Giro d'Italia dilettanti 1992, Marco Pantani, Cavalese-Pian di Pezzè

Giro, un altro ricordo. Cosa sapete della Montagna Pantani?

10.12.2025
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Non solo Corno alle Scale, c’è un altro arrivo del prossimo Giro d’Italia che ha acceso un ricordo a dir poco speciale. A Pian di Pezzé si concluderà infatti la 19ª tappa, il vero tappone dolomitico con salite come il Giau e il Falzarego prima della scalata finale, nominata Montagna Pantani. Sapete perché? Si è arrivati lassù una sola volta: era il 1992, a capo di un altro tappone dolomitico al Giro d’Italia dei dilettanti, quando un giovanissimo Marco Pantani attaccò da par suo e strappò la maglia di leader all’altrettanto giovane Wladimir Belli.

«Si partiva da Cavalese – ricorda il bergamasco – poi si scalavano il Sella, il Gardena, il Campolongo e da lì si scendeva ad Alleghe per fare la salita finale. Mi ricordo che ero il leader della corsa e la mattina andai da Marco e gli dissi: “Vabbè dai, hai fatto terzo nel 1990, secondo l’anno scorso, ti toccherà fare un altro podio”. Lui invece mi guardò in cagnesco e mi disse: “Belùn, preparati: oggi te la cavo!”

Belli, Casagrande, Pantani

Fine di giugno del 1992, nell’estate che annuncia le Olimpiadi di Barcellona, cui l’Italia prenderà parte con Rebellin, Gualdi e Fabio Casartelli, che di Belli è compagno di squadra alla Domus 87. Ma per il momento la Spagna è più lontana dei 1.250 chilometri che dividono Cavalese dalla capitale catalana. Il 30 giugno si parla di futuro fra i tre italiani che nelle ultime stagioni hanno dominato la corsa organizzata dalla Rinascita di Ravenna. Oltre a Belli, primo nel 1990, c’è anche Francesco Casagrande, vincitore nel 1991. E poi Pantani, terzo e secondo nei due anni precedenti.

«Però partiamo dalla cronometro a Marina di Pietrasanta – racconta Belli – in cui, come sempre, gli avevo dato una… settimana, avevo un bel vantaggio. Non andavo fortissimo quel Giro, non ero in condizione al 100 per cento, perché l’anno prima avevo firmato il contratto da professionista e la testa era già di là».

L'azione di Pantani inizia a 70 chilometri dall'arrivo: scala da solo Sella, Gardena e Campolongo (immagine Rai Play)
L’azione di Pantani inizia a 70 chilometri dall’arrivo: scala da solo Sella, Gardena e Campolongo (immagine Rai Play)
L'azione di Pantani inizia a 70 chilometri dall'arrivo: scala da solo Sella, Gardena e Campolongo (immagine Rai Play)
L’azione di Pantani inizia a 70 chilometri dall’arrivo: scala da solo Sella, Gardena e Campolongo (immagine Rai Play)

La maglia a Cavalese

Non è il ciclismo dei watt, al mattino si mangia la pasta in bianco col pomodoro a parte, anche se Pantani a volte la condisce con la marmellata. La sua bici è una Carrera con il telaio in acciaio, perché anche lui ha firmato il contratto e da agosto salirà a bordo della corazzata di Boifava e Quintarelli. Belli invece andrà alla Lampre di Saronni e Algeri.

«Il mio diesse Locatelli – ricorda – neanche voleva mandarmici al Giro, perché lo sapeva che non avevo il peso giusto. Ma io avevo insistito, la tappa di San Pellegrino arrivava vicino casa e invece proprio quel giorno mi resi conto di fare fatica. Poi arrivammo a Cavalese e li ci fu la prima vera selezione. La maglia se non sbaglio l’aveva ancora Marco Serpellini, però Marco prese e andò via sul Passo San Lugano e dietro rimanemmo in pochi. Lui vinse la tappa e io misi la maglia. Andò forte, ma pensavo che mi sarebbe bastato controllare quel vantaggio piuttosto importante. Ero fiducioso, insomma, molto fiducioso. Invece il giorno dopo Marco mi sfidò. E io decisi di fargli capire subito che non ci fosse trippa per gatti».

Sull’ammiraglia dell’Emilia Romagna (il Giro si correva per formazioni regionali) c’erano Orlando Maini e Davide Balboni
Sull’ammiraglia dell’Emilia Romagna (il Giro si correva per formazioni regionali) c’erano Orlando Maini e Davide Balboni

Attacco frontale

Il resto è storia. Pantani attacca sul Sella e alle sue spalle il gruppo esplode. Fa quello che avrebbe fatto più e più volte tra i professionisti, guadagnandosi il suo posto nella storia. Casagrande cede quasi subito, poi tocca a Belli. Resistono soltanto due colombiani, che non lo impensieriscono. Il Sella da solo, poi il Gardena. E quando è sul Campolongo e chiede un po’ di zuccheri all’ammiraglia, dietro si accorgono di non averne. E’ il giorno in cui Orlando Maini, che con Davide Balboni guida la squadra dell’Emilia Romagna, entra nel vialetto di una casa e chiede un pacco di zucchero a una signora, ben lieta di aiutare.

L’arrivo ai piedi di Pian di Pezzé lo vede ancora in compagnia dell’ultimo colombiano, ma bastano pochi chilometri perché anche quello salti. Pantani ha regalato una sola tappa in carriera, quella di Selva Val Gardena a Guerini. Ma al contrario di quello che avviene oggi con il cannibale iridato, il suo atteggiamento venne preso per arroganza.

«Ero dietro attaccato a un filo – ricorda Belli – e pensavo: mollerà, mollerà, mollerà, mollerà. Invece mollai io e andai in crisi anche di testa. Mi sentivo forte, per questo accettai la sfida testa a testa. Invece per la prima volta nella mia carriera presi una sberla non solamente fisica, ma soprattutto mentale. Non ero abituato a farmi staccare. In più, nell’inverno tra il 1991 e il 1992, avevo iniziato a soffrire attacchi di panico. Al tempo non sapevo cosa fossero, ma non riuscivo più a rimanere concentrato sul ciclismo. Però questo non toglie che Marco fece una cosa grandissima, ancora una volta non aspettando l’ultima salita, ma attaccando subito».

A Pian di Pezzè, Pantani conquista la maglia di leader del Giro dilettanti
A Pian di Pezzè, Pantani conquista la maglia di leader del Giro dilettanti
A Pian di Pezzè, Pantani conquista la maglia di leader del Giro dilettanti
A Pian di Pezzè, Pantani conquista la maglia di leader del Giro dilettanti

Nasce l’amicizia

Della salita di Pian di Pezzé, Belli ricorda molto poco, perché ammette di non avere una grande memoria fotografica. E perché ci arrivò così conciato per le feste da non avere la lucidità e forse nemmeno la voglia di guardarsi intorno. Pantani vince la tappa e conquista la maglia gialla, che difenderà agevolmente l’indomani nella tappa di Gaiarine, vinta da Mariano Piccoli.

«So solo che presi una valanga di minuti – ammette Belli – perché quando si molla, si molla. Dopo l’arrivo non lo incontrai, andai a fargli i complimenti alla partenza del giorno dopo. Soprattutto i primi anni, non si parlava molto. Ci eravamo conosciuti da juniores e poi abbiamo sempre avuto un rapporto di stima reciproca, pur non parlando tanto. Da professionisti invece si matura, si ha più tempo per stare insieme e si capisce che prima dei corridori ci sono le persone. Da dilettanti facemmo con la nazionale la Settimana Bergamasca del 1991, che vinse Armstrong. Eravamo in camera insieme e nacque un po’ più confidenza. Da lì in avanti rimanemmo avversari, ma alla fine c’era qualcosa di più profondo e più umano. Quando c’era da ridere e scherzare, Marco non si tirava indietro».

Wladimir Belli, Marco Pantani, Giro d'Italia 2001
Fra Belli e Pantani nacque una bella amicizia negli anni tra i pro’. Qui siamo al Giro del 2001
Wladimir Belli, Marco Pantani, Giro d'Italia 2001
Fra Belli e Pantani nacque una bella amicizia negli anni tra i pro’. Qui siamo al Giro del 2001

Come Pogacar, 20 anni prima

Oggi quel modo di correre è la cifra stilistica di Pogacar. Nessuno ci ha più provato per anni fatto salvo Contador e il Froome al Giro del 2018: l’atleta calcolatore da cui meno sarebbe stato logico aspettarselo.

