EDITORIALE / La morte di Sara merita una risposta decisa

27.01.2025
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Il padre di Sara Piffer ha raccontato al Corriere del Trentino di aver ascoltato la preghiera di suo figlio, coinvolto nello stesso incidente, e di aver perdonato l’uomo che, guidando un’auto, aveva da poco ucciso sua figlia (immagine Instagram in apertura). Forse è il solo modo per assorbire un colpo del genere e forse è possibile solo con una straordinaria fede in Dio. L’uomo ha definito la ragazza un dono e ha ringraziato Dio per avergliela mandata.

E’ già difficile accettare la morte di un figlio per un male oscuro che se lo porta via, ma se di mezzo c’è la mano dell’uomo, allora è diverso. Non so se io ci riuscirei. Forse è possibile solo se nasci e cresci in un posto come Palù di Giovo, che guarda il cielo negli occhi e la valle là in basso sembra infinitamente lontana.

Il funerale di Sara Piffer sarà celebrato oggi alle 15 a Palù di Giovo (immagine Instagram)
Il funerale di Sara Piffer sarà celebrato oggi alle 15 a Palù di Giovo (immagine Instagram)

La fretta e il bullismo

«Papà, noi stiamo sempre attenti – diceva a suo padre – sono gli altri che non stanno attenti a noi». E così è stato. Sara è morta proprio laggiù, dove le persone hanno fretta e dove il Trentino con gli anni è diventato rumoroso e distratto come altre parti d’Italia, in cui le biciclette sono l’anello più piccolo della catena alimentare.

La fretta. Aveva fretta la donna che ha ucciso Silvia Piccini, come pure l’uomo che ha ucciso Michele Scarponi. Aveva fretta il camionista che ha ucciso Davide Rebellin. Dicono sempre che avevano fretta, come chiunque non abbia ben chiaro che i limiti di velocità esistono unicamente per motivi di sicurezza. Ciò che sta diventando insopportabile è l’indulgenza verso i carnefici, che alla lunga si fa sempre largo nell’animo della gente buona del ciclismo.

La bontà sta diventando un limite, perché la gente dimentica. Il bullismo sulle strade, alla pari di quello nelle scuole, ha radici nella morbidezza con cui viene affrontato. Nella debolezza davanti alle frasi deliranti di Vittorio Feltri. Nel tollerare un certo modo di esprimersi sui social che legittimano l’aggressione al ciclista. In questo Giorno della Memoria, paragonare i ciclisti sulle strade a quello che accadeva in quegli anni maledetti appare meno fuori luogo di quel che si potrebbe pensare.

Nel 2023 Sara Piffer aveva partacipato la mondiale juniores di Glasgow, chiudendo al 18° posto
Nel 2023 Sara Piffer aveva partacipato la mondiale juniores di Glasgow, chiudendo al 18° posto

Per colpa di tutti

La fretta è il male di questo secolo popolato di tecnologie che rendono tutto possibile. Avete mai avuto, guidando, l’impulso di riempire il tempo comunicando con qualcuno, cercando un’informazione sul web, mandando un messaggio? Avete mai provato a fare un esercizio di autodisciplina, riservandovi di farlo quando vi sarete fermati? Avete provato la sensazione di frustrazione di quando il telefono non ha campo e vi sentite fuori dal mondo o impossibilitati a ottimizzare il tempo, organizzando il lavoro nel tempo della guida?

Sara e tutti gli altri sono morti per colpa nostra, incapaci di dare un valore alla loro vita. Per colpa di chi usa il telefono durante la guida. Per colpa di chi beve e sa di dover guidare. E per colpa di chi pensa che a lui andrà sempre bene e si ritrova un giorno davanti a una ragazza morta a procurarsi le scuse che a lei non ha concesso. Sara è morta per sempre, mentre lui tornerà presto alla sua vita. Con un peso sul cuore, diamolo per scontato, come quello di Giuda che seppe scegliere per sé l’uscita di scena che meritava.

Prima di Sara, anche Silvia Piccini fu uccisa da una donna che aveva fretta di andare al lavoro e neppure si fermò
Prima di Sara, anche Silvia Piccini fu uccisa da una donna che aveva fretta di andare al lavoro e neppure si fermò

Lo sciopero delle bici

Oggi alle 15 in quel paesino che ha dato i natali ai fratelli Moser e a Gilberto Simoni si celebreranno i funerali di Sara Piffer, 19 anni, uccisa sulla strada da un uomo al volante della sua auto. Finché qualsiasi veicolo non sarà considerato alla stregua di un’arma del delitto – di una pistola o di un coltello – la giustizia avrà una falla.

Gli scioperi dei ferrovieri hanno messo in ginocchio l’Italia da qualche mese a questa parte. Se c’è un invito che ci sentiamo di fare alla Federazione Ciclistica Italiana, all’ACSI, alla FIAB e a tutte le sigle che raccolgono sotto le loro insegne milioni di ciclisti è quello di proclamare per un giorno lo sciopero nazionale delle biciclette. Andiamo tutti a Roma e blocchiamo il centro e i palazzi del Governo. Questo non è un invito alla sedizione, è un grido disperato. Almeno quello, forse, riusciranno a sentirlo.

EDITORIALE / Silvia, Davide e le foto ricordo

05.06.2023
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«Sopravvivo»: un abbraccio e questa sola parola per raccontare la sua vita da quel giorno di aprile 2021, quando l’auto guidata da una donna con troppa fretta e zero senso di responsabilità portò via sua figlia Silvia Piccini.

Come per Marco Scarponi e Marco Cavorso, la vita di Deyanira Reyes e del marito Riccardo da allora sono diventate una dolorosa esposizione perché l’immenso sacrificio non sia stato invano. Li abbiamo incontrati al Giro d’Italia sulla cima del Monte Lussari, nell’hospitality ricavata sul tetto della stazione della cabinovia, con le magliette che ricordano il sorriso della figlia e la possibilità da quest’anno di donare il 5 per mille in dichiarazione dei redditi per promuovere le loro iniziative (gli estremi a questo link, ricercando Aps Con il Sorriso di Silvia Piccini).

Due mesi dopo la morte di sua figlia, Riccardo aveva pedalato dal Friuli fino a Piazza San Pietro, per portare Silvia a Roma. Lo avevamo incontrato alle porte della Capitale e le sue parole ci avevano scosso. Da quel viaggio, il friulano non ha più toccato la bicicletta, come se la pagina si fosse chiusa in quel momento e senza Silvia su quei pedali non ci fosse più un senso.

Il camionista sparito

E’ davvero difficile vendere il cambiamento, convincersi che qualcosa si stia muovendo. E’ difficile non sentirsi presi in giro, vedendo per l’ennesima volta il servizio realizzato dalle Iene sulla morte di Rebellin e il camionista che lo travolse.

«Dopo mezz’ora avevano tutto per prenderlo – dice il barista veneto intervistato – invece l’hanno identificato dopo tre giorni».

Già, perché il tipo non sarebbe affatto scappato, come farebbe comodo far credere per giustificare il fatto che se ne stia impunito in Germania. Ha visto sì il corpo di Davide – racconta suo fratello – poi sarebbe rimasto sul posto ad aspettare per 10 minuti. Da lì ha fatto pochi chilometri ed è andato a caricare due bancali di vino. In seguito si è spostato a Verona per un altro carico e lì ha dormito. L’indomani ha caricato a Pastrengo e alle 12 a Bolzano. E solo a quel punto è passato in Austria e da lì in Germania.

«La stampa italiana ha già spiegato tutto – il fratello rincara la dose – se la Polizia avesse fatto il suo lavoro e non la stampa, la questione sarebbe stata già chiarita».

Anche se è difficile da credere, il fratello dice che Wolfgang Rieke non si sarebbe accorto di aver procurato lui l’incidente. In ogni caso, forse viziati dalle serie tivù da cui siamo bombardati, troviamo difficile capire. Possibile che un camion segnalato non sia stato rintracciabile nei suoi spostamenti nelle 24 ore successive all’incidente?

Al funerale di Rebellin sono state spese tante belle parole, cadute però nel vuoto
Al funerale di Rebellin sono state spese tante belle parole, cadute però nel vuoto

La condanna indecente

Silvia ha una storia tutto sommato simile. Anche la donna che l’ha uccisa ha ritenuto opportuno rinnegare l’umanità e rifuggire qualsiasi forma di contatto con la famiglia Piccini, evitando persino di presentarsi alle udienze che hanno portato al patteggiamento. Lo stesso giudice lo ha fatto notare, ma la donna aveva il diritto di farlo e ne ha approfittato. Condanna a un anno e 4 mesi, sospensione della patente per tre anni e ugualmente un’annotazione sui social secondo cui il 2021 sarebbe stato un anno molto positivo.

A cosa serve aver istituito il reato di omicidio stradale se poi la punizione è così blanda? E mentre Riccardo Piccini raccontava scenari per nulla (purtroppo) sorprendenti sul fatto che magari certe sanzioni si possono anche aggirare perché tanto nessuno ti controlla, ci è venuta in mente la vicenda di Niccolò Bonifazio.

Il 12 luglio scorso, un’auto che marciava contromano investì e trascinò il corridore ligure. Solo che in questo caso l’investitore, un anziano delle sue parti, ha preso a chiamarlo e perseguitarlo. Nonostante il ritiro della patente, ha continuato a guidare. Finché, solo di recente è stato nuovamente fermato e la storia si è chiusa.

A cosa porterà l’incontro fra il presidente Dagnoni e il ministro Piantedosi? (foto Federciclismo)
A cosa porterà l’incontro fra il presidente Dagnoni e il ministro Piantedosi? (foto Federciclismo)

Le foto ricordo

Giusto ieri, alla partenza della Green Fondo Paolo Bettini di Pomarance (foto di apertura), alla partenza faceva bella mostra di sé il cartello sul metro e mezzo da osservare al momento di sorpassare un ciclista. Ne abbiamo parlato molto ed è giusto continuare a farlo: Silvia Piccini non sarebbe morta, invece l’Audi che la uccise viaggiava a velocità troppo sostenuta e la agganciò per un pedale. Tutti i corridori, chi più e chi meno, hanno messo la faccia su iniziative simili. La loro Associazione ha apposto il proprio logo, ma le cose non cambiano. Il presidente federale Dagnoni ha incontrato il Ministro dell’Interno Piantedosi, poi sono state presentate delle proposte di riforma al Codice della Strada.

Servirebbe a qualcosa fermare o ritardare una tappa del Giro d’Italia in onore dei morti della strada, anziché per le avverse condizioni del meteo?

Nel 2021, anno della morte di Silvia Piccini, come pure oggi, i notiziari riportavano gli orrendi numeri dei femminicidi in Italia: 119 donne ammazzate, numeri da bollettino di guerra. Negli stessi 12 mesi i ciclisti ammazzati sulle strade sono stati invece 229, quasi il doppio. Peccato però che loro non facciano per nulla notizia.

EDITORIALE / Riccardo, papà di Silvia: «Diamo un senso a questa storia»

14.06.2021
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Queste sono le parole molto toccanti di Riccardo Piccini, il papà di Silvia, vittima di un'auto alla fine di aprile. Con la sua squadra ha compiuto un viaggio di sei tappe fino a Roma, indossando la maglia e il casco rosa ricevuta da De Marchi, per raccontare la storia di sua figlia e richiamare a una maggior sensibilità sul tema sicurezza. Ascoltate con attenzione le sue parole. Ne riparleremo presto. Promesso!

Nessuno di noi la conosceva personalmente, ma Silvia Piccini è entrata nelle nostre vite e non deve più uscirne. Aveva 17 anni, classe 2003. Il 22 aprile si stava allenando, come faceva ogni giorno. Dopo scuola, tornava da Udine in pullman e intanto mangiava la sua ciotola di riso. Rientrava, si cambiava, usciva in bici e al ritorno studiava. Silvia voleva diventare un medico, la bici era la sua grande passione. Quel giorno però a casa non c’è tornata. La sua colpa è stata trovarsi sulla traiettoria di un’auto con troppa fretta, che l’ha uccisa.

Due giorni prima della partenza per Roma di Riccardo, Alessandro De Marchi si è presentato a casa Piccini portando in dono maglia rosa e casco
Due giorni prima della partenza per Roma di Riccardo, De Marchi ha portato in dono maglia rosa e casco

A Roma con Silvia

Passiamo le nostre giornate cercando racconti di campioni, imprese, dettagli tecnici, approfondimenti, biciclette bellissime, ma questa volta ci fermiamo e vi proponiamo una riflessione più profonda attraverso le parole di Riccardo Piccini, il papà di Silvia.

Lo abbiamo incontrato alle porte di Roma, mentre con gli amici del Picchio Rosso Bike stava concludendo il suo viaggio dal Friuli verso Roma. In bicicletta.

«Vi dico quello che mia moglie ripete sempre a tutti. Silvia non l’ha uccisa la bicicletta, la bicicletta non c’entra niente. Silvia l’ha uccisa un errore umano. Un errore umano, che poteva essere evitato. Non potevo dire a mia figlia di non andare in bicicletta e che la bicicletta è pericolosa. Era la sua passione. Ma dopo quello che è successo, schiere di bambini che sognavano di correre, adesso hanno paura di farlo. E non lo troviamo giusto».

Hanno distribuito questi cuori con il nome di Silvia lungo il percorso
Hanno distribuito questi cuori con il nome di Silvia lungo il percorso

Gli occhi di Riccardo

Ci ha messo in contatto De Marchi e Riccardo si è prestato a raccontarci di sua figlia. Mentre parlava, nel suo sguardo abbiamo rivisto il dolore di Giacomo Scarponi, Marco Cavorso e di altri genitori sgomenti. E quando abbiamo avuto paura di avergli chiesto troppo, è stato lui a voler andare avanti.

«Questa morte non deve essere stata invano. Ognuno di noi deve dare il suo esempio, ma le regole vanno imposte dall’alto. Ho pensato tanto in questi giorni e dovunque andassimo, abbiamo raccontato di Silvia. Alessandro lo ringrazio tantissimo. Incontrarlo è stata un’emozione grandissima, ci ha dato una forza incredibile. Oltre che un campione di ciclismo, secondo me è un campione di vita. Una grandissima persona, da stimare, da seguire».

Riccardo con la maglia rosa e il casco di Alessandro De Marchi: inizia l’ultimo tratto verso Roma, il viaggio volge al termine
Riccardo con la maglia rosa e il casco di Alessandro De Marchi

In silenzio

Vi lasciamo in silenzio con le sue parole, ma ci prendiamo l’impegno che non finirà qui e per questo vi chiederemo presto di fare qualcosa con noi. Tutti coloro che, nessuno escluso, nel ciclismo vivono e dal ciclismo traggono da vivere hanno l’obbligo di non limitarsi al solito carosello di belle parole. Quelle dopo un po’ si somigliano tutte e allora questo dolore non avrà avuto alcun senso.

Con De Marchi a casa di Silvia: «Ma ora facciamo qualcosa…»

09.06.2021
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«Ieri pomeriggio ho conosciuto Silvia. Leggete bene, non ho sbagliato: ieri ho veramente conosciuto Silvia incontrando la sua famiglia, papà Riccardo, mamma Janira, suo fratello Alejandro e l’ultima arrivata Elisa, l’ho conosciuta perché lei vive ancora con loro, è lì con loro ogni giorno. E la sua famiglia è determinata ad avere giustizia e soprattutto a non farla morire invano…».

Iniziava così due giorni fa il post su Instagram di Alessandro De Marchi. Avevamo pensato tante volte di metterci in contatto con la famiglia di Silvia Piccini – la ragazza di 17 anni uccisa il 24 aprile da un’auto mentre semplicemente si stava allenando – con la rabbia addosso per l’ennesimo incidente cui si fatica a dare una spiegazione, ma proprio Alessandro ci aveva detto che sarebbe stato meglio aspettare. Poi gli hanno detto che il papà della ragazza stava organizzando una pedalata per portare il suo dolore e la sua testimonianza fino a Roma e alla fine ha suonato alla loro porta (nella foto di apertura, scattata da sua moglie Anna, Alessandro è con il giovane Alejandro, suo padre Riccardo e, in braccio a mamma Janira, ci sono Andrea De Marchi e la piccola Elisa).

Silvia Piccini aveva 17 anni, è morta il 24 aprile due giorni dopo l’incidente (foto Instagram)
Silvia Piccini aveva 17 anni, è morta il 24 aprile due giorni dopo l’incidente (foto Instagram)

L’ansia addosso

Il Rosso di Buia è tornato in ospedale. Stamattina lo operano alla clavicola e poi resteranno soltanto le costole, che ancora fanno male. Scherzando gli chiediamo se gli abbiano lasciato direttamente le chiavi della stanza, poi però il discorso va ai sentimenti che condividiamo sulla storia di Silvia e dei tanti, come lei, che sono morti per il comportamento criminale di pochi.

«In realtà – racconta Alessandro – ero in contatto con loro già da un po’, da quando durante il Tour of the Alps mi esposi per parlare di Silvia. Fu una telefonata che mi lasciò senza parole. Prima di allora non ci eravamo mai incrociati, giusto per qualche evento di ciclismo. Dopo invece ci siamo tenuti in contatto. Per la maglia rosa e quando mi sono ritirato. Così, visto che suo papà stava partendo, con Anna siamo andati a trovarli. Eravamo parecchio agitati, perché in certi casi non sai mai come porti».

Silvia era lì

Silvia era ancora lì. Chiunque si sia trovato in situazioni analoghe potrà dirvi la stessa cosa. Solo il tempo renderà il distacco tangibile, ma all’inizio non è così. E’ successo un mese e mezzo fa, ma la mamma di Silvia a un certo punto ha accompagnato Anna, in dolce attesa, a guardare degli abiti che aveva pensato di regalare.

«Ci hanno raccontato gli aneddoti della sua vita – sorride – tante piccole cose. Silvia è nata che sua mamma aveva 17 anni e forse proprio per questo era una ragazza con la testa sulle spalle, di quelle che aiutava in tutto. Andava in bici. Studiava. Le piaceva scrivere. Era legatissima a suo fratello. La stessa determinazione di donare gli organi l’aveva avuta lei quando nessuno pensava che sarebbe finita così. Siamo rimasti sbalorditi… ».

Mamma Janira ha avuto Silvia quando aveva ancora 17 anni
Mamma Janira ha avuto Silvia quando aveva ancora 17 anni

Una vicenda triste

Alessandro racconta e sia pure a distanza lo immaginiamo fissare un punto, come fa quando segue il filo dei pensieri e li racconta senza perdersi. Come quando raccontò le emozioni della sua maglia rosa, che proprio in queste ore sta completando ben altro Giro d’Italia.

«Non ci hanno dato per un solo secondo la sensazione di una famiglia colpita dal lutto – dice – quelli tristi eravamo noi due. Ci hanno accolti come se ci conoscessimo da sempre. Ci hanno raccontato cose da non scrivere sull’incidente e quello che c’è ora. La vicenda è veramente triste. Abbiamo respirato la loro determinazione nell’andare sino in fondo per avere giustizia, sfruttando l’occasione per aiutare altre famiglie e perché la morte di Silvia non sia stata invano. La bici non c’entra, la bici è ancora centrale nella loro vita. Il papà è un amatore molto soft, cui piace fare chilometri senza classifiche. E il piccolino corre da esordiente.

«Lui era quello più emozionato. Mi ha chiesto un sacco di cose. La velocità nelle volate e mi ha confessato la sua paura di sgomitare nelle fasi di corsa. L’ho guardato, ho pensato a come sono conciato e gli ho detto che forse stava chiedendo alla persona sbagliata. Quando siamo usciti da quella casa, era come se davvero avessimo conosciuto Silvia».

Con Papà Riccardo e il figlio Alejandro, che corre negli esordienti
Con Papà Riccardo e il figlio Alejandro, che corre negli esordienti

Dipende da noi

Cosa si può fare, Alessandro, perché questa non sia solo una delle vite rubate? Il silenzio di fondo parla di una stanza di ospedale, ma anche dello sgomento che ti assale quando ti arrovelli in questi pensieri.

«Ho anche io la paura – ammette – che passata l’ondata del dolore, si tornerà a parlare d’altro. Mi sento di dire che vanno bene le iniziative di piazza, bene far rumore, ma poi mi chiedo: che cosa facciamo nel nostro piccolo? Quando siamo in macchina e la persona che guida telefona o scrive messaggi, che cosa gli diciamo? Quando vediamo sui social i nostri amici fare foto o selfie in auto o in bici, che cosa diciamo? Io credo che finché ciascuno di noi non comincia a rendere queste attenzioni quