Ha esordito nella cronometro a squadre prevista nella quinta tappa di questa Vuelta Espana, stiamo parlando del nuovo casco Scott Split Mips utilizzato dai corridori del team Q36.5 Pro Cycling. Un prodotto realizzato con lo scopo di offrire il miglior supporto aerodinamico e con l’obiettivo di aumentare la velocità durante le prove contro il tempo. Ogni minimo dettaglio è in grado di fare la differenza nel ciclismo odierno, e per permettere ai ciclisti di essere competitivi ogni azienda lavora per ottimizzare i propri prodotti.
Scott e i suoi ingegneri si sono messi all’opera esattamente con questo obiettivo: realizzare il casco da cronometro più veloce e versatile di sempre. Non solo tecnica ma anche comfort, infatti il nuovo Scott Split Mips offre a ogni ciclista la possibilità di personalizzare le prestazioni in base alla propria corporatura, disciplina e condizioni di gara.
Il nuovo casco da cronometro di Scott ha fatto il suo esordio in corsa alla VueltaIl nuovo casco da cronometro di Scott ha fatto il suo esordio in corsa alla Vuelta
Diverse soluzioni
La rivoluzione portata da Scott riguarda il fatto che questo nuovo casco, lo Split Mips, offre una perfetta integrazione grazie alla calotta intercambiabile. Il risultato è che si adatta alla posizione del ciclista ottimizzando l’aerodinamica e le prestazioni. I diversi test eseguiti in galleria del vento hanno dimostrato che ci sono delle differenze tra il prodotto e ciò che poi si traduce sulle prestazioni in gara. Non è possibile progettare un casco basandosi sul feedback di un solo ciclista.
Scott ha realizzato due calotte intercambiabili: la LHP e la HHP. La prima è dedicata a chi ricerca una posizione aggressiva in bici, tipica di una prova a cronometro. Mentre la HHP lascia spazio a diversi cambi di posizione da parte del ciclista e risulta adatta a chi pratica triathlon.
Una doppia calotta disponibile per gli atleti, la HHP è quella che offre un migliore flusso aerodinamicoMentre la LHP è pensata per chi ricerca una maggiore comodità in sella e cambia spesso posizioneUna doppia calotta disponibile per gli atleti, la HHP è quella che offre un migliore flusso aerodinamicoMentre la LHP è pensata per chi ricerca una maggiore comodità in sella e cambia spesso posizione
Prima le prestazioni
Al centro del progetto del nuovo Split Mips c’era la ricerca della massima prestazione, tutto deve essere funzionale alla velocità e alla ricerca di essa. Si è data così priorità all’efficienza aerodinamica e alla vestibilità, una delle sfide più difficili è stata quella di integrare il sistema ARC (visiera, casco e calotta intercambiabile).
Il casco è dotato di una visiera magnetica che si aggancia perfettamente per una vestibilità sicura. Progettata per essere facilmente intercambiabile con entrambe le calotte, si adatta alle esigenze del ciclista in pochi secondi.
Grazie alla nostra tecnologia Scott Amplifier Lens, la visiera permette di avere un contrasto migliore, aumenta la nitidezza e amplifica la tua visione. Ogni dettaglio risulterà ancora più nitido.
La visuale è ottima grazie al sistema della visiera che permette all’atleta di spaziare maggiormente con lo sguardoLa visuale è ottima grazie al sistema della visiera che permette all’atleta di spaziare maggiormente con lo sguardo
Veloce
I vantaggi dal punto di vista delle prestazioni sono evidenti, nella configurazione TT aggressive (HHP) lo Split Mips offre un vantaggio di 2,8 Watt rispetto a chi utilizza la calotta LHP.
«Il nuovo casco da cronometro Split Mips – ha detto Ken Ballhause, responsabile della biomeccanica nel Q36.5 Pro Cycling Team – rappresenta un approccio innovativo all’ottimizzazione dell’attrezzatura. Entrambe le opzioni di calotta, HHP e LHP, offrono prestazioni aerodinamiche migliorate. Grazie al design modulare possiamo passare rapidamente da una variabile all’altra per individuare l’opzione migliore per tutti i nostri atleti».
Matteo Fabbro non sarà al via del Giro d'Italia per il febbrone preso dopo la Tirreno. Per tutelarlo, la Bora ha cambiato i piani. Si fa rotta sulla Vuelta
NOVARA – Tra Vuelta e classiche d’autunno con una nuova spinta italiana per il 2026. Approfittando dell’ultimo Grande Giro stagionale abbiamo incontrato Brent Copeland, general manager del team Jayco-AlUla che, oltre a parlarci delle ambizioni di classifica di Ben O’Connor, ci ha raccontato dei piani per il futuro e dei nuovi innesti.
Conca c’è già, Covi arriverà
Come annunciato, Alessandro De Marchi lascerà il ciclismo professionistico, mentre Filippo Zana ha concluso la sua avventura col team australiano, firmando con la Soudal Quick-Step. Eppure, in casa Jayco-AlUla si continua a parlare italiano. Agosto, infatti, ha portato in dote i due che si sono contesi la maglia tricolore fino all’ultimo respiro: Filippo Conca e Alessandro Covi, messi sotto contratto fino al 2027. Entrambi sono accomunati da una gran voglia di riscatto, per confermare quanto di buono visto a Gorizia.
«Come qualsiasi altra squadra – comincia a spiegare Copeland – cerchiamo dei talenti che si integrino nell’organico, non soltanto in corsa, e che rientrino nel nostro budget. Non scegliamo un corridore piuttosto che un altro per la sua nazionalità o per altri dettagli specifici. Cerchiamo ragazzi che a livello di mentalità si avvicinino il più possibile alla nostra e che possano rappresentare un valore aggiunto. Penso proprio che sia Conca sia Covi siano due ottime aggiunte e che rappresentino perfettamente quello che cerchiamo in un corridore».
Conca ha già debuttato in maglia Jayco-AlUla. Qui è a Plouay, domenica scorsaConca ha già debuttato in maglia Jayco-AlUla. Qui è a Plouay, domenica scorsa
Ragazzi in cerca di spazio
Rilanciato nel ciclismo che conta dallo Swatt Club, Conca ha già cominciato a far sfoggio della nuova e fiammante maglia tricolore. Ha infatti esordito a Ferragosto col nuovo team in Belgio e supportando lo scorso weekend a Plouay Michael Mattews (poi 8° al traguardo della Bretagne Classic).
«Noi volevamo gente – prosegue Copeland – che pensasse alla squadra più che ai propri risultati personali. Dopo alcuni colloqui con Filippo, abbiamo pensato che sarebbe stato l’inserimento perfetto. Siamo felici che sia salito a bordo.
Covi, invece, chiuderà la stagione con il Uae Team Emirates e poi scatterà il suo biennale con la nuova maglia, convinto di ritrovare nuove motivazioni e di tornare a crescere. Soprattutto sperando di avere maggior spazio rispetto a quello avuto nella corazzata degli Emirati.
Covi lascia il UAE Team Emirates per avere più spazio alla Jayco-AlUlaCovi lascia il UAE Team Emirates per avere più spazio alla Jayco-AlUla
Sorpresa Vendrame
Ma il general manager della Jayco-Alula non si ferma qui ed è pronto a calare il Joker per fare tris di italiani, anzi poker contando Davide De Pretto già presente in rosa.Nelle prossime ore, infatti, verrà ufficializzato l’ingaggio di Andrea Vendrame. Dopo sei anni con la Decathlon AG2R, il trentunenne di Santa Lucia di Piave aveva bisogno di stimoli e spera di ritrovare quella gamba che nel maggio 2024 gli permise di vincere la diciannovesima frazione del Giro con arrivo a Sappada. In apertura, il veneto vince la quarta tappa del Tour du Limousin.
«Stiamo cercando di formare il miglior team possibile per il 2026 – ci aveva detto Copeland al via della Vuelta – ma ogni anno è necessario uno sforzo economico maggiore. Diventa difficile riuscire a mettere su una squadra che possa essere sempre competitiva o votata all’attacco. Ci sarà ancora qualche annuncio, nessun grosso nome da scuotere il mondo del ciclismo, ma innesti mirati che possono integrarsi al meglio nel nostro organico». Ed ecco dunque un altro tassello a comporre il mosaico degli aussie.
La Jayco-AlUla, anche quella di domani, sarà incentrata attorno a O’ConnorLa Jayco-AlUla, anche quella di domani, sarà incentrata attorno a O’Connor
Tutti per O’Connor
Una squadra che, giocoforza, sarà costruita attorno a Ben O’Connor, ricaricato da questa nuova avventura finalmente con un team australiano dopo una lunga percorrenza in AG2R. «Ben sta bene – spiega Copeland – ha fatto una bella preparazione e ha disputato un ottimo Tour de France. Quando vinci la tappa regina alla Grande Boucle, superando campioni del calibro di Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard, è qualcosa di fantastico».
Dopo i successi di maggio al Giro con Plapp (Castelraimondo) e Harper (Sestriere), la fiammata al Tour dello stesso O’Connor nel tappone di Courchevel, ora Copeland sogna il triplete alla Vuelta. Soltanto nel 2022, il team australiano era riuscito a imporsi in tutti i tre Grandi Giri. Nella Corsa Rosa arrivarono le due stoccate di Yates e quella di Sobrero nella crono finale di Verona, alla Grande Boucle gli acuti di Groenewegen e Matthews, ora manca la ciliegina nella corsa a tappe spagnola. Di qui a fine stagione, le occasioni per continuare nella striscia positiva non mancano, anche se O’Connor ha scelto di non disputare il mondiale, che vedrà Jai Hindley come punta dell’Australia, facendo rotta invece in modo deciso sul Lombardia.
«Abbiamo la maglia rossa – dice Tiberi – stiamo facendo una bella Vuelta. Personalmente invece non sta andando come avrei sperato, ho avuto delle sensazioni ben diverse da quelle che mi aspettavo. Nei primi giorni ero abbastanza tranquillo, perché in avvio di una gara a tappe non mi sono mai sentito super. Ho bisogno sempre di qualche giorno per prendere il ritmo. Con il primo arrivo in salita serio, sono arrivato con i primi (ad Andorra è arrivato 15° nel gruppo di Vingegaard, Almeida e Ciccone, ndr). Ho risposto bene agli scatti e ho avuto la conferma di essere in crescita. Invece il giorno dopo, di punto in bianco, si è spenta la candela, mi sono trovato senza energie».
La Vuelta riposa a Pamplona, la città di Miguel Indurain. Nell’hotel della Bahrain Victorious alle 14,30 ha parlato il leader della corsa Traen Torstein, che con la sua storia di sopravvissuto al cancro è un eroe fra gli eroi. Nella sua stanza invece Tiberi sta cercando di capire il perché di un passaggio a vuoto inatteso. Al Giro era stata la caduta a farlo fuori dai giochi, che cosa è successo in Spagna?
A Limone Piemonte, per Tiberi passivo di 21 secondi. Ancora nessun allarme: in avvio ha sempre faticatoA Limone Piemonte, per Tiberi passivo di 21 secondi. Ancora nessun allarme: in avvio ha sempre faticato
Come stai?
Ho un po’ di stanchezza, sto sfruttando la giornata per cercare di recuperare. Dall’arrivo di Cerler è cambiata tutta la mia Vuelta, è cambiato l’approccio. Il giorno prima i dati erano giusti, buoni e tutto nella norma, anzi anche meglio. Invece dal giorno dopo i numeri fanno vedere che il corpo ha iniziato a subire troppo la fatica. Il recupero non era dei migliori. Anche il rapporto tra la potenza che riuscivo ad esprimere e l’affaticamento del corpo, con i dati e le sensazioni, non era normale. Non era come al solito e non lo è tutt’ora.
In che senso?
Anche oggi, nel fare una sgambata in bici, non mi sono sentito come al solito. Avevo le sensazioni di quando il fisico inizia a chiedere di calare un po’ il gas.
E’ settembre, la stagione è stata lunga. Al Polonia andavi forte: è possibile che tu sia arrivato alla Vuelta già stanco?
Secondo me, sì. A questo punto direi non solo secondo me, perché i dati e le sensazioni parlano chiaro. Al Polonia ci sono arrivato che stavo particolarmente bene. Subito dopo sono andato diretto in altura e appena arrivato a Sestriere, sono stato male per 2-3 giorni. Ho avuto un po’ di nausea, qualche linea di febbre e sensazioni di stanchezza. Ugualmente sono rimasto in altura e forse lo potevo evitare, perché in quota il recupero è meno agevole. Anche questo potrebbe essere un fattore che ha fatto la sua parte.
Come reagisci all’altura? Ti dà sempre dei buoni risultati?
E’ un discorso delicato, che dipende tanto da persona a persona. Addirittura c’è anche chi non ci crede. Io sento dei benefici, ma oltre all’essere a duemila metri, è il fatto che sei con la squadra, isolato da ogni distrazione. Fai i tuoi allenamenti, hai il massaggiatore, il fisioterapista, il nutrizionista. Un ambiente che ti permette di allenarti al 100 per cento. Puoi curare ogni minimo dettaglio, quindi a parer mio è più quello che fa la differenza, che l’altura in sé per sé. Poi è ovvio che ci sono dietro mille studi, per cui anche stare in quota fa bene, ma quantificarlo compete a chi certe cose le studia. Una cosa l’ho notata.
Quattro ritiri in altura nel 2025 di Tiberi e altri due al livello del mare. Qui è sul Pordoi con Damiano CarusoQuattro ritiri in altura nel 2025 di Tiberi e altri due al livello del mare. Qui è sul Pordoi con Damiano Caruso
Che cosa?
Che magari farla troppo potrebbe dare qualche svantaggio. Se non la si mette nei momenti precisi della preparazione, può anche farti stancare troppo. Comunque a stare a certe quote, il fisico è già sotto stress di suo.
Questo vivere completamente dedicato all’allenamento può essere pesante?
Questo secondo me è uno dei punti chiave. Come quando si cerca di fare sempre il meglio, bisogna cercare anche di non estremizzare troppo. Da noi si dice che il troppo storpia, bisogna cercare il giusto compromesso.
Conoscendoti e viste le sensazioni che hai, che cosa succede nelle prossime due settimane? C’è modo di salvarsi?
L’approccio è cambiato. Non devo più pensare alla classifica generale e tutto quello che comporta. Non c’è più lo stress ogni giorno di recuperare il più possibile, stare attento a tutto in gara, non abbassare l’attenzione neanche per un secondo. Sotto questo aspetto posso avere più serenità. Magari mi può aiutare a recuperare qualche energia da qui all’ultima settimana, per la quale manca ancora un po’. L’obiettivo è tornare ad avere delle sensazioni e dei numeri buoni, in modo da potermi permettere di andare in fuga e fare un risultato di tappa.
Hai parlato di serenità: si rischia di perderla quando le cose vanno così?
Direi di no. Con la squadra mi sento molto sereno, perché sanno tutto, sanno quello che ho fatto, vedono i numeri e capiscono benissimo la situazione. Quindi sono i primi a non darmi assolutamente pressione. Mentre con le attese dall’esterno ci so convivere. So come funziona lo sport a questi livelli e so che ci sono sempre alti e bassi. Non siamo macchine, quindi ci sta che alla fine della stagione, dopo che si è partiti con dei ritiri già da dicembre, il fisico arrivi a un certo punto e chieda un attimo di recupero.
Dopo il passo falso di Cerler, l’obiettivo di Tiberi è stato correre per la squadraDopo il passo falso di Cerler, l’obiettivo di Tiberi è stato correre per la squadra
La domanda di prima nasceva da questo: sei ritiri in un anno, mediamente di due settimane, non sono facili da assorbire. Ed è lo schema che oggi seguono quasi tutti.
Diciamo che andare in ritiro inizia ad essere un po’ troppo di moda. Si parte da due settimane a dicembre per poi farne altre due a gennaio. Quest’anno ho fatto il primo ritiro sul Teide a marzo, se non ricordo male. Un altro ad aprile, quello prima del Giro. A luglio prima del Polonia e poi l’altro al Sestriere prima della Vuelta. Ero già stato via per il Polonia, una gara impegnativa in cui ho attinto parecchio alle mie energie fisiche e mentali. Forse in quel momento, sapendo che sarei stato fuori per altre tre settimane di gara, sarebbe stato più rilassante e migliore per il recupero andare per qualche giorno a casa.
Tre volate entro l’ottava tappa. La quarta (forse, perché il percorso proprio veloce non è) nella diciannovesima, la quinta a Madrid l’ultimo giorno. I velocisti alla Vuelta potrebbero sentirsi ospiti indesiderati. Dopo aver letto le parole di Thierry Gouvenou, direttore di percorso del Tour de France, ci si chiede se a disegnare le corse siano persone di ciclismo o piuttosto autori di videogame.
«Penso che le squadre dei velocisti – ha detto a luglio il francese, parlando delle tappe monotone con il finale destinato allo sprint – non si stiano facendo alcun favore. In futuro non potremo più avere questo tipo di spettacolo, non ci saranno più tappe veloci in futuro. L’anno scorso ne abbiamo avute otto o nove, alcune molto monotone. Quest’anno ne abbiamo avute circa cinque o sei. E questa sarà la consuetudine futura».
Pogacar è un’eccezione: giusto lottare, ma con la giusta prospettiva. In sua assenza, il ciclismo torna uno sport più aperto Pogacar è un’eccezione: giusto lottare, ma con la giusta prospettiva. In sua assenza, il ciclismo torna uno sport più aperto
L’eccezione Pogacar
Il ciclismo che piace è quello degli scontri in salita. Pogacar e i suoi sfidanti sono stati capaci di confezionare duelli magnifici. Tuttavia, come ripete spesso Moreno Moser durante le cronache di Eurosport: quello di Tadej non è ciclismo normale. Godiamocelo, ma siamo consapevoli del fatto che sia un‘eccezione. Proprio la Vuelta sta infatti evidenziando che, tolti l’arrivo di Limone Piemonte e quello di ieri, possono essere soporifere anche le tappe di montagna in cui i leader non si danno battaglia. E non hanno neppure l’adrenalina della volata.
Si sta lavorando in maniera così estrema per spingere i corridori alle prestazioni più elevate che a breve potremmo accorgerci di aver esagerato. Altura a febbraio, altura ad aprile, altura a luglio e poi ancora altura ad agosto. Prima però i ritiri di dicembre e gennaio. Sei ritiri all’anno, quattro in quota, alcuni anche cinque: un carico notevole. Non serve essere dei fisiologi per capire che a un certo punto anche l’altura smetta di dare frutti e che, per contro, dal punto di vista psicologico, le conseguenze rischiano di essere pesanti. Vogliamo scommettere che in tante crisi inattese ci sia il rifiuto della fatica?
Smagrito, meno potente e meno vincente: fa bene Evenepoel a snaturarsi per rincorrere Pogacar?Smagrito, meno potente e meno vincente: fa bene Evenepoel a snaturarsi per rincorrere Pogacar?
La ricchezza del menù
Chi disegna le corse dovrebbe inserire nel menù ogni specialità possibile. Come dovrebbero fare i giornali che per abitudine raccontano le imprese di un solo campione o di un solo sport. E poi, quando quello sparisce, scoprono di non avere altre cose da dire. A chi risponde che il pubblico vuole leggere soltanto di certi argomenti, rispondiamo che il pubblico va abituato alla varietà.
Come al ristorante. Se anche il piatto forte è quello che ti fa vendere di più, è sbagliato non prevedere altro nel menù. Perché il piatto forte può venire male. Perché gli ingredienti di colpo possono venire meno. Perché il gusto del pubblico potrebbe cambiare.
Così con gli scalatori e i velocisti. Ha senso ed è sostenibile in termini di sicurezza e salute pretendere ogni giorno uno show sovrannaturale? Se per arrivare allo sprint i corridori preferiscono un atteggiamento meno scoppiettante, il rimedio è non portare i velocisti oppure considerare che in certi giorni è utile che tirino il fiato?
Sabato il confronto fra Viviani e Philipsen ha offerto spunti tecnici a non finire: altro che noia…Sabato il confronto fra Viviani e Philipsen ha offerto spunti tecnici a non finire: altro che noia…
La miopia e le conseguenze
Abbiamo ragionato sabato sulle dinamiche della volata tra Viviani e Philipsen. In quegli ultimi due chilometri ci sarebbe da raccontare il mondo. Invece chi organizza la corsa si lamenta per la mancanza di attacchi nei chilometri precedenti e banalizza lo sprint, quasi che in quei secondi di potenza, adrenalina, tecnica e tattica non ci sia nulla da raccontare.
L’effetto Pogacar fra qualche anno svanirà. C’è da augurarsi che nel frattempo i vari tentativi di replicarlo non producano guasti irreparabili. Costringendo ragazzi giovani a innalzare l’asticella senza mai arrivare al livello necessario, ma sfinendosi nel farlo. Cercando di intercettare talenti precoci che si ritrovano di colpo a fare i conti con l’inadeguatezza e la depressione. Il ciclismo è un mondo dalle mille sfumature. L’appiattimento è miope e non conduce lontano. Può anche andare bene che lo chieda il pubblico, non va bene che si renda complice chi ha il compito di gestirlo.
Tappa del pavé a Clarke, ma il vincitore di giornata è Pogacar. Lo sloveno attacca e provoca la crisi della Jumbo. Maglia gialla salva, ma che paura...
Con la Strade Bianche negli occhi, inizia domani la Tirreno-Adriatico. Sette tappe, una crono in avvio e il doppio Carpegna alla fine. Doppietta Pogacar?
Era prevedibile che qualcosa in casa UAE Emirates non andasse. Ayuso s’è tappato le orecchie e forse anche questa volta preferirà non ascoltare. Dopo l’arrivo e il secondo posto alle spalle di Vingegaard, Almeida non ha fatto nomi. Tuttavia il fatto che all’inizio della salita (pedalabile) di Estación de Esquí de Valdezcaray lo spagnolo si sia staccato resta un comportamento da decifrare. Da uno che due giorni fa ha dominato sul traguardo di Cerler, dopo 4.203 metri di dislivello, ci si poteva aspettare di più.
«Siamo stati colti di sorpresa – ha detto Almeida parlando dell’attacco di Vingegaard a 11 chilometri dall’arrivo – non me l’aspettavo. Ero ben posizionato, ma loro hanno attaccato molto forte e per questo non sono riuscito a recuperare. E’ andata così… Ho visto che i ragazzi erano al limite e non potevano fare molto, oggi mi sono mancati particolarmente i miei compagni di squadra. Alla fine non avevo accanto nessuno… Non era molto ripido, quindi penso che avrei potuto seguire Jonas diversamente. Ma non lo sapremo mai».
Almeida ha inseguito Vingegaard andando quasi alla sua stessa velocità: a 27 anni, Joao è nella piena maturitàAlmeida ha inseguito Vingegaard andando quasi alla sua stessa velocità: a 27 anni, Joao è nella piena maturità
Il fuori giri di Ciccone
E’ stato così che Jonas Vingegaard ha deciso di affondare i denti, dopo che fino a inizio salita i più attivi erano stati gli uomini della Lidl-Trek. Jorgenson ha tirato e di colpo il danese è andato via da solo. L’ha seguito Ciccone, con un gesto più spavaldo che bello: quello è Vingegaard, per fare classifica contro di lui, bisogna usare la testa e non i muscoli. Ma certe prove vanno fatte e Ciccone a un certo punto ha detto basta.
«Penso che Jonas sia andato troppo veloce per me – ha commentato Giulio, laconico – e ho fatto del mio meglio. Forse seguirlo è stato un errore, era meglio tenere un po’ il passo. Eravamo ancora ai piedi della salita, ma le sensazioni erano buone ed eravamo davvero fiduciosi di provare a vincere questa tappa. Lui a volte è forte e a volte meno. Oggi è stato fortissimo, ma sicuramente ci riproveremo».
Il linguaggio del corpo: bocca chiusa, bocca aperta, il destino di Ciccone era segnatoIl linguaggio del corpo: bocca chiusa, bocca aperta, il destino di Ciccone era segnato
Lo stupore di Vingegaard
Vingegaard non l’ha fatto da super cattivo, anzi alla fine ha scherzato sull’imprudenza di attaccare da tanto lontano. Si è anche voltato spesso, senza scavare solchi profondi. Del resto, fra i rivali davanti è il solo ad aver corso il Tour lottando sino alla fine con Pogacar e a non essersi preparato in altura.
«Oggi mi sentivo benissimo – ha detto Vingegaard – quindi ho chiesto alla squadra di accelerare e hanno fatto un lavoro fantastico. Sono entusiasta di essere riuscito a concludere. A dire il vero, non sapevo che fossi così lontano quando ho attaccato. Non ho fatto i compiti molto bene e sono rimasto sorpreso quando ho visto il cartello dei 10 chilometri. Una volta che ho guadagnato un po’ di vantaggio, ho continuato. Non cercavo la maglia rossa. Il mio obiettivo principale era vincere la tappa e guadagnare tempo sui miei rivali».
La tappa di oggi misurava 195,5 chilometri, attraverso la provincia autonoma di La RiojaLa tappa di oggi misurava 195,5 chilometri, attraverso la provincia autonoma di La Rioja
La promessa di Pidcock
Per una singolare coincidenza del calendario, si è visto oggi sugli scudi anche Tom Pidcock. Il britannico della Q36.5 ha scalato la salita finale assieme ad Almeida. E’ parso troppo a lungo a rimorchio e solo nel finale ha dato il suo contributo, limando una decina di secondi al margine di Vingegaard.
«Mi sentivo davvero bene – ha detto il campione olimpico della moutain bike – ma quando Jonas parte è sempre difficile seguirlo. Ha sempre tanti compagni con sé. Ho creduto che Almeida fosse la ruota perfetta da seguire, ho pensato che saremmo potuti rientrare insieme. Chapeau a lui, non sono proprio riuscito a dargli il cambio. Mi ha urlato contro, ma nel tratto più veloce della salita, sembrava un trattore. E’ ripartito nell’ultimo chilometro ed è stato impressionante, sono riuscito a superarlo solo all’arrivo. Sono contento, a essere sincero. So che è difficile conoscere appieno le mie capacità, ma ci stiamo divertendo».
Dopo un Giro a dir poco anonimo, il Pidcock della Vuelta è molto più propositivoDopo un Giro a dir poco anonimo, il Pidcock della Vuelta è molto più propositivo
La singolare coincidenza del calendario sta nel fatto che proprio oggi Van der Poel è tornato a correre in mountain bike, centrando un buon sesto posto a Les Gets, in Francia. Mathieu ha nel mirino il mondiale che si correrà nel Vallese il 14 settembre, proprio nel giorno finale della Vuelta a Madrid. Magari l’olandese si starà già fregando le mani sapendo che nel gruppo non ci sarà la vera star attuale del movimento. Anche se Pidcock dopo la Vuelta volerà in Africa e si giocherà da par suo il mondiale di Kigali.
Prima resiste agli attacchi di Pogacar (che cade), poi Jonas Vingegaard e la sua squadra stritolano il rivale. Vittoria a Hautacam, grazie a super Van Aert
Un’ora circa dopo l’arrivo di Saragozza, la giuria della Vuelta riapre l’ordine d’arrivo e ne toglie Viviani e Coquard, retrocedendoli in 105ª e 106ª posizione. Elia aveva sprintato in testa, fino a cogliere il secondo posto. Il suo spostamento dal centro strada verso il lato sinistro della strada è evidente, ma non è una manovra assassina. Tanto che quando il veronese si accorge di avere accanto Philipsen in rimonta, si raddrizza e il belga riesce a passare. Nelle stesse interviste del vincitore dopo l’arrivo non c’è alcun riferimento alla deviazione di Viviani.
«Abbiamo vinto – racconta Philipsen – quindi non posso lamentarmi. Ho perso i miei compagni di squadra nel finale, ho provato a richiamarli ma nell’ultimo chilometro ormai c’era poco da fare. Così ho dovuto fare da solo. Ho preso la ruota di Bryan Coquard. Mi sentivo le gambe durissime come il cemento, ma sono comunque riuscito a vincere».
Quella di Saragozza è stata l’ultima volata prima della 19ª tappa. Impossibile che la fuga arrivasseQuella di Saragozza è stata l’ultima volata prima della 19ª tappa. Impossibile che la fuga arrivasse
Uno sprinter corretto
Nel vecchio ordinamento del ciclismo, la cosa si sarebbe fermata lì, anche perché il terzo sul traguardo – Ethan Vernon – aveva scelto di fare la volata dall’altro lato della strada. Dopo l’arrivo il solo sentimento di Viviani era la grande tristezza per l’occasione mancata e il grande lavoro dei compagni.
«Fa male – ha detto Elia – guardi la linea davanti. Senti che è più vicina, sempre più vicina, ma quando c’è in giro un corridore come Philipsen, la corsa non è mai finita sino alla riga. Con lui è molto probabile perdere. Ed è ancora più doloroso con il grande lavoro della squadra, che avete visto. Mi hanno messo nella posizione perfetta, anche se nel finale c’è stata un po’ di confusione. Ho preferito spostarmi su un lato, ma se riguardi questo sprint dopo, puoi affrontarlo in 100 modi diversi e magari vincere. Quando sei lì, devi scegliere e così ho fatto io. Fino a quando ho sentito urlare Philipsen dal lato delle transenne. Non volevo chiuderlo, non è così che vinco le gare. Ci sono andato vicino, quindi spero che nell’ultima settimana si possa fare qualche altra volata».
Viviani ha lasciato spazio a Philipsen, ma la giuria ha ritenuto la deviazione volontaria e l’ha retrocessoViviani ha lasciato spazio a Philipsen, ma la giuria ha ritenuto la deviazione volontaria e l’ha retrocesso
La voglia di dimostrare
Dopo lo sprint di esordio di Novara, scambiando qualche messaggio, Viviani aveva detto che quel giorno non ci fosse la possibilità di battere Philipsen e che un secondo posto sarebbe stato un bel risultato. C’era e c’è ancora la voglia di dimostrare che averlo portato alla Vuelta sia stata la scelta giusta.
«Dobbiamo solo essere positivi – dice – e guardare cosa ha fatto la squadra, perché non posso chiedere di più da loro. Sono davvero felice di essere qui, anche se in questi primi giorni ho faticato molto, non c’è da nascondersi, perché è la verità. Ma quando ti avvicini a un obiettivo così importante, significa che sei un atleta serio e che a 36 anni provi ancora a battere il miglior velocista del mondo. Sono sicuramente felice di essere lì e mi dispiace non aver vinto oggi, ma il ciclismo è così».
In un post su Instagram dopo l’arrivo, Viviani è tornato sulla sua manovra nel finale. «Ho cambiato la mia linea? Sì. Perché? Perché come ogni sprinter, quando sei davanti cerchi un lato della strada. Perché non ho scelto il lato sinistro quando ho iniziato lo sprint? Perché davanti a me avevo il mio compagno De Buyst e so che mi avrebbe lasciato spazio. Però non posso prevedere cosa farà il leadout della Alpecin. Per questo ho deciso di spostarmi verso il centro della strada.
«Alla fine ho lasciato che la porta si aprisse a sinistra? Sì, quando ho sentito Philipsen urlare, sapevo che non potevo chiudere questa porta, così mi ha superato nettamente. Hai parlato con la giuria? Sì, ho parlato con il presidente della giuria e mi ha mostrato nel video cosa ho fatto e mi ha spiegato che non posso cambiare la mia traiettoria, anche se alla fine gli ho lasciato lo spazio per passare. Ti dispiace? Sì, mi dispiace per la mia squadra e per i miei compagni di squadra perché meritano un risultato migliore, oggi sono stati incredibili! Ovviamente, congratulazioni a Jasper Philipsen».
Quella di Saragozza era forse l’ultima vera possibilità per i velocisti. Per rivedere un arrivo adatto agli uomini veloci bisognerà aspettare probabilmente la 19ª tappa e poi quella finale di Madrid. Prevedibile quindi che la fuga non sarebbe arrivata e che nel finale ci sarebbe stata alta tensione. Per le prossime dieci tappe, la lotta dei velocisti sarà con il tempo massimo. L’appuntamento sarà forse a Guijuelo.
Sul traguardo di Cerler, Ayuso si tappa le orecchie. Dite pure tutto quello che vi pare, io non voglio starvi a sentire. Lo spagnolo è arrivato alla Vuelta con i favori del pronostico, messo dentro al posto di Pogacar, quasi a sottolineare che con Tadej non avrà più a che fare. Leader con Almeida, difficile dire se con qualche diritto di prelazione. Sta di fatto che ieri ad Andorra, sul primo arrivo in salita nemmeno troppo crudele, Juan è tornato in hotel con quasi 12 minuti di passivo. Poche gambe o la voglia di prendere le distanze dalla coppia e fare la sua corsa nonostante tutto?
Nella fuga con Ayuso viaggiava anche Marco Frigo, alla Vuelta per puntare alle tappeNella fuga con Ayuso viaggiava anche Marco Frigo, alla Vuelta per puntare alle tappe
La Bahrain rinunciataria
Non parlate, non vi sento. Così Ayuso ha attaccato sulla prima salita e ha fatto un’ora da solo, prima che lo raggiungessero gli altri fuggitivi. Ha pedalato con loro, girato con loro, condiviso con loro la fatica. Ma quando mancavano 9 chilometri all’arrivo e al suo fianco c’era soltanto Marco Frigo, Ayuso si è scosso e l’ha lasciato lì.
«Ho trovato il peggiore con cui andare in fuga – ammette Frigo – sappiamo tutti che corridore sia Ayuso. Quando ho visto attaccare lui e Vine, ho capito che saremmo potuti arrivare. Dietro era chiaro che la Bahrain Victorious non avrebbe tirato fino all’ultima salita, per poi mettere la vittoria in palio, sapendo che il suo uomo in maglia è vulnerabile. Questo ci ha dato fiducia sul fatto di arrivare. Bisognava essere in fuga e penso che sia stata una delle giornate più dure per esserci. Detto in gergo ciclistico, la salita iniziale l’abbiamo ben spianata».
Il gruppo ha lasciato andare: la Bahrain non aveva interesse a cucire sulla fugaIl gruppo ha lasciato andare: la Bahrain non aveva interesse a cucire sulla fuga
500 metri di sforzo inutile
Nel gruppetto all’attacco, quando sulla penultima salita Jay Vine ha provato l’allungo, Frigo deve aver pensato che l’australiano avrebbe rifatto quel che gli era riuscito ieri ad Andorra. Attacco in cima alla salita, discesa da kamikaze e scalata finale in testa fino al traguardo.
«In realtà poteva essere pericoloso – conferma il vicentino della Israel Premiertech – che lui andasse avanti e dietro rimanesse un gruppetto con Ayuso che non collaborava. Per questo ho deciso di andargli dietro e in un attimo in discesa e poi nella valle avremmo potuto guadagnare un minuto. Ovviamente poi abbiamo capito che lavorava per Ayuso e in quel momento m’è venuta anche la frustrazione di aver fatto 500 metri a tutta per prenderlo e non è servito a niente».
Quando la vittoria di Ayuso era al sicuro, Almeida ha fatto il forcing: con lui Vingegaard e CicconeQuando la vittoria di Ayuso era al sicuro, Almeida ha fatto il forcing: con lui Vingegaard e Ciccone
Cinque chili di differenza
Ayuso ha attaccato e Frigo l’ha seguito. La salita finale andava avanti a gradoni su cui i cinque chili di differenza fra Ayuso e Frigo (65 lo spagnolo, 70 l’italiano) rischiavano di trasformarsi in un altro step difficile da sormontare.
«Sono sincero – spiega Frigo – quando ha attaccato ai piedi della salita, io stavo bene e per questo sono riuscito a tornare sotto. Anche quando tiravamo, mi sono messo a collaborare perché credevo di stare bene e avevo buone sensazioni. Però alla fine, forse lui un po’ ha bleffato, non lo so. Sta di fatto che quando ha fatto il secondo attacco, mi ha lasciato lì. Ho cercato di prendere il mio ritmo e per un po’ sono riuscito a tenerlo a tiro, però pian piano mi stavo spegnendo. Ho visto che stava entrando García e sapevo che poteva darmi una mano, però intanto Ayuso è diventato imprendibile. C’è da dire che probabilmente lì davanti, dopo Pedersen, io ero quello più pesante. Nella salita c’erano dei punti in cui si poteva respirare, ma quando tirava in su, diventava bella ripida e ovviamente il mio peso e la mia altezza non mi hanno aiutato…».
Per Ayuso sotto il box del dopo gara, l’abbraccio e il bacio del suo mentore MatxinInterviste al termine di una tappa memorabile per Ayuso: la prima alla VueltaPer Ayuso sotto il box del dopo gara, l’abbraccio e il bacio del suo mentore MatxinInterviste al termine di una tappa memorabile per Ayuso: la prima alla Vuelta
L’amarezza di Frigo
Dice e sottolinea di voler tenere la testa sulla Vuelta, senza nulla che porti via la concentrazione. Anche il mondiale e l’europeo, se ci saranno, si affronteranno dopo la corsa spagnola. Dopo la cronosquadre in cui per una protesta pro Palestina la squadra è stata rallentata, la sera Marco avrebbe avuto voglia di mollare. Lo ha detto ai microfoni di Andrea Berton e lo ripete ora qui con noi.
«Superare quello che è successo nella cronosquadre – dice – è stato pesante, sono sincero che la pietra sopra non ce l’ho ancora messa. Proprio perché forse è stata l’escalation di una situazione che forse mi portavo avanti da un po’ e mi ha messo davanti alla realtà com’è. Per metterci la pietra sopra ci vorrà del tempo oppure bisognerà prendere altre decisioni. Però intanto devo concentrarmi ed è quello che sto provando a fare e che probabilmente oggi sono riuscito a fare meglio di ieri. Pensare che sono qui alla Vuelta e concentrarmi su me stesso, sui sacrifici che ho fatto per avere questa gamba e non sprecarla solo perché ci sono persone che ignorano la situazione e il fatto che la nostra squadra sia una realtà privata».
Dalla cronosquadre, non sono stati giorni facili per Frigo, che spiega perchéDalla cronosquadre, non sono stati giorni facili per Frigo, che spiega perché
Domenica si riprova
E se di Vuelta si deve parlare, l’analisi riparte brevemente dal secondo posto dietro Ayuso. Per capire se un secondo posto è la più grande delle beffe o comunque va bene.
«Ho già fatto secondo anche l’anno scorso – ricorda Frigo – dietro a Ben O’Connor in forma strabiliante. Io conosco bene le mie potenzialità e fare secondo dietro Ayuso è comunque un buon risultato, segno che la gamba c’è. Magari bisogna giocarla in un modo diverso, su una salita finale meno ripida in cui la pendenza non mi sfavorisca. Oggi tanti scalatori che erano in fuga me li sono messi dietro, quindi su un finale un po’ meno pendente o con un arrivo in pianura, avrei potuto giocarmela diversamente».
Ha appena… disegnato la tappa di domenica a Estación de Esquí de Valdezcaray e c’è da scommettere che lo troveremo davanti ancora una volta. Per stasera intanto è arrivato il momento di rispondere ai messaggi da casa, dopo che per quasi un’ora il telefono in questa valle che conduce all’hotel è rimasto isolato dal mondo.
Bocciare una novità perché “si è sempre fatto così”. E quello che è successo quando Pogacar ha proposto di invertire Giro e Vuelta. Cosa dice Martinelli?
C’era aria di fuga stamattina, spiega Lorenzo Fortunato, terzo sul traguardo di Andorra dopo un’azione lunga 162 chilometri. Una vita. C’è appena il tempo che la bandierina si abbassi e dalla testa del gruppo schizzano via i dieci che, ancora ignari, andranno a giocarsi la tappa.
La partenza è in salita sul Coll de Sentigosa (11,4 chilometri al 4,1 per cento) e ad avvantaggiarsi sono Vine, Castrillo, Vervaeke, Garofoli, Debruyne, Ryan, Shaw, Armirail, Traen e Fortunato. Traen, che indossa la maglia della Bahrain Victorious è quello messo meglio in classifica generale (58’’ dietro Vingegaard), poi Armirail, Vervaeke e appunto Fortunato (a 1’43’’).
«Era una giornata brutta, di pioggia – racconta il bolognese della XDS Astana – perfetta per le fughe, anche perché Vingegaard voleva lasciare la maglia. A lui interessa averla a Madrid. Vine ha attaccato in discesa e non sono riuscito a seguirlo. Se proprio vogliamo dire, poteva starci un secondo posto. Era il primo arrivo in salita, volevo arrivare nei dieci e l’ho fatto, quindi sono soddisfatto. Bicchiere mezzo pieno, va bene così!».
Vine ha approfittato della buona conoscenza delle strade e ha conquistato Andorra, dove viveLa sua dimestichiezza con le curve in discesa, anche se bagnate, gli ha permesso di fare il vuotoVine ha approfittato della buona conoscenza delle strade e ha conquistato Andorra, dove viveLa sua dimestichiezza con le curve in discesa, anche se bagnate, gli ha permesso di fare il vuoto
La salita preferita di Vine
Fortunato dice bene: Vingegaard ha deciso di lasciar andare la maglia e così il vantaggio dei primi lievita fino ai 6’30”, quando la corsa entra ad Andorra e mancano 35 chilometri all’arrivo. E proprio mentre si scala l’Alto de la Comella e in testa al gruppo alcune squadre iniziano a forzare i tempi, Jay Vine decide di non voler rischiare e attacca prima dello scollinamento. Poi si butta in discesa come una furia. Quando si presenta ai piedi della salita finale, che è lunga 9,6 chilometri e ha pendenza media del 6,3 per cento, ha un minuto di vantaggio sugli inseguitori.
«Conosco queste strade abbastanza bene – spiega l’australiano del UAE Team Emirates – vivo appena sotto la collina e la Comella è la mia salita preferita in tutta Andorra. Normalmente mi sarebbe piaciuto rendere la corsa più dura, ma con il vento contrario è stato difficile convincere i ragazzi a fare di più. Così ho deciso di andare in cima e sfruttare la discesa bagnata. Ho pensato che fosse l’occasione per tentare ed è andata bene».
Il tempo che la tappa partisse e la fuga ha preso il largo. Dentro anche Garofoli e FortunatoIl tempo che la tappa partisse e la fuga ha preso il largo. Dentro anche Garofoli e Fortunato
L’ombra dell’Angliru
Fortunato ci riproverà. Venerdì prossimo c’è una salita che lo chiama: l’Alto de Angliru. Per il corridore diventato celebre nel 2021 per la vittoria dello Zoncolan è un richiamo (quasi) irresistibile.
«Non ci ho mai corso – dice Fortunato – ho fatto altre gare nelle Asturie, però mai lassù. E’ una salita simile allo Zoncolan, però in un contesto di corsa totalmente differente. La gamba è simile a quella del Giro, anche se dopo Burgos non sono stato tanto bene. Però oggi andavo, ero lì davanti, quindi un po’ alla volta torno su. Oggi puntavo alla tappa però ho cercato di fare gli sprint per la maglia a pois risparmiando la gamba e ho preso un po’ di punti. Cerco di tenere il piede in più scarpe per il momento, poi vediamo con l’andare dei giorni come andrà».
Dopo 162 chilometri di fuga, la maglia rossa va a Traen Torstein, norvegese di 30 anni, della Bahrain VictoriousVingegaard ha deciso di lasciar andare il primato e la fuga è decollataDopo 162 chilometri di fuga, la maglia rossa va a Traen Torstein, norvegese di 30 anni, della Bahrain VictoriousVingegaard ha deciso di lasciar andare il primato e la fuga è decollata
Il sogno del mondiale
Andorra ha spiegato chi comanda: Almeida e Ayuso hanno già diviso il loro cammino. Ayuso viene staccato ai meno 6 dall’arrivo e scivola indietro a quasi 12 minuti, mentre Almeida resta davanti con Vingegaard e gli altri uomini della classifica che da stasera è rivoluzionata e chissà per quanto. Traen ha la maglia rossa con 31″ su Armirail e 1’01” su Fortunato, che guarda la Vuelta e intanto immagina anche scenari futuri. Anche perché le parole di Marco Villa sulle prossime nazionali lasciano più di uno spiraglio aperto.
«Intanto pensiamo alla Vuelta – dice infatti – poi spero di essere convocato al mondiale, vediamo come esco di qua. Adesso ho mal di gambe, ma dopo la tappa è normale: sono convinto di recuperare e fare la corsa anche domani. Sarà un’altra giornata dura e vediamo come andrà. Sarà difficile andare in fuga. Oggi sono riuscito perché avevo abbastanza distacco, domani parto da terzo il classifica e vediamo come andrà. Prendere la maglia rossa? Perché no… (sorride: alla Vuelta anche i sogni a volte si avverano, ndr)».
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Sorridente, disponibile, disteso, con la battuta sempre pronta, in una sola parola: felice. Egan Bernal ha messo piede in Italia per la partenza della Vuelta Espana con un piglio che sembrava aver quasi perso. Si era assaporato un po’ di quel buon umore al Giro d’Italia, ma si vedeva che l’animo del corridore colombiano era differente. Sulle terre piemontesi, che lo hanno visto sbocciare nel suo grande talento, Bernal sembra essersi totalmente ritrovato. Su queste strade ci ha vissuto per tanti anni, sono state loro ad accoglierlo quando era arrivato in Italia alla corte dell’Androni Giocattoli di Gianni Savio.
Il sorriso sul volto di Bernal non è mai mancato, ma alla partenza della Vuelta, sulle strade piemontesi, ha un sapore specialeIl sorriso sul volto di Bernal non è mai mancato, ma alla partenza della Vuelta, sulle strade piemontesi, ha un sapore speciale
Un sorriso per tutti
Egan Bernal era approdato nella professional italiana da perfetto sconosciuto, ad accoglierlo aveva però trovato la figura di Francesco Gavazzi. Il valtellinese, ritiratosi nel 2023, ora sta studiando per ottenere l’abilitazione UCI e diventare direttore sportivo. Nel frattempo lavora come gommista nell’azienda che prima era del nonno e ora è in mano ai suoi cugini. L’obiettivo è di salire in ammiraglia a partire dalla prossima stagione, ma questo è un’altra storia che ci auguriamo di avere modo e piacere di raccontare più avanti.
«Anche dopo aver vinto il Tour de France – racconta Gavazzi nella sua pausa pranzo – Bernal non è mai cambiato di una virgola. E’ sempre stato un ragazzo umile e aperto, forse troppo. Ha sempre concesso un sorriso e un autografo a tutti, e in alcuni casi eravamo noi a dovergli dire di muoversi perché la gara stava per iniziare. Adesso non lo vedo più dal vivo, ma quello che si vede in televisione o nelle poche gare alle quali assisto, è un ragazzo professionale e disponibile».
La serenità ritrovata di Bernal può essere un fattore chiave in questa VueltaLa serenità ritrovata di Bernal può essere un fattore chiave in questa Vuelta
Com’è stato il tuo primo incontro con Bernal?
Eravamo in ritiro a Padova, nel novembre del 2015. Stavamo facendo un po’ di prove per i materiali e avevamo programmato un’uscita in bici. Gianni (Savio, ndr) era venuto da noi presentandoci questo ragazzo colombiano di diciotto anni. Ci aveva detto che arrivava dalla mountain bike e che era davvero molto forte. Poi siamo partiti con la pedalata.
Che è successo?
Ci ripetevamo di andare piano, dovevamo fare un giro sui Monti Berici e tornare indietro. Appena abbiamo approcciato una discesa, dopo tre curve, ci troviamo Bernal a terra. Lui si era rialzato subito, però dentro di noi abbiamo pensato: «Chissà che fine fa questo». Gli sono bastate poche settimane per farci capire che aveva doti fuori dal comune.
A Limone Piemonte, primo arrivo in salita, il colombiano è quarto A Limone Piemonte, primo arrivo in salita, il colombiano è quarto
Ha “rimediato” subito…
Non una presentazione in grande stile, ma in gruppo ci ha fatto vedere che sapeva stare. Seguiva i corridori più esperti e quando c’era da limare non si tirava indietro. Inoltre, fin da giovane, ha dimostrato un carattere solare e deciso. Non ha mai avuto paura di parlare ed esporsi.
Sicuro di sé?
E delle sue idee. A quel tempo c’erano tanti corridori esperti in squadra, compresi Frapporti e io, lui non aveva paura a dire la sua. Ha sempre avuto le caratteristiche del leader, senza sovrastare gli altri. Sono doti che ho riscontrato anche in altri grandi campioni come Nibali e Pogacar. Questi corridori in bici si divertono, non li vedi mai stressati o rabbuiati.
Bernal è arrivato in Piemonte grazie a Gianni Savio che dalla Colombia lo ha portato all’Androni Giocattoli nel 2016Bernal è arrivato in Piemonte grazie a Gianni Savio che dalla Colombia lo ha portato all’Androni Giocattoli nel 2016
Hai notato questa cosa anche nel momento più difficile, dopo l’incidente del 2022?
Sinceramente sì. Non l’ho vissuto molto, anche perché l’anno successivo mi sono ritirato, ma non ha mai dato l’impressione di aver perso quelle sue caratteristiche umane che lo contraddistinguono. Magari ha perso serenità in bici, però con se stesso no.
In questi primi giorni in Piemonte sembra ancora più sorridente, se possibile.
Ci sono luoghi che ti danno delle sensazioni positive, una scarica di energia unica, e improvvisamente ti senti ancora più forte e sicuro. Il Piemonte per Bernal è una seconda casa. La sua stella è nata lì, in tanti anni ha costruito amicizie e ha trovato tanti tifosi intorno a lui.
Nonostante i suoi diciannove anni Bernal è diventato uno dei volti di riferimento del team di Savio insieme a corridori come Chicchi, Gavazzi e PellizottiNonostante i suoi diciannove anni Bernal è diventato uno dei volti di riferimento del team di Savio insieme a corridori come Chicchi, Gavazzi e Pellizotti
Un qualcosa che può spingerlo per tutta la Vuelta?
Credo che Bernal potrà andare forte anche una volta arrivati in Spagna, è partito bene e questa cosa gli ha dato morale. Lui è un corridore che nella terza settimana migliora, serviva partire con il piede giusto. Gli ho sentito dire in un’intervista che si augurava potesse andare tutto bene, di non cadere o avere problemi. Evitare queste complicazioni lo farà sentire ancora più sicuro. Credo che il podio sia alla portata di Bernal.
E domani iniziano le salite…
La testa è importante, ma come ho detto prima ha dimostrato di essere forte da questo punto di vista. Atleticamente Egan ha dalla sua ottime qualità sulla distanza e in salita.