A 71 anni Vittorio Algeri è uno dei saggi del ciclismo contemporaneo. Non tanto per l’età, ormai un concetto piuttosto aleatorio, quanto per la sua esperienza e per l’occhio che da essa trae per guardare il mondo che lo circonda. Nato a Torre de’ Roveri, seguendo le orme del fratello Pietro ha vissuto tante fasi, da quella del ciclismo per gioco alle corse dilettantistiche fino al sogno olimpico solo sfiorato a Montreal 1976 (nell’edizione dell’argento di Giuseppe Martinelli), il grande rammarico della sua vita, più di tutte le gare professionistiche affrontate. Poi la vita da diesse, pilotando verso grandi traguardi gente come Bugno e Bortolami, con cui ha condiviso il trionfo al Fiandre 2001.
Oggi Algeri è alla Jayco AlUla. E’ ancora diesse, i suoi colleghi lo guardano quasi con deferenza anche se per sua scelta raramente sale sulla prima ammiraglia.
«Preferisco dedicarmi a tutti quei compiti – e sono tanti – che sono necessari per la vita di un team, partendo dall’organizzazione dei viaggi e dalla logistica passando per lo studio dei percorsi. Il ciclismo è cambiato molto da quando ho iniziato, ad esempio allora la lingua più diffusa era il francese, ora l’inglese che io non parlo bene».
Quando iniziasti a fare il direttore sportivo com’era?
Tutto diverso, in base ai numeri. Eravamo un paio per squadra, ma dovevamo gestire gruppi molto più ristretti, non si arrivava a 15. Oggi sono il doppio e io ho più di una decina di colleghi. Ma d’altronde non si potrebbe fare altrimenti. Il ciclismo è molto diverso ora, i corridori fanno vita a sé, hanno più relazioni con figure come preparatori, nutrizionisti, una serie di professionisti che ai tempi non erano così diffusi. Molti corridori li incontro raramente, è difficile così sviluppare un rapporto umano.
Prima invece?
Allora stavi vicino ai corridori, nei ritiri prestagionali e durante la stagione. C’era un interscambio continuo, c’era modo di trasmettere qualcosa, le proprie esperienze, confrontarsi. Oggi contano solo i numeri, la potenza, è un discorso fisico prima ancora che strategico, invece il ciclismo è fatto anche di fantasia, di invenzioni.
Non rimpiangi un po’ i tempi dei tuoi esordi da diesse, quando c’era una stragrande maggioranza di squadre italiane?
Altroché, ne avevamo anche 14, l’epicentro del ciclismo era da noi. Ma era un’altra epoca, giravano altre cifre. I soldi hanno cambiato tutto. Oggi tenere una squadra professionistica costa svariati milioni anche perché sono vere e proprie imprese con oltre un centinaio di dipendenti. Da noi ci sono addirittura più di 170 persone a libro paga. Ai tempi era inconcepibile. Noi avevamo due diesse, due meccanici, un medico e finiva lì…
Ma ti diverti?
Meno, anche se il ciclismo resta sempre la mia passione, ha contraddistinto quasi tutti i miei 71 anni considerando che i miei primi ricordi sono legati proprio alle due ruote, a quando giravo per la fattoria della mia famiglia con la mia piccola bici già senza rotelle. Il fatto è che il ciclismo di oggi è più asettico, ma anche più frastornante: noi facciamo anche tripla attività in contemporanea. In questo la tecnologia aiuta molto.
Prima parlavi delle figure professionali affiancate alla vostra attività. Un vecchio saggio come te come le vede?
Hanno cambiato molto, ma non si può negare che per molti versi abbiano contribuito alla crescita del ciclismo insieme ad altri fattori, come quelli tecnici, dei materiali. E’ un’altra epoca e la preparazione degli allenatori svolge un ruolo molto importante. I corridori sono molto legati a loro e non potrebbe essere altrimenti perché il livello delle prestazioni si è alzato sensibilmente. Noi abbiamo riunioni online tutte le settimane, praticamente appena finita una stagione si è già al lavoro per la successiva.
E i corridori li vedi diversi?
Sì, per me anche un po’ troppo schiavi dei numeri, della preparazione, della routine. Ci mettono un’energia fisica ma ancor più mentale che è superiore a quella che mettevamo noi e temo che tutto ciò avrà un costo di logorio precoce. I corridori devono seguire una marea di dettami, manca loro quel guizzo che tante volte cambiava le sorti di una corsa.
A chi sei rimasto più legato nella tua carriera?
Bugno ad esempio, è stato con me 5 anni e non era un personaggio facile, era difficile legare, per certe cose era quasi un precursore del ciclismo di oggi. Ma anche Bortolami, indimenticabile quella giornata belga, oppure Leblanc o il povero Rebellin. Lo stesso Gianetti, un grande corridore, un uomo squadra. Ecco, lui trasmette quel che ha imparato nel suo nuovo lavoro.
Il rischio è che dai corridori di oggi usciranno diesse di domani con meno capacità empatiche…
E’ vero, ma già adesso questa figura è cambiata, molto professionale. Sono tutti colleghi, pochi fra loro sono amici se si capisce quel che intendo. Manca una componente importante: anche nella costruzione di un treno per le volate, non potrà mai funzionare appieno se non si svilupperà un rapporto stretto fra i suoi componenti.
Tanti ragazzi non approdano al ciclismo professionistico pur avendo valori, capacità. E’ qualcosa che ti preoccupa?
Non tanto, perché la selezione naturale c’è sempre stata. Come diceva la canzone “uno su mille ce la fa” ma è sempre stato così. Certo, i posti sono pochi e si vanno a cercare talenti sempre più giovani, ma è questo il trend di oggi e bisogna adeguarsi, dobbiamo farlo innanzitutto noi italiani che non abbiamo un team di riferimento. Intanto però dovremmo imparare a far crescere i ragazzi senza schiacciarli dalla pressione del risultato, che conta ma non è tutto e qui lo sappiamo bene.