«E’ tornata la tendenza a correre da pirati – riflette Belli, brillante opinionista di Eurosport – la tendenza è quella di partire più da lontano. Le situazioni sono cambiate, c’è più coraggio. Pogacar insegna che si può fare. Tanti ci provano e rimbalzano, ma altri ci provano e poi arrivano. Hanno capito che non si può più aspettare l’ultima salita, perché il livello è alto per tutti. E a proposito di Pantani, ricordo una scena alla partenza da Asiago al Giro del 1998. Io ero compagno di squadra di Zulle che aveva la maglia rosa e lo aveva umiliato a cronometro e staccato a Lago Laceno. Marco venne da me e come sei anni prima io gli dissi che si sarebbe potuto accontentare. Lui mi guardò e mi disse: “Belùn, preparati: oggi gliela cavo!”. A me tornarono in mente le stesse parole di Cavalese, mi venne un brivido lungo la schiena e pensai che sarebbe stata una giornata lunga. Anche quella volta sappiamo bene come andò a finire…».

Mont Ventoux, una sola vittoria italiana: 25 anni fa con Pantani

22.07.2025
7 min
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MONTPELLIER (Francia) – Solo dieci volte nella lunghissima storia del Tour, la corsa si è conclusa sul Mont Ventoux. E nell’albo d’oro del monte caro al Petrarca figura soltanto un nome italiano: quello di Marco Pantani (anche Marta Cavalli ha vinto lassù nel 2022 nella Mont Ventoux Denivele Challenge).

Accadde il 13 luglio del 2000, venticinque anni fa, ed è uno di quei ricordi da cui speriamo di non separarci mai. C’era un vento che strappava gli striscioni, tanto che quello di arrivo fu messo via per paura che volasse. La sala stampa era sulla cima, in un tendone e non a 17 chilometri come accadrà oggi. C’era l’imbattibile Armstrong che nel 1999 aveva vinto il primo Tour. C’era anche la fiducia irrazionale, che viveva da qualche parte nel nostro petto, che il Pirata sarebbe tornato. E quel giorno infatti, come è vero Dio, Marco tornò.

Chiudiamo gli occhi e rivediamo i flash della giornata. Si parte da Carpentras e al via c’è Robin Williams. L’immenso attore saluta Ilario Biondi, riconoscendo la somiglianza, e gli sussurra ridendo che potrebbero essere fratelli. Poi la corsa parte e Marco, che in classifica viaggia con un ritardo abissale di 10’34”, si stacca ancora una volta. Tuttavia questa volta, anziché sprofondare, resta lì con la sua fatica. Il tempo di inquadrare la fuga e lo vediamo spuntare nell’inquadratura alle spalle della fuga, dove la montagna si espone al vento. A quel punto noi siamo già sulla cima, cercando di seguire la corsa da uno schermo montato al riparo di un furgone. Di colpo da dietro si muove Armstrong che ha visto staccarsi Ullrich e ne approfitta, arrivando a doppia velocità.

A Carpentras, l’incontro fra Robin Williams e Ilario Biondi
A Carpentras, l’incontro fra Robin Williams e Ilario Biondi

Lo prende e fa per staccarlo, ma non lo stacca. Ci riprova e non si capisce se non affondi il colpo o se l’altro piuttosto che lasciarlo andare abbia scelto di morire sulla bici. E quando infine si tratta di fare la volata, Pantani vince e Armstrong dichiara di avergliela regalata. Non dichiara ciò che su quei giorni emergerà dalle indagini, che hanno portato alla cancellazione dei suoi risultati. Forse è stato meglio che quel giorno abbia vinto Pantani, altrimenti il Ventoux avrebbe avuto soltanto nove vincitori su dieci arrivi in cima.

In bici con Siboni

Noi c’eravamo, ma meglio di noi visse la corsa Marcello Siboni, lo storico gregario di Pantani, che quel giorno chiuse la tappa a 11’23” dal suo capitano. Il compagno di allenamenti e zingarate dai tempi della Carrera, era stato schierato in quel Tour perché oltre a uomini forti, sarebbero servite anche persone capaci di stargli accanto. Il giorno di Campiglio aveva ancora strascichi profondi. Il risveglio di fine Giro, quando Marco spianò la strada di Garzelli verso la maglia rosa, aveva riacceso le speranze, ma niente era più splendente come prima.

«La tappa del Ventoux – ricorda – veniva dopo il giorno di riposo. Eravamo partiti per il Tour con Marco al 75-80 per cento della condizione. Poi col passare dei giorni iniziammo a renderci conto che si stava mettendo a posto, ma nulla aveva potuto fare per evitare la batosta di Hautacam (il romagnolo perse 5’10” da Armstrong, ndr)».

Marcello Siboni, classe 1965, è stato pro’ dal 1987 al 2002. Oggi ha la sua officina a Cesena e si occupa di riparazioni
Marcello Siboni, classe 1965, è stato pro’ dal 1987 al 2002. Oggi ha la sua officina a Cesena e si occupa di riparazioni

«Cominciò a guardarlo – prosegue Siboni – e a pensare che fosse un extraterrestre. In più quel giorno aveva anche piovuto, quindi era stata una giornata un po’ particolare e la sera Marco era demoralizzato. Sapeva che la sua condizione non fosse al 100 per cento, ma sperava che il carattere gli bastasse per colmare le differenze.

«Non aspettava altro che battersi con Armstrong – prosegue Siboni – che aveva vinto il Tour dell’anno prima senza che noi ci fossimo per difendere la vittoria del 1998. L’americano era il favorito, ma quando partimmo, l’idea era quella di sfidarlo ancora».

La tigna del Pirata

La tappa ha una serie di salitelle nell’avvicinamento al Mont Ventoux, in quel dedalo di strade, canyon e stradine della campagna provenzale così morbida e poi di colpo pietrosa. Nessuno prova a fare chissà quale selezione, per cui fatta salva la fuga di giornata, il gruppo arriva compatto nella zona di Bedoin.

«Il gruppo era bello nutrito – ammette Siboni – e lui come al solito era indietro. E’ sempre stato il suo modo di essere e del resto nessuno quel giorno si aspettava che potesse succedere qualcosa di bello. Però l’avete conosciuto anche voi: spesso diceva una cosa e ne faceva un’altra. Quindi magari non disse nulla, ma dentro di sé sperava di fare qualcosa. Solo, per come era andato sulle salite precedenti, era difficile crederci. Invece con la tigna che ha sempre avuto, si staccava, si riprendeva e poi tornava sotto. Quella tappa fu l’espressione massima di Marco: cioè di uno che non molla mai, a costo di arrivare morto».

«Finché a un certo punto è andato via e dopo un po’ abbiamo visto andare via anche l’americano. Magari è vero che l’ha lasciato vincere e Marco non era contento, perché lui lo voleva staccare. Ma quando l’altro si è messo a dire di avergli fatto un regalo, Marco si è imbestialito. Cosa dici certe cose? Se anche fosse, tienile per te…».

L’istinto contro il calcolo

Si passa in poco meno di due ore dalla gioia per la vittoria al fastidio per le parole di Armstrong. Marco è contento, sono tutti felici per il ritorno alla vittoria dopo quella maledetta tappa di Madonna di Campiglio che aveva segnato l’inizio della fine. Quando gli dissero che non avrebbe dovuto vincere così tanto: chissà se a Pogacar qualcuno l’ha mai detto. Probabilmente no.

«Dentro di lui covava il malumore per le parole di Armstrong– ricorda Siboni – e la sua voglia di batterlo è letteralmente esplosa. Per questo a Courchevel lo staccò, per quella cattiveria di cui solo lui era capace e che gli è cresciuta dentro. A Courchevel forse non era il vero Marco, ma nemmeno era da buttare via. Due giorni dopo cercò di sbancare tutto con la fuga di Morzine, perché di colpo credevamo di nuovo che si potesse tentare l’impossibile. Quella settimana ci sentivamo tutti galvanizzati per il suo ritorno alla vittoria.

Spaghetti all’astice per Pantani, Fontanelli e la Mercatone Uno: li ha preparati Giovanni Ciccola per la vittoria sul Ventoux
Spaghetti all’astice per Pantani, Fontanelli e la Mercatone Uno: li ha preparati Giovanni Ciccola per la vittoria sul Ventoux

«Devo ammettere che Marco non avesse mai avuto grande simpatia per Armstrong. Si era visto sin da subito, appena passato, che fosse un giovincello un po’ sbruffone. Marco nel 1998 aveva vinto il Tour, ma di colpo era l’altro che spopolava. Evidentemente non gli era tanto simpatico neppure il suo modo di correre così freddo e calcolato, mentre lui era genuino e garibaldino. Armstrong si muoveva come se fosse il padrone, con una squadra che al pari di oggi sembrava composta da atleti telecomandati».

Gli spaghetti all’astice

Le esternazioni di Armstrong non riescono a rovinare la cena della Mercatone Uno del Novotel di Avignone. Qualche giorno prima, Giovanni Ciccola, lo chef che lavora con la Mercatone Uno per conto del Tour de France, ha preso da parte Pantani, chiedendogli che cosa avrebbe voluto mangiare. E quando Marco gli ha risposto «aragosta», l’altro per punzecchiarlo gliel’ha promessa per quando avesse vinto.

Quella sera sulla tavola della squadra approdano così degli spaghetti all’astice. A noi che lo aspettiamo fuori dalla porta, ne tocca una forchettata che vale quanto un calice di champagne per brindare al successo.

Quella sera pensammo nuovamente che tutto fosse possibile, mentre il Mont Ventoux da lassù si sentì felice di essersi consegnato a un campione immenso e pelato come lui. Erano anni di sogni che si avveravano e di campioni con gambe e grinta ultraterrena. Ne servì tanto per lottare contro Armstrong che, impunito, continuò a sovralimentarsi per tutto il tempo della corsa. Tre giorni dopo, in un testa a testa niente affatto casuale, Marco lo piegò dimostrando che forse, senza quel che accadde a Madonna di Campiglio nel 1999, l’era Armstrong non sarebbe mai iniziata. Forse un complotto, se complotto ci fu, servì a spianare la strada all’americano cui il Tour tributò sette anni di onori, prima di cancellarlo senza accennare la minima autocritica.

Inizio Tour “old style”? Podenzana racconta e spiega

15.07.2025
7 min
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Tutto al Nord, con tappe tendenzialmente veloci. E se in certe occasioni non ci fossero stati fenomeni come Van der Poel e Pogacar, avremmo visto anche più di sprint di gruppo. Parliamo dell’inizio del Tour de France, un inizio “old style”, come quelli che si vedevano negli anni ’90, quando uno dei protagonisti in gruppo era Massimo Podenzana.

Quante volte lo abbiamo visto, assieme al resto della Mercatone Uno, tirare in quei piattoni immensi per riportare dentro Marco Pantani. Il Panta magari era rimasto attardato per una caduta, una foratura o perché non aveva preso un ventaglio. Erano percorsi diversi, ma certe situazioni restano molto simili. In questa edizione del Tour ancora di più. Ormai è vietato stare oltre la quindicesima posizione. Lo abbiamo visto due giorni fa quando sono caduti Almeida e Buitrago e in gruppo erano rimasti in trenta o poco più.

Massimo Podenzana (classe 1961) è direttore sportivo della Novo Nordisk dal 2013
Podenzana (classe 1961) è direttore sportivo della Novo Nordisk dal 2013
Massimo, prime dieci tappe al Nord, qualche strappo ma tutte veloci…

Sì, anche se sono frazioni un po’ diverse rispetto a prima quando erano molto più piatte. Quando si faceva noi il Tour, nei primi dieci giorni si arrivava sempre in volata o al massimo arrivava una fuga. La cosa che invece era ed è simile è che era difficile rimanere in piedi in quelle tappe. O comunque senza incidenti. Se ci riuscivi, avevi già vinto. Almeno per noi era così, visto che con il Panta si cercava di fare classifica. Aggiungo però che a livello televisivo ora è più bello.

Perché?

Perché ci sono frazioni movimentate, intense… anche se molto nervose.

C’è più caos adesso negli sprint di gruppo? Una volta c’erano squadre di sprinter e squadre di uomini di classifica. Oggi si vedono quasi più i treni degli uomini di classifica che quelli dei velocisti, che al massimo hanno un paio di uomini…

Una volta magari c’era un po’ più spazio per le fughe. Adesso, quando ci sono tappe per velocisti, controllano le squadre dei velocisti; nelle tappe miste controllano quelli di classifica, quindi è più difficile fare differenze. La corsa è chiusa (un po’ come diceva De Marchi, ndr). Non solo, ma quando si arriva in volata tutti cercano lo sprint, sono in tanti, e viene fuori un vero caos. Si verificano un sacco di cadute, come abbiamo già visto.

Come se la cavava la Mercatone Uno in questi sprint?

A noi non ci riguardava. Eravamo compatti e concentrati sul nostro obiettivo: arrivare all’ultimo chilometro e poi sfilarci. Adesso il limite è ai tre chilometri. Si cercava di tenere il leader nelle posizioni di testa. Però secondo me le velocità sono alte anche ora. Con la mia squadra abbiamo fatto recentemente il Baloise Belgium Tour e, quando si arrivava in volata, sul tachimetro della macchina vedevi velocità da far paura.

Voi, Massimo, facevate una gran fatica perché ogni volta, come hai detto prima, c’era una caduta, un buco, un ventaglio… e stai tranquillo che c’era dentro Marco. E voi giù dentro a menare..

Vero – sorride Podenzana – il nostro obiettivo era arrivare a metà Tour, quindi a ridosso delle salite, senza cadute. Poi ci pensava lui.

Oggi è tutto diverso e capita spesso che uno sprinter forte come Merlier si metta a disposizione del leader per la generale
Oggi è tutto diverso e capita spesso che uno sprinter forte come Merlier si metta a disposizione del leader per la generale
Quando dovevate tirare e mettervi “pancia a terra” in mezzo a quelle tappe caotiche, c’era un regista? Un road capitain?

Sì, ma dipendeva dalla tappa. Ogni giorno era diverso: chi stava meglio tirava di più, l’altro di meno.

Soudal‑Quick Step: c’è una piccola analogia tra loro e la vostra Mercatone Uno? Hanno l’uomo di classifica e lo sprinter. Merlier e Remco come Manzoni e Pantani.

Loro per Merlier sfruttano molto il lavoro degli altri. Noi eravamo tutti per Marco. Manzoni se la cavava da solo. Merlier oggi è più forte che in passato: al Baloise è arrivato in volata e non c’era storia. Milan è forte, però non mi sembra al top come prima. Inoltre tende a posizionarsi un po’ alto nello sprint: si alza con spalle e testa e prende aria. Però le sue qualità non si mettono in dubbio.

Rispetto al tuo ciclismo cosa è cambiato pensando sempre alle prime tappe di questo Tour, ma dei grandi Giri in generale?

Molte cose sono uguali, ma qui c’è un corridore di un altro pianeta che va a prendersi tappe che un tempo gli uomini di classifica avrebbero lasciato. Pogacar l’ha già dimostrato anche in questo Tour. E a cronometro ha perso pochissimo da uno specialista. Vingegaard, invece, dopo l’incidente, non è tornato quello di prima. Ha lavorato molto, però secondo me non è più il vincitore sicuro di Tour.

Se paragoni Pogacar a un capitano dei tuoi tempi chi ti viene in mente?

Secondo me il Panta in salita aveva qualcosa in più, però Pogacar a cronometro è più forte e in generale è più completo. Marco al massimo nelle cronometro si difendeva, come per esempio, le seconde crono di un grande Giro, che erano più per chi aveva ancora energie piuttosto che di prestazione assoluta.

Sempre secondo Podenzana, un tempo la corsa era più lineare e c’era una squadra (o poche altre) che controllavano
Sempre secondo Podenzana, un tempo la corsa era più lineare e c’era una squadra (o poche altre) che controllavano
Massimo tu sei stato un corridore e sei un direttore sportivo. Come si lavora in queste situazioni quando devi tenere l’uomo davanti?

Secondo me il lavoro è uguale, con l’aggravante che ora c’è più stress. Prima non c’erano tutte queste squadre attrezzate come oggi. Prendiamo la tappa di Rouen: per prendere l’ultima salita, tutti erano davanti. Anche squadre come la Groupama-FDJ. Sì, Gregoire è forte, ma una volta squadre così non avrebbero tirato così costantemente e probabilmente uno come lui non sarebbe stato lì. Adesso, con le rotonde, gli spartitraffico… altro che stress.

Ti piaceva avere indicazioni o preferivi non averne?

No, era diverso senza radio. Si viveva più la giornata. Adesso quando partecipi a una corsa sai già tutto: finale, rotonde, curve… Ma oggi le radioline servono. Al campionato italiano ci dicevano di avvertire i corridori per un problema: ma senza radio come facevi?

Come studiavate la tappa?

Si studiava il libro gara, cercando di capire gli ultimi due–tre chilometri. Non veniva segnalato tutto come adesso.

C’era un road captain?

Sì, ma variava a seconda della tappa, di chi stava meglio. C’ero io, c’erano Conti, Fontanelli, Zaina, Velo… dipendeva dai momenti della gara.

Quali squadre vedi lavorare bene oggi?

La UAE Emirates, anche se al Giro d’Italia non mi è piaciuta tanto, ma qui stanno facendo tutto al meglio. Anche la Visma-Lease a Bike mi piace: porta sempre Vingegaard davanti nei momenti top e lo protegge costantemente. Sono le due squadre migliori e lo sono anche perché hanno i corridori più forti, quelli con più gamba e che di conseguenza sanno ben muoversi in gruppo.

Podenzana apprezza molto il laoro di Visma e UAE
Podenzana apprezza molto il laoro di Visma e UAE
Tappe più ondulate, ma anche più nervose, come quelle di questo inizio Tour sarebbero piaciute di più alla Mercatone Uno rispetto ai piattoni di allora?

Sarebbe stato comunque difficile per noi. Eravamo più a nostro agio con le grosse salite. Magari su questi ondulati Pantani si sarebbe difeso meglio perché aveva classe e non aveva paura di lottare.

Lo avreste portato nelle montagne con meno svantaggio dopo dieci tappe?

Forse sì, perché quei percorsi sarebbero stati più adatti a lui rispetto ai totali piattoni e poi c’erano cronometro più lunghe. Ma la posizione in gruppo è troppo determinante oggi. Lui stava spesso dietro e risalire costa troppe energie. Ai miei tempi anche se era sbagliato qualche volta si poteva, ma oggi, se vuoi fare classifica, devi stare tra i primi venti. Sempre.

Massimo, chiudiamo con un aneddoto. Pensando alle tante sgroppate d’inizio Tour che vi faceva Pantani ce n’è una che ricordi più delle altre?

Ce ne sono tante. Mi viene in mente la tappa di Pau: dovevamo stare davanti, avevo una gran condizione. Ho lavorato tutto il giorno e sono riuscito a tenerlo là. Marco mi ringraziò. Ma ogni giorno dovevi dare il meglio per non fargli perdere terreno o energie. Anche se il ricordo più vivo non è legato al Tour ma al Giro.

Raccontaci!

Tappa dell’Alpe di Pampeago, quando Tonkov staccò Marco nel finale. Lì dovevo essere il penultimo uomo. Tiriamo, prepariamo l’attacco. Io sto per dare il cambio pensando ci sia un altro compagno dietro di me. Invece mi volto e c’è lui, Marco. E mi fa: «Pode, lungo». Insomma, tira ancora. Ho dato l’anima finché non è scattato. Quando lo ha fatto per me è stata una liberazione. Quel “Pode Lungo” me lo ricorderò per sempre.

Una piscina, Pantani e il giorno che conoscemmo Borra

15.05.2025
6 min
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Iniziava il lockdown, l’Italia si stava chiudendo e Matteo Moschetti era ancora nel piccolo appartamento che un amico di Fabrizio Borra gli aveva messo a disposizione per la riabilitazione dal secondo incidente.

«Mio figlio e mia moglie lo accompagnavano avanti e indietro – raccontò Fabrizio – e anche a fare la spesa. E’ un peccato non essere riusciti a finire il lavoro perché a un certo punto è dovuto andare a casa, ma credo che anche quel poco gli abbia permesso di abbreviare la ripresa».

Eccome se glielo permise! Il Moschetti che quest’anno ha già vinto quattro corse e sta lottando al Giro è figlio di quel lavoro. Tanti corridori sono passati dal suo centro e tanti hanno continuato a farlo, trovando in lui la chiave per rieducazioni anche estreme e un amico capace di immensa empatia. Fabrizio aveva gli occhi buoni, spesso stanchi per il tanto lavoro, con lo stesso guizzo sul fondo quando trovava la via migliore. E allora diventava un vulcano. Un’intelligenza inquieta, di quelle che servono per fare la differenza.

Pantani e la piscina

La prima volta fu nel vecchio centro, quello in città, al piano terra di un palazzo con il parcheggio alle spalle. Ci aveva invitato Marco, perché eravamo curiosi di seguire il suo recupero. Lo trovammo che nuotava contro una corrente piuttosto energica, con la smorfia di quando in salita metteva in croce gli avversari.

Fabrizio Borra, così si chiamava il suo rieducatore, lo conoscemmo in quel giorno di fine 1995. Spiegò le fasi del lavoro e solo dopo che Pantani ebbe terminato la seduta, ci accolse nel suo ufficio. La nostra storia con lui iniziò quel giorno e non si è più fermata. Anche quando si parlò di offrire a Marco un ultimo appiglio, il viaggio in una sperduta comunità sudamericana, al tavolo di don Gelmini era seduto anche lui.

Trent’anni di chiamate e incontri. Certamente con un diverso grado di intimità rispetto a quello che di volta in volta riusciva a stabilire con i suoi atleti, ma sempre con presenza e voglia di aiutare. Perché questo faceva Fabrizio: aiutava e trasmetteva la sensazione che nessun risultato fosse impossibile. Era una persona buona: non puoi fare quel mestiere se non lo sei.

Da anni, Borra era l’anima gemella di Fernando Alonso. Con lui e Bettini tentò anche di costruire un team (immagine Instagram)
Da anni, Borra era l’anima gemella di Fernando Alonso. Con lui e Bettini tentò anche di costruire un team (immagine Instagram)

Un precursore assoluto

«Ci sei?». Non c’era discorso di Fabrizio Borra, soprattutto quando spiegava qualche concetto legato al suo mestiere, che non fosse frammentato da quell’intercalare. Voleva essere certo che capissimo e in certi giorni effettivamente la seconda domanda era necessaria. E anche la terza.

Si era formato alla scuola dello sport americano e aveva portato in Italia la concezione del corpo come un sistema unico e l’uso dell’acqua per la rieducazione, che inizialmente sparigliò le carte. Non ha mai smesso di studiare Fabrizio, né di rimboccarsi le maniche. Anche quando l’alluvione entrò nel suo nuovo studio e fece marcire anni di ricordi e impegno. Ripartì anche quella volta.

Per chi come noi visse la vicenda di Pantani, resterà sempre un eroe. Lo guardò. Lo guardò impegnarsi. E disse: «Può tornare quello di prima, non ho dubbi». C’era lui quando Marco entrò nella clinica del professor Terragnoli a Ome, in provincia di Brescia, e tolse i ferri dalla gamba. Era già risalito in bici senza dirlo a nessuno, anche con quel fissatore esterno. Il miracolo si era già compiuto.

«Avevamo già provato a mettere la cyclette in acqua – raccontò un giorno Borra, ridendo – ma desistemmo perché il grasso sporcava l’acqua. Allora nuotava, ma bisognava stare attenti che non entrasse acqua. Una volta trovammo la protezione piena fino all’orlo, ma al medico non dicemmo nulla…».

L’idea di Bernal

Una delle ultime situazioni di cui parlammo con lui in modo approfondito fu l’incidente di Bernal. Eravamo certi che se Egan fosse passato fra le sue mani, il recupero sarebbe stato ben più rapido e incisivo. Invece la Ineos decise di seguire la strada colombiana e di fatto sono passati tre anni prima di poter rivedere Egan vicino ai suoi livelli.

«Non è tanto il fatto di rimetterlo prima o dopo sulla bici – disse Borra nell’interessante intervistace lo puoi mettere anche dopo 30 giorni, l’accortezza è che sia dritto. Quando hai tante fratture e così tanti traumi di quel tipo, che coinvolgono anche gli organi interni, bisogna guardare l’equilibrio muscolo-funzionale. Non so come stiano lavorando in Colombia, mi auguro che non abbiano guardato solamente l’aspetto osseo o l’aspetto della medicina interna, ma che abbiano misurato e valutato gli equilibri muscolo-funzionali. Cioè che la muscolatura abbia ripreso a lavorare in modo corretto. Penso che la Ineos Grenadiers, avendo creato un nuovo modello del ciclismo, sia attenta a questo aspetto».

Fabrizio Borra se ne è andato a 64 anni. Ha collaborato con un numero immenso di atleti, il mondo dello sport lo ricorderà a lungo
Fabrizio Borra se ne è andato a 64 anni. Ha collaborato con un numero immenso di atleti, il mondo dello sport lo ricorderà a lungo

Che fortuna averti incontrato

Lo avrete già letto e sentito. Fabrizio Borra non c’è più, portato via da un tumore scoperto un anno fa. La notizia è caduta dall’alto e si è propagata attraverso il mondo del ciclismo come uno tsunami per il quale nessuno era preparato. E siccome Fabrizio non era uno che chiamasse e preferiva starsene in disparte, soltanto ora tanti guardano l’ultimo messaggio senza risposta e ne capiscono il perché.

Sono decine gli atleti che gli hanno detto grazie e continueranno a farlo. Campioni, personaggi e persone comuni che hanno perso un punto di riferimento. Non conosciamo direttamente la sua famiglia, come i corridori che in questi giorni lo hanno ricordato. Ma nell’esprimere ovviamente vicinanza, perché il vero riferimento l’hanno perso soprattutto loro, ci teniamo stretta una frase pronunciata da suo figlio Daniele.

«Ci hai insegnato la lealtà, l’onestà e l’amicizia e in famiglia c’eri sempre anche quando non c’eri. Alla mamma penseremo noi e l’ameremo come tu ci hai insegnato a fare. Che fortuna averti avuto, papà».

Che fortuna, Fabrizio, averti incontrato sulla nostra strada.

Due secoli di Stelvio, Cima Coppi per storia e per diritto

30.03.2025
6 min
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Lo Stelvio compie 200 anni. La montagna resa famosa per la prima volta nel 1953 da Fausto Coppi (foto di apertura Publifoto/LaPresse) sarà al centro di un calendario di iniziative dalle quali si coglie immediatamente la sua importanza. Se infatti la strada fu scavata a tempo di record per la sua utilità commerciale, oggi il passo più alto d’Italia è un polo sportivo e turistico di primissimo piano fra la Valtellina, l’Alto Adige e l’Engadina, in Svizzera.

Per i 200 anni dello Stelvio, si stanno organizzando eventi e manifestazioni
Per i 200 anni dello Stelvio, si stanno organizzando eventi e manifestazioni

Tutto fatto in 63 mesi

All’inizio dell’Ottocento il collegamento fra la Val Venosta e la Valtellina, fra l’Austria e Milano, era assicurato da un sentiero, che non poteva più bastare. Il progetto per una strada larga tre metri fu commissionato nel 1812, ma con le Guerre Napoleoniche che infuriavano, non si trovarono tempo né risorse. Fu Federico II d’Asburgo a riprenderlo in mano nel 1818, affidando l’incarico a Carlo Donegani, l’ingegnere di Sondrio che aveva già progettato lo Spluga. I lavori furono terminati in 63 mesi. La strada venne inaugurata infatti nel 1825. Fu così che nacque il Passo dello Stelvio, a 2.758 metri sul livello del mare, lunghezza complessiva di 46,5 chilometri, 88 tornanti e 7 gallerie.

La strada fu teatro degli scontri tra italiani e austriaci nella Prima Guerra Mondiale, mentre la prima volta che lo Stelvio comparve nel Giro d’Italia fu, come si diceva, nel 1953. Coppi se ne servì come trampolino per ribaltare la classifica generale e strappare la maglia rosa dalle spalle dello svizzero Koblet.

E’ il 1975, testa a testa fra Bertoglio e Galdos sullo Stelvio: il Giro finisce in cima, maglia rosa all’italiano
E’ il 1975, testa a testa fra Bertoglio e Galdos sullo Stelvio: il Giro finisce in cima, maglia rosa all’italiano

Il Giro per 13 volte

Il Giro d’Italia dei professionisti ha affrontato lo Stelvio per 13 volte: 8 dal versante valtellinese, 5 da quello altoatesino. Il valico è stato per quattro volte arrivo di tappa, con vittorie di Battistini, Fuente, Galdos e per ultimo De Gendt nel 2012. La vittoria di Galdos fu particolare perché quell’anno, nel 1975, il Giro d’Italia si concluse proprio lassù. Lo spagnolo fece di tutto per staccare Bertoglio, ma non ci riuscì. A lui andò la tappa, il bresciano si portò a casa la maglia rosa che quest’anno festeggia i suoi 50 anni.

«Quel giorno rimarrà indelebile – ci raccontò quando nel 2005 andammo a trovarlo per i 30 anni dalla vittoria – me ne rendo conto sempre di più. Sono nella storia e ci rimarrò per sempre. Non tutti erano convinti che ce l’avrei fatta a difendermi da Galdos, ma io ci credevo. E ho anche il rammarico di non aver fatto la volata per vincere. Avevo la gamba giusta, ma ho voluto rispettarlo lasciandogli il successo».

Nel 1994, Pantani supera lo Stelvio e sul Mortirolo si scatena staccando Indurain e Berzin
Nel 1994, Pantani supera lo Stelvio e sul Mortirolo si scatena staccando Indurain e Berzin

Coppi, Vona e Pantani

Proprio in onore di Fausto Coppi che lo tenne a battesimo, il passo è la Cima Coppi del Giro ogni volta che vi viene inserito: essendo un titolo che spetta alla cima più alta della corsa, non potrebbe essere altrimenti dato che in Italia non si trovano valichi più alti. Lo Stelvio è stato a lungo anche il passo più alto d’Europa, finché i francesi non fecero un giochino. Si inventarono un anello stradale attorno alla piramide rocciosa de La Bonette che da 2.715 passò a 2.802 strappando allo Stelvio il suo primato. Fra gli atleti che hanno conquistato la Cima Coppi, ricordiamo Gaul, Bernaudeau, Cataldo, Nibali e nel 1994 anche il ciociaro Franco Vona. 

«Io non sono che un piccolo granello al confronto dello Stelvio – dichiarò Vona – e per me fu una gioia immensa, quasi come vincere una tappa. Il ciclismo è legato a episodi romantici come quel mio passaggio, tanto che mi capita più spesso di essere ricordato per quel passaggio che per le due tappe che avevo vinto a Corvara e prima ancora a Innsbruck (rispettivamente nei Giri del 1992 e del 1988, ndr). Quel giorno fu indimenticabile, anche per l’esplosione di Pantani. Mi riprese sul Mortirolo e quando mi passò pensai che fosse davvero forte. Io ero sfinito, lui sembrava fosse appena partito. Avevo fatto tante fughe nella mia carriera, ma nessuno mi aveva mai ripreso e staccato a quel modo».

Il 5 giugno del 1994, lo Stelvio diede l’ispirazione al giovanissimo Marco Pantani, che infatti planò su Bormio e iniziò la fantastica cavalcata sul Mortirolo e il Santa Cristina

Giro del 2005, Passo dello Stelvio. Basso sta male, si copre e riparte
Giro del 2005, Passo dello Stelvio. Basso sta male, si copre e riparte

Il dramma di Basso

Al ricordo esaltante e pieno di malinconia di quel 1994, corrisponde quello di Ivan Basso che nel 2005 sullo Stelvio avrebbe potuto costruire la prima vittoria al Giro, invece ne fu respinto. Lui che in Valtellina aveva trascorso tutte le estati nella casa di origine di sua madre.

«Uno dei miei primi ricordi da ciclista – racconta infatti Basso – è la scalata dello Stelvio con mio padre quando avevo otto anni. Era una giornata luminosa e pedalavo sulla mia Moser blu e argento. Lo Stelvio è duro per qualsiasi ciclista, ma per un bambino è un’impresa speciale, mi sentivo come se stessi scalando la montagna più alta del mondo. Mi ha sempre ispirato grande rispetto. Su una salita così c’è una sola regola: non andare mai fuori giri, soprattutto in gara. Negli ultimi 5 chilometri sei oltre 2.000 metri e c’è così poco ossigeno che ti manca il fiato.

«Salire può essere un’esperienza intensa ed emozionante. Ho scalato lo Stelvio lottando per la maglia rosa, ma stavo male e persi 42 minuti, vidi svanire il Giro. Ogni pedalata contro quella pendenza feroce fu una vera tortura».

L’ultima volta che il Giro èa rrivato allo Stelvio, vinse De Gendt: era il 2012
L’ultima volta che il Giro èa rrivato allo Stelvio, vinse De Gendt: era il 2012

Il Giro del 2025

Lo Stelvio è da sempre il metro di paragone per ciclisti da tutto il mondo. Nel surreale e splendido Giro del 2020, corso a ottobre per il Covid, per primo sulla cima transitò l’australiano Dennis, nella tappa che si sarebbe poi conclusa ai lagni di Cancano. Si sarebbe dovuti salire lassù anche nel 2024, ma la famosa nevicata che bloccò la carovana a Livigno sconsigliò l’idea.

Ai piedi di quella strada che nell’estate compirà 200 anni, il Giro farà tappa anche quest’anno. La corsa non andrà lassù: il rischio neve resta un deterrente troppo grande. Si arriverà a Bormio, con la 17ª tappa che scalerà il Tonale e il Mortirolo. Lo Stelvio ci guarderà dall’alto. E quella sera, cenando nella sua vasta ombra, brinderemo a lui con un calice di buon rosso valtellinese, prima di ripartire l’indomani da Morbegno alla volta di Cesano Maderno.

Vi ricordate di Secchiari? Una storia di belle storie…

21.02.2025
7 min
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Chiamatela nostalgia, se volete. Non vi capita mai che un’immagine vi rimandi a qualcuno con cui avete avuto a che fare in passato e che poi col tempo è sparito? Magari ve lo ricorda Instagram, oppure siete passati in un luogo che ha riacceso il ricordo. Allora di colpo le storie si animano, vengono a galla altri episodi e vi assale la voglia matta di risentirlo. A noi è successo giusto ieri con Francesco Secchiari, toscano classe 1972, professionista per dieci anni: prima con Reverberi, poi alla Saeco, alla Mercatone Uno con Pantani e alla fine la Domina Vacanze di Cipollini.

Secchiari era sparito, poi di colpo si è messo a pubblicare foto e storie su Instagram. E guardandole sono venuti alla memoria il primo incontro al Giro dei dilettanti del 1994, quando era leader ma stava per subire l’attacco decisivo di Piepoli. Il padre con il furgone che vendeva panini su tutte le salite in cui suo figlio correva e animava le nottate sui passi alpini. La caduta con Pantani e Dall’Olio nella Milano-Torino che rischiò di chiudere le loro carriere. La tappa vinta al Giro di Svizzera nel 2000 e due anni prima il quarto posto a Montecampione nel giorno in cui Pantani staccò Tonkov e fece la storia del Giro. E poi anche quella volta che capitammo a casa dei suoi genitori in Garfagnana, mangiando come poche altre volte in vita nostra e ridendo per l’episodio di un cinghiale investito non troppo casualmente col fuoristrada e poi finito sulla tavola.

Francesco Secchiari, classe 1972, è stato un pro’ dal 1995 a 2004 (immagine Instagram)
Francesco Secchiari, classe 1972, è stato un pro’ dal 1995 a 2004 (immagine Instagram)

Quando smise di correre nel 2004, fece un passo di lato e sparì, perché la vita gli propose esperienze troppo dure anche per uno che aveva corso cinque Giri d’Italia, due Tour e una Vuelta. Finché qualche tempo fa Secchiari è rispuntato su Instagram con una bicicletta e il mare dei ricordi.

T’è venuta la nostalgia?

No, non mi è venuta la nostalgia (ride, ndr). E’ andata così, è stata una cosa simpatica. E’ cominciato tutto… aspetta, parto da lontano. Quando ho smesso di correre, è morta mia mamma di tumore, c’è stata la separazione da mia moglie, facevo il muratore, ma mi ruppi una gamba. Ero in una situazione di merda, ingessato con la mamma morta e la moglie che andava via. Poi la vita va avanti, ci si riprende da tutto, però la bicicletta era rimasta da una parte perché non c’era più tempo e neanche la voglia. Finché vidi su Instagram una squadra, il Team Vibrata Bike, in Val Vibrata giù in Abruzzo.

Cosa facevano?

Vedevo che si allenavano, correvano, però alla fine non mancava mai la birrata tra amici. Così un giorno mi venne di fargli un commento e scrissi: «Questa sarebbe la mia squadra, con le birre e le passeggiate». Il tempo di farlo e mi chiamò subito il presidente e mi invitò a farne parte. Gli dissi che ero 100 chili, ma lui era gasato. Disse che gli sarebbe piaciuto se fossi andato a correre con loro e avessi partecipato alle serate. «Le serate – gli dissi – non sono un problema, però correre è un parolone!».

Arezzo al Giro del 2003, Cipollini eguaglia il record di 41 tappe vinte da Binda
Arezzo al Giro del 2003, Cipollini eguaglia il record di 41 tappe vinte da Binda
Avevi ripreso a pedalare nel frattempo?

Faccio dei giretti. Da tre anni sto insieme a Vera, una ragazza che faceva camminata a piedi, poi a forza di sentir parlare di bici, si è appassionata. Facciamo passeggiate. Abbiamo fatto la Spoleto-Norcia, tutti i percorsi del Chianti. Giri di 50-60 chilometri con 1.000 metri di dislivello, ma tutti finalizzati al fare una bella mangiata e girare i posti. Le corse si sono fatte prima.

Vivi sempre in Garfagnana?

No, quando mi sposai mi spostai a Pisa e ci sono rimasto, perché le mie figlie Noemi e Nadine sono qui e poi c’è più lavoro. Insomma, quelli della squadra di Teramo non hanno voluto sentire storie e mi hanno mandato il completino. Mi sono sentito quasi obbligato e ho ricominciato ad andare in bici. Siamo andati anche a trovarli, siamo andati a mangiare con loro. Poi quando è venuto fuori che avevo vinto il Giro d’Abruzzo, ci siamo legati anche di più.

La maglia del Vibrata Bike, qualche chilometro e una birra (immagine Instagram)
La maglia del Vibrata Bike, qualche chilometro e una birra (immagine Instagram)
Pesi ancora 100 chili?

No, ora sono a 98, ma ero arrivato a 115. Però mettici che sono più grosso per il lavoro. Faccio i giardini, ho cominciato tre anni fa. Durante il Covid era una delle poche categorie che poteva uscire e un amico mi ha convinto a lavorare nella sua azienda. Andai la prima volta per provare e non sono più venuto via. Si fa fatica, però ero abituato a correre in bicicletta e al confronto questa è nulla. Un giorno sei a Piombino al mare, un giorno sei nelle colline del Chianti. E’ sempre bello, sei fuori.

Come mai non sei rimasto nel ciclismo?

La grande passione mi è sempre rimasta e ho allenato per tre anni gli allievi, sono sincero, con un entusiasmo che la metà bastava. Però a un certo punto mi accorsi che l’impegno e i sacrifici li mettevo soltanto io. Sono sempre stato mezzo matto, però quando dicevo di fare i sacrifici, li facevo. Perciò ho provato a insegnargli le cose. Andavamo a fare la spesa. Li portavo a casa mia e gli facevo vedere come cucinare quel che avrebbero dovuto mangiare. Ci mettevo anima e corpo e poi li trovavo la sera al bar con il Negroni e la sigaretta. E dopo un po’ ho detto basta.

Che cosa ricordi quando pensi al ciclismo dei tuoi anni?

Se devo dire la verità, mi vengono spesso in mente quelli che non ci sono più. Scarponi, Marco (Pantani, ndr), Rebellin (i due sono insieme in apertura in un’immagine da Instagram, ndr). Purtroppo la lista è lunga. Loro sono quelli famosi, però da dilettante mi ricordo Diego Pellegrini: eravamo in ritiro insieme, abbiamo fatto il Valle d’Aosta, cadde e morì. Oppure Amilcare Tronca, ci ho corso insieme. E anche Alessio Galletti. Se mi metto a pensarci, sono almeno 15 persone che non ci sono più. Insomma, io penso a loro e mi mancano. In casa c’è un quadro fatto da Joe Di Batte, con Pantani e me. Per cui parlando di giovani…

Cosa diciamo?

Quelli di 13-14 anni che vengono a trovarmi, magari assieme ai genitori, quando vedono il quadro, chiedono: chi è quello insieme a te? Però se vuoi il primo ricordo, mi ricordo di te che la partenza di Corvara al Giro dei dilettanti, arrivasti e chiedesti: «Chi è Secchiari?». Io ero seduto sul marciapiede a mettere gli scarpini e mi facesti una foto bellissima, che ancora conservo. Fu la mia prima foto da ciclista vero, perché prima erano tutte foto scattate qua e là ed erano anche sfocate…

Secchiari ha chiuso la carriera nel 2004 a 32 anni, con 10 vittorie da pro’
Secchiari ha chiuso la carriera nel 2004 a 32 anni, con 10 vittorie da pro’
E Montecampione?

Quel quarto posto mette un po’ in ombra le vittorie che ho fatto. Quando mi presentano uno che non sa chi sono ed è appassionato del ciclismo, se gli dico che sono stato quarto a Monte Campione, quando Pantani staccò Tonkov, lo vedo che cambia espressione. Magari tutti hanno visto soltanto i primi due, però ogni tanto la telecamera staccava anche su me e Clavero che lottavamo fra noi.

Senti ancora gli amici corridori?

Mi capita di vedere Balducci e Guidi, quando viene qua: Fabrizio e anche suo fratello Leonardo. Oppure il Gobbini, con cui eravamo sempre insieme. Sono molto affezionato anche a Petacchi: non ho lavorato per lui quando vinceva, però siamo amici. E mi capita anche di sentire Mario (Cipollini, ndr), nonostante non ci vediamo, un messaggino ogni tanto ce lo scambiamo.

Cosa sanno le tue figlie del babbo corridore?

Inizialmente non ne se ne parlava e poi non gli interessava neanche. Poi magari una va a portare il curriculum per fare un lavoro e quello che lo riceve dice che una volta con quel nome c’era un corridore. E’ il suo babbo! Ormai sono grandi, hanno 24 e 21 anni, una lavora e l’altra studia lingue perché vuole fare l’insegnante. Ogni tanto vengono a chiedermi qualcosa, perché hanno sentito i racconti di altri. Magari gente adulta che qualche anno fa seguiva le corse.

Rimpatriata fra amici, con Allocchio, Bugno di cui era grande tifoso, Brocci e Lello Ferrara (immagine Instagram)
Rimpatriata fra amici, con Allocchio, Bugno di cui era grande tifoso, Brocci e Lello Ferrara (immagine Instagram)
Come sta tuo padre, va ancora alle corse o da quando hai smesso tu, ha smesso anche lui?

Ha smesso anche lui. E’ in forma, ancora adesso se c’è un cinghiale in giro, qualsiasi arma è buono per portarlo a casa. Sta rinchiuso, quando esce va per legna, per cinghiali o per funghi. Sono stato da lui sabato, è sempre lo stesso. Ha 72 anni e anche se i medici gli dicono di riguardarsi, continua a fumare come al solito. Sai che sono contento di questa telefonata? Dobbiamo assolutamente rivederci…

Organizziamo?

Bisogna, andiamo dal Pieri. L’ho rivisto, ma non sono mai stato a mangiare da lui. Dicono che la carne come la fa lui, non la fa praticamente nessuno…

Santini e Bianchi, l’incontro di due eccellenze italiane

24.01.2025
3 min
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Per tutti gli italiani appassionati di ciclismo il 1998 è destinato a restare impresso nella memoria collettiva in maniera indelebile. In quell’anno Marco Pantani realizzava infatti la storica accoppiata Giro d’Italia – Tour de France. Abbiamo dovuto aspettare ben ventisei anni e l’avvento di un “fenomeno” come Tadej Pogacar perché un simile risultato sportivo si potesse ripetere. Ad accompagnare Pantani nei suoi trionfi sulle strade del Giro e del Tour nel 1998 c’erano due eccellenze italiane, anzi due eccellenze bergamasche.

Stiamo parlando di Santini e Bianchi. Da una parte Santini, che forniva le divise alla Mercatone Uno (il team di Pantani), dall’altra Bianchi, che aveva messo a disposizione del fuoriclasse di Cesenatico il suo top di gamma, la Mega Pro.

Marco Gentili, Chief Executive Officer di Bianchi
Marco Gentili, Chief Executive Officer di Bianchi

Di nuovo insieme

A distanza di 27 anni da quel lontano 1998 Bianchi e Santini hanno deciso di incrociare nuovamente le loro strade. Le due aziende italiane hanno di recente siglato un accordo in base al quale Santini si occuperà dello sviluppo e della produzione di un’intera collezione firmata Bianchi Milano. Un nome quest’ultimo che vuole rendere omaggio alla città dove il marchio Bianchi è nato nel 1885, esattamente 140 anni fa. La collezione comprenderà capi tecnici per ciclismo su strada, gravel e mountain bike, oltre a una selezione di abbigliamento casual per il tempo libero, pensata per chi desidera vivere la passione “celeste” anche una volta sceso dalla bicicletta.

L’accordo avrà una durata quinquennale e prevede che la vendita e la distribuzione della collezione Bianchi Milano vengano gestite direttamente e in esclusiva da Santini.

Monica Santini: CEO di Santini Cycling
Monica Santini: CEO di Santini Cycling

Entusiasmo condiviso

Le dichiarazioni da parte di Bianchi e Santini su questa nuova partnership lasciano trasparire un entusiasmo comprensibile. 

Monica Santini, Amministratore Delegato di Santini Cycling, ha così commentato l’accordo con Bianchi: «Questo accordo segna un nuovo capitolo nella relazione tra Santini Cycling e Bianchi. Unendo le nostre competenze, vogliamo offrire ai ciclisti una collezione che rappresenti al meglio la tradizione e, nello stesso tempo, l’innovazione del ciclismo italiano».

Anche Marco Gentili, Amministratore Delegato di Bianchi, ha espresso grande entusiasmo per la nuova partnership: «L’accordo con Santini Cycling permetterà a Bianchi di portare avanti una strategica attività di brand extension nell’abbigliamento grazie alle comprovate competenze produttive e alla capillarità distributiva di Santini. Siamo particolarmente lieti di avviare una collaborazione di lungo termine con una delle eccellenze italiane che, come Bianchi, ha saputo conquistare il mercato internazionale. Con Santini lavoreremo sinergicamente per soddisfare le esigenze dei ciclisti nel mondo che ricercano stile e prestazioni adeguate per ogni esigenza».

La collezione Bianchi Milano sarà disponibile a partire dal mese di aprile sull’e-commerce ufficiale Bianchi Milano e presso rivenditori autorizzati in tutto il mondo.

Bianchi

Santini

Selle Italia acquisisce Vittoria Shoes: inizia un nuovo capitolo

21.12.2024
3 min
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Selle Italia, uno dei brand di riferimento mondiale nella produzione di selle per biciclette, ha da qualche giorno annunciato l’acquisizione del marchio biellese Vittoria Cycling Shoes, storica realtà italiana specializzata in calzature da ciclismo. Fondata negli anni Settanta dall’ex ciclista professionista Celestino Vercelli, Vittoria ha conquistato con il passare del tempo la fiducia di atleti di fama internazionale, come Marco Pantani, grazie a scarpe di altissima qualità e dal forte carattere Made in Italy. 

L’acquisizione rappresenta un passo significativo per Selle Italia, come ha sottolineato il Presidente Giuseppe Bigolin: «Allarghiamo il nostro raggio d’azione con un’azienda che condivide i nostri valori, puntando su sviluppo tecnologico, stile e tradizione italiana. Proprio come facemmo nel 2016 con Selle San Marco – ha aggiunto Bigolin – integreremo Vittoria nel nostro gruppo per creare nuove sinergie e raccogliere le sfide future del mercato». 

Eccellenza italiana

Vittoria Shoes ha fatto la storia delle calzature da ciclismo, collaborando con campioni come Stephen Roche, che nel 1987 vinse Giro d’Italia, Tour de France e campionato del mondo, e il leggendario Marco Pantani, i cui trionfi negli anni ’90 furono segnati dall’utilizzo di scarpe Vittoria e selle Selle Italia. L’azienda, grazie alla sua continua innovazione tecnologica, e al design inconfondibile, ha consolidato una reputazione di eccellenza che l’ha resa protagonista sulle strade delle più importanti competizioni ciclistiche mondiali.

Per Selle Italia, l’acquisizione di Vittoria rappresenta un’opportunità non solo commerciale, ma anche strategica.

«Crediamo che il futuro passi attraverso l’innovazione tecnologica integrata alla tradizione del Made in Italy – ha aggiunto Riccardo Bigolin –  e dunque lavoreremo per creare una forte sinergia tra le nostre realtà, puntando sulla scientificità del nostro brand idmatch e sulla capacità di Vittoria di innovare nel settore delle calzature sportive».

Le collezioni Vittoria includono calzature per ciclismo su strada, Mountain bike, triathlon, gravel e “new vintage”, quest’ultima pensata espressamente per gli appassionati di stile retrò. Con l’ingresso nel gruppo Selle Italia, il brand si prepara a un 2025 carico di significato, segnando una nuova era di crescita e innovazione.

L’acquisizione di Vittoria Shoes da parte di Selle Italia è un investimento anche sulla qualità e l’eccellenza italiana
L’acquisizione di Vittoria Shoes da parte di Selle Italia è un investimento anche sulla qualità e l’eccellenza italiana

Selle Italia: una tradizione ultracentenaria

Fondata nel 1897, Selle Italia rappresenta un punto di riferimento globale per le selle da bicicletta. Con sede ad Asolo, in Veneto, l’azienda produce ogni anno oltre un milione di selle, vendute in tutto il mondo. Grazie all’unione con marchi storici come Selle San Marco e ora Vittoria Shoes, il gruppo conferma e rilancia il proprio impegno nel settore del ciclismo, continuando a promuovere i valori del Made in Italy: qualità, prestazioni e design unico. 

Questa acquisizione non rappresenta solamente un ampliamento del portafoglio, ma un investimento nell’eccellenza italiana, rafforzando la posizione del gruppo sui mercati internazionali e mantenendo viva la tradizione del ciclismo tricolore. 

Selle Italia

Come vendere il prodotto ciclismo. Pozzato dice la sua

24.10.2024
5 min
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Il progetto è sempre lì. Filippo Pozzato non ha riposto nel cassetto le speranze di costruire un team tutto italiano che possa avere un futuro nel WorldTour, anzi si è consociato con Davide Cassani (che aveva espresso una volontà simile all’indomani del suo addio dalle responsabilità tecniche azzurre), ma per ora siamo ancora nel campo delle possibilità future, nulla di più. E dalle sue esperienze emergono tutte le difficoltà del ciclismo italiano attuale, assolutamente non al passo con i tempi.

Pozzato insieme al presidente Uec Della Casa. Per l’organizzatore italiano bisogna lavorare molto sulla comunicazione
Pozzato insieme al presidente Uec Della Casa. Per l’organizzatore italiano bisogna lavorare molto sulla comunicazione

Pozzato, reduce dalle fatiche organizzative delle classiche venete rese monche dal cattivo tempo, sottolinea come al momento il problema principale riguardi la ricerca di fondi: «Sto girando l’Italia proponendo la mia idea a molte aziende e questo mi permette di capire qual sia il gradimento del ciclismo. Devo dire che l’attenzione verso la nostra proposta non manca, il problema vero è legato alle cifre e al corrispettivo che ottiene chi investe nel nostro mondo. Per questo dico che c’è un disagio generale: non sappiamo vendere il nostro prodotto perché siamo ancorati a un approccio vecchio».

Che cosa chiede chi dovrebbe investire?

Vuole avere innanzitutto ritorno d’immagine, visibilità, regole certe. Se vado da uno sponsor per fare una squadra che ambisce a entrare nel WorldTour, devo chiedere un investimento di svariati milioni di euro per almeno un quinquennio. La risposta è sempre: «Ma a fronte di una simile esposizione che cosa ho in cambio?». E lì emergono tutte le nostre difficoltà perché non basta certo far vedere la maglia nella ripresa Tv a soddisfare le richieste, oggi che siamo nell’era dell’immagine.

Bisogna riportare la gente sulle strade, soprattutto i giovani, raccontando loro le storie dei protagonisti
Bisogna riportare la gente sulle strade, soprattutto i giovani, raccontando loro le storie dei protagonisti
Tu però parlavi anche di regole…

Il regolamento Uci non è assolutamente chiaro. Si è voluto introdurre il sistema di promozioni e retrocessioni: può anche andar bene, se non hai mezzi e capacità per competere al massimo livello è giusto lasciar posto ad altri. Quel che è meno giusto è “congelare” la situazione per anni, far scannare i team per tre stagioni impedendo agli altri di fare investimenti. Fai come negli sport di squadra, promozioni e retrocessioni ogni anno con regole certe anche per la partecipazione alle gare. Ma il problema non riguarda solamente le WorldTour.

Ossia?

Guardate quel che avviene nelle continental: noi in Italia abbiamo una visione falsata a questo proposito perché non puoi certo fare una squadra continental con 200 mila euro. Che attività puoi fare con un budget tanto risicato? Che cosa puoi dare ai tuoi atleti? Per questo dico che siamo ancorati a schemi vecchi quando il ciclismo è andato avanti, è diventato uno sport costoso, di primo piano. Per fare una continental seria si parte dal milione di euro in su, c’è poco da fare, perché giustamente sono aumentate le professionalità che devi coinvolgere, dal nutrizionista al preparatore.

Basso è per Pozzato un modello di come costruire un team su base aziendale, ma servono budget maggiori
Ivan Basso è un modello di come costruire un team su base aziendale, ma servono budget maggiori
Come si fa a vendere un proprio progetto in un simile ambito?

E’ difficile, lo vedo e per questo ammiro molto gente come Ivan Basso e gli sforzi che fa. Dobbiamo renderci conto che è una questione di marketing, di saper vendere quel che si ha. C’è una generale carenza nella comunicazione: come è possibile che dopo il mondiale di Zurigo arrivano il campione del mondo Pogacar e il suo rivale Evenepoel in Italia, a correre non solo il Lombardia ma anche corse come Emilia e Tre Valli Varesine e lo sappiamo solo noi addetti ai lavori?

In altri tempi, sulla “rivincita dei mondiali” sarebbe stata fatta una campagna di stampa enorme…

Già, poi vedi nel contempo che la sfida fra Sinner e Alcaraz per un torneo d’esibizione diventa martellante, ne parlano tutti i canali, tutti i media, tutti i social. Allora capisci che siamo noi – e ci metto tutti dentro – a non saper vendere il nostro lavoro. Una responsabilità in tal senso ce l’ha l’RCS, la Gazzetta che ha abbandonato il ciclismo, non segue più gli eventi, ma questo avviene anche con i suoi: le pagine per il Giro d’Italia sono drasticamente ridotte e gli inviati anche.

Sinner e Alcaraz: le loro sfide ormai coinvolgono tutti, anche per semplici esibizioni (foto Getty Images)
Sinner e Alcaraz: le loro sfide ormai coinvolgono tutti, anche per semplici esibizioni (foto Getty Images)
Per imitare il fenomeno tennis, servirebbe che avessimo un Pogacar?

Sì, quando avevamo Pantani tutti ne parlavano, ma rendiamoci conto che di Pogacar ne nasce uno al secolo e chissà dove… Io guardo il fenomeno tennis, Sinner è il frutto di almeno 15 anni d’investimenti nei tecnici, nei settori giovanili. Dietro il numero uno ora abbiamo una decina di tennisti fra i primi 100. C’è un movimento. Noi abbiamo latitato proprio in questo e continuiamo a farlo.

Un problema di gestione federale?

Sicuramente, ma è uno dei tanti. Andrebbero fatti investimenti nei settori senza attendersi subito risultati. Io credo che il ciclismo paghi anche il retaggio di una comunicazione sbagliatissima quando si è dato troppo spazio al doping senza investire sui giovani, sulle vittorie pulite. E’ stato fatto passare un brutto messaggio che ora, unito al problema sicurezza sulle strade, fa del ciclismo un soggetto meno appetibile. Le aziende che investirebbero ci sono, io ne avevo trovata una davvero grande, ma poi ha deciso di spendere quei soldi in un altro sport…

Secondo Pozzato, al ciclismo italiano servirebbe un Pantani capace di risvegliare l’attenzione dei media
Al ciclismo italiano servirebbe un Pantani capace di risvegliare l’attenzione dei media
Eppure di messaggi positivi questo mondo continua a diffonderne…

Io sono convinto che i personaggi ci sono, le storie da raccontare ci sono. Ma su personaggi come Pellizzari, tanto per fare un nome, ci devi investire, lo devi raccontare, far conoscere anche a chi non è del settore, perché poi al passaggio sulle montagne del Giro la gente a incitarlo ci sarà. I giornali continuano a credere che il popolo italiano sia calciofilo e basta: non è più così. il calcio attira meno e ha lasciato spazi importanti, noi potremmo coprirli, ma dobbiamo andare incontro alle nuove generazioni.