neppure troppo lontana, la frase giusta sulla situazione la disse a novembre Moreno Di Biase, parlando del calo del ciclismo abruzzese: «Danno la colpa alla federazione – disse – ma la federazione non ci dava niente neanche prima, quando correvo io. Le cose devi fartele da solo».

E’ il sistema per cui è sempre andato tutto allo stesso modo e che va scardinato. In attesa degli ultimi verdetti regionali, la parola passa ai tre candidati alla presidenza. Prima che l’abitudine e la politica probabilmente priva di prospettive finiscano di mangiarsi lo sport per il semplice gusto di farlo.

Virginio Rapone

Rapone (sconfitto) lancia l’allarme: ascoltiamolo…

19.12.2020
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Dall’Abruzzo che lo ha visto sconfitto nelle elezioni regionali contro Mauro Marrone, già presidente in carica da due mandati, arriva da Virginio Rapone (in apertura un’immagine ripresa da TIVUSEI) un avvertimento ai candidati alla presidenza federale. Il gruppo è cambiato e a fare la differenza non sono più gli stessi.

Rapone, Maestro dello Sport e per anni dirigente federale (è stato anche segretario generale del Coni regionale), è stato dal 1993 al 2000 il coordinatore delle squadre nazionali. Il ruolo che oggi è di Cassani e che fu introdotto dal presidente Ceruti quando subentrò a Carlesso, per fare ordine fra i tecnici. La struttura funzionava e portò grandi risultati, ma Rapone fu abbandonato quando Ceruti barattò probabilmente la sua presenza con l’ultima elezione. Da allora Rapone è rimasto ai margini, ma quest’anno ha deciso di candidarsi.

Virginio, perché?

Perché a un certo punto si sono mossi i cosiddetti senatori e me lo hanno chiesto. Parlo di Masciarelli, Rabottini, Di Biase. Gente che viene dal ciclismo dei professionisti e delle Olimpiadi. Ma sapevo che non sarebbe andata bene, perché i numeri dicono che il ciclismo ormai è in mano alla mountain bike e al ciclismo amatoriale, un mondo che mi sfugge. Forse la responsabilità in parte è anche delle società tradizionali che non partecipano alla vita federale, ma la colpa è comunque di una Federazione che non sentono vicina.

Marco Villa, Silvio Martinello, Sydney 2000
Marco Villa, Silvio Martinello, bronzo a Sydney 2000 nell’americana
Marco Villa, Silvio Martinello, Sydney 2000
Villa e Martinello, bronzo a Sydney nell’americana
La tua candidatura coincide con quella di Martinello?

No, nasce addirittura prima. Purtroppo il Covid ci ha messo lo zampino, perché avevamo organizzato una serie di incontri per farci conoscere, che purtroppo sono saltati. Però non vi nascondo che Silvio, pur sapendo che oggi l’esito sarebbe stato questo, mi ha chiesto una mano. Abbiamo fatto insieme Atlanta e Sydney, prima che mi mettessero in disparte.

Alla luce di questo risultato, credi che i candidati alla presidenza federale dovrebbero cambiare strategia?

Di certo devono allargare il raggio e non pensare di dover convincere soltanto le società agonistiche, perché sennò a determinare il risultato sarà un altro ciclismo. Ci sono equilibri diversi e magari chi viene dalle corse non è sempre conosciuto o convincente. E comunque a Silvio l’ho detto: la mia disponibilità c’è. Vedere che in Veneto ha vinto Checchin, che è della sua parte, mi dà coraggio.

Continui a parlare di altro ciclismo…

Io credo che la Federazione ciclistica italiana e in genere tutte le federazioni nazionali debbano occuparsi di sport agonistico di alto livello. Non confondiamo piani che devono essere necessariamente separati. Agli amatori devono pensare gli Enti di promozione sportiva e va benissimo che lo facciano. Il Coni esiste perché esistono le Olimpiadi, ma questo concetto in apparenza è stato abbandonato.

Si ricorda abbastanza chiaramente la massiccia presenza della nazionale italiana degli amatori ai mondiali di Hamilton, in Canada, con tanto di villaggio di partenza…

Una cosa voluta da Maurizio Camerini, colui che chiese a Ceruti di scegliere fra me e la rielezione. Ceruti vedeva bene le cose e mi chiese di tenerlo a bada, ma alla fine si arrese. E di quel che cominciò allora paghiamo le conseguenze ancora oggi. La situazione non è buona, bisogna che chi si candida alla presidenza parta dal giusto presupposto.

Andrea, Palmiro, Simone, Francesco Masciarelli, 2010

La dinastia degli abruzzesi che dura da 70 anni

06.12.2020
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Lorenzo Masciarelli è l’ultimo talento di un’autentica dinastia ciclistica. Molti pensano che il decano sia Palmiro, in apertura con i tre figli (da sinistra, Simone, Andrea e Francesco) storico luogotenente di Francesco Moser: 12 anni di professionismo con 8 vittorie tra cui 2 tappe al Giro, ma non è così.

«Iniziò tutto da Giulio – racconta nonno Palmiro, il cui primo nome è Lorenzo – che era mio zio. Negli anni Cinquanta non solo gareggiava, ma ci portava a vedere Coppi e Bartali nelle kermesse in pista a Lanciano. Poi venne mio fratello, arrivato fino agli allievi, poi io».

Simone Masciarelli, Lorenzo, Stefano
Simone Masciarelli, con i figli Lorenzo e Stefano
Simone Masciarelli, Lorenzo, Stefano
Simone Masciarelli, con Lorenzo, Stefano

I 3 figli di Palmiro

Non solo Palmiro è passato professionista, ma anche i suoi tre figli. Francesco ha corso per 6 anni: 5 vittorie tra cui il Giro del Lazio 2008, poi uno stop prematuro per un tumore benigno che chiuse la sua carriera. Dieci anni da pro’ per Andrea, ben 13 per Simone, il padre di Lorenzo.

«Il ciclismo ce l’abbiamo nel sangue– ricorda Palmiro – Lorenzo è il nono della famiglia a gareggiare, ma soprattutto abbiamo sempre voluto trasmettere la nostra passione, non solo per la strada. Ai mondiali di Mtb al Ciocco, alla fine degli anni Ottanta, partimmo in 7 da casa per esserci».

Ora Palmiro è rimasto solo a gestire il negozio di bici di San Giovanni Teatino (un riferimento per tutto il Centro Italia) e la società ciclistica.

«Andrea si occupa di biomeccanica applicata al ciclismo – dice – e ogni tanto mi aiuta. Francesco fa il preparatore atletico per squadre professionistiche. Simone è andato in Belgio, ricominciando tutto da capo per seguire Lorenzo. So però che fanno parte di un bel gruppo. Mattan e De Clercq sono venuti spesso a casa mia, li ho ospitati. De Clercq ha disegnato anche un percorso da ciclocross dietro casa».

Lorenzo e VdP

L’avventura di Lorenzo lo riempie d’orgoglio: «Ricordo che quand’era bambino incontrò Van der Poel, il padre. Lo fermò per chiedergli una foto. Tempo dopo si ritrovarono a un evento e l’olandese gli disse: “Ma tu non sei quello della foto?”».

Simone e Andrea Masciarelli
Simone e Andrea Masciarelli in uno scatto del 2012
Simone e Andrea Masciarelli
Simone e Andrea Masciarelli, è il 2012

Il paragone, per chi ricorda le imprese di Palmiro ai tempi delle sfide Moser-Saronni, viene automatico.

«No, Lorenzo in prospettiva va molto più forte – dice – al primo anno junior ha scalato il Blockhaus solo 3” più lento di Ciccone. Nel ciclocross ha forza esplosiva, dopo ogni ostacolo prende sempre 5 metri a tutti».

Qual è la sua arma segreta? «La serietà, ha capito che questo sport è sacrificio. Quando si riscaldava, per esempio, era solito usare le cuffiette, un giorno lo vidi e gli dissi di metterle da parte perché la concentrazione inizia già da lì. Dopo la gara venne a ringraziarmi, aveva notato la differenza…». 

Francesco Masciarelli, Sylvester Szmyd, Giro del Trentino 2010
Lui invece è Framcesco, con Szmyd a ruota, al Giro del Trentino 2010
Francesco Masciarelli, Sylvester Szmyd, Giro del Trentino 2010
Francesco Masciarelli al Giro del Trentino 2010

Il gesto di Simone

Il distacco dalla famiglia non è stato semplice, ma soprattutto non è stato semplice per Simone, chiamato a reinventarsi in Belgio.

«Inizialmente – racconta il papà di Lorenzo – ho dato una mano alla squadra di De Clerqc come meccanico, ma la lontananza da casa si faceva sentire. Inoltre sentivo il peso di non avere un lavoro tale da permettermi di portare qui la famiglia. Un giorno Mario mi ha detto che da un suo amico, che ha una fabbrica di bibite, si era liberato un posto. Ora lavoro lì, al contatore numerico. E al contempo continuo a collaborare con la squadra. Devo dire che ci hanno accolto davvero bene, dimostrano di tenerci molto».

Simone Masciarelli, Stefano, mamma
Michela, Simone e Stefano, il più giovane della dinastia
Simone Masciarelli, Stefano,
Simone e Stefano, il più giovane della dinastia

Vivendo da dentro la realtà belga, a Simone torna un filo di nostalgia: «Magari avessi potuto vivere un’esperienza simile… E’ bellissimo, tutto ruota intorno alla bici, non viene trascurato nulla e il talento viene curato nei minimi particolari. Per questo la pandemia qui si sente di più, perché le gare senza pubblico, senza tutto il contorno non sono le stesse. Noi poi viviamo a Oudenaarde, dove c’è l’arrivo del Giro delle Fiandre, qui il ciclismo si respira fino in fondo».

Non c’è solo Lorenzo a cui badare, ora che è arrivato anche Stefano, il più piccolo: «Corre per la squadra dei ragazzi di Nico Mattan: la dinastia dei Masciarelli prosegue…».

Jay Hindley, 2015, Aran Cucine

Il 2015 di Hindley a casa di Umbertone

23.10.2020
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Jay Hindley e Umbertone, ma non è il titolo di un film. L’australiano vincitore della tappa ai Laghi di Cancano arrivò a Cappelle sul Tavo alla vigilia della stagione 2015. Un australiano che vive in Italia, tale Robert Petersen grossista nel campo della sanitaria, parlò di lui con Umberto Di Giuseppe, 73 anni, figura di riferimento del ciclismo abruzzese e tecnico della Aran Cucine.

Umbertone, così lo chiamano da sempre. Anche se da quando il cuore gli ha mandato l’ultimo avviso, il punto vita si è sfinato e si potrebbe tornare a chiamarlo Umberto. Quella che non è mai cambiata invece è l’inconfondibile voce roca, che ha incitato, sgridato, motivato, blandito e punzecchiato generazioni di corridori. Un uomo grande e buono che non ha famiglia e per questo ha sempre considerato i corridori come figli. Masciarelli padre e figli. Rabottini padre e figlio. Caruso che prese l’argento ai mondiali giapponesi del 1990. E di recente Einer Rubio, vincitore del tappone del Passo Fedaia al Giro d’Italia U23 dello scorso anno e ora pro’ con la Movistar.

Immaginare il giovane australiano con il burbero abruzzese strappa il sorriso e allora lo abbiamo chiamato per farci raccontare la storia di Jay Hindley in Abruzzo.

Umbertone sulla sua ammiraglia in una foto di qualche anno fa (foto Scanferla)
Umberto Di Giuseppe (foto Scanferla)
In che modo arrivò Hindley?

C’era questo signore australiano. Me ne parlò e me lo propose. Io ero sempre in contatto con Shayne Bannan, che è stato manager della nazionale e poi della Mitchelton-Scott. Anche lui ha corso per me. Tre anni assieme a Mike Turtur, che ora organizza il Tour Down Under. E d’accordo con Shayne creammo un programma per Jay.

Dove andò a vivere?

Abitava a casa mia. E si vide subito che non era un perditempo. Sapeva il fatto suo e sapeva anche fare la vita. A me piaceva andare spesso al ristorante e invece certe volte si imputava e diceva che avremmo mangiato a casa. E si metteva a cucinare.

Perdona la curiosità: in che lingua parlavate?

Ieri sera Luciano Rabottini, che conduce un programma sul ciclismo in una televisione privata, TvSei, ha fatto rivedere un’intervista. E c’è Jay che diceva: «Io non parlo italiano, parlo l’Umbertano». E mi faceva il verso, imitando anche la voce rauca.

Quindi Hindley è stato per un anno a casa tua?

Una stagione intera, poi siamo rimasti sempre in contatto. Sia quando è venuto con la nazionale, poi con la squadra continental nella quale passò. Lui voleva diventare subito professionista, ma Shayne gli disse di fare prima un anno nella continental e poi l’avrebbe messo alla Scott. In realtà lui ha fatto uno stage con la Mitchelton e poi si è trovato il posto alla Sunweb.

Sa cucinare sul serio?

Le cose base sa farle. Jay non mangia pesce e così, quando tornavamo dalle corse e andavamo al ristorante, mentre gli altri ordinavano pesce, lui chiedeva la chitarra teramana: degli spaghettini sottili di cui era molto goloso. E così il padrone del ristorante gli preparava non una sola porzione, ma due piatti abbondanti che lui mangiava con gusto.

Quando l’hai visto per l’ultima volta?

Sono andato da lui a San Benedetto del Tronto, alla Tirreno-Adriatico, e gli ho chiesto come stesse. Lui ha risposto che stava bene, ma sorridendo ha aggiunto che come si mangiava alla Aran… Allora gli ho fatto vedere una foto e lui si è ricordato il nome di Adolfo, il titolare del ristorante.

Si vedeva che fosse forte?

Era evidente. Il giorno prima del tappone del Giro d’Italia U23 a Campo Imperatore, nel 2017, gli ho detto che avrebbe vinto e così andò. Primo lui e secondo il compagno Hamilton. Nel 2015 ha fatto Capodarco e arrivò 26°. Mi guardò e disse che l’anno dopo l’avrebbe vinto. E così fece. Per me è un corridore vero.

Come si inserì a casa tua?

Si è fatto voler bene. E’ un ragazzo in gamba. Mi prendono in giro che mi sono innamorato, ma quando vedi che un ragazzo è educato e gentile e ha le qualità…

Tao Geoghegan Hart, Jay Hindley, Laghi di Cancano, Giro d'Italia 2020
Hindley ha sofferto per non aver potuto dare cambi a Geoghegan Hart
Tao Geoghegan Hart, Jay Hindley, Laghi di Cancano, Giro d'Italia 2020
Da Hindley zero cambi a Geoghegan Hart
Ma questo Hindley non ha proprio difetti?

Gli dicevo che in corsa lavora troppo. Non è di quelli che sfrutta il lavoro degli altri. Al primo Giro delle Marche, appena arrivato, cominciò subito a lottare per il gran premio della montagna. E io gli dicevo di calmarsi. I risultati che ottiene se li guadagna, non sfrutta il lavoro degli altri. Conoscendolo, ieri gli sarà costato non dare cambi a Geoghegan Hart.

E’ stato corretto…

Qualcuno dice che hanno sbagliato a non tenerlo con il leader, ma dopo quello che ha fatto a Piancavallo non possono esserci dubbi sulla sua lealtà. Poteva vincere benissimo e prendere dei minuti.

In Abruzzo lo ricordano ancora?

Il giorno di Roccaraso gli abbiamo messo gli striscioni in un paesino prima dell’arrivo e il telecronista ha detto che erano arrivati i tifosi dall’Australia. A Montesilvano abbiamo messo un cartello con la sua fotografia. Quel giorno è partito all’ultimo chilometro e ha guadagnato su Nibali. E’ uno che lavora.

Perché adesso puntate sui colombiani?

Non è facile fare la squadra nel Centro Sud, soltanto per i viaggi si spende una fortuna. L’anno scorso volevamo vincere il Giro dei dilettanti e per farlo abbiamo preso Rubio. Abbiamo fatto l’unione con Donato Polvere e la Vejus, ma siamo sempre una squadra abruzzese. Anche se in televisione la raccontano sempre in modo diverso. Con Rubio il Giro lo abbiamo sfiorato, ma chissà che a questo punto non si vinca prima il Giro dei grandi con quel piccolo australiano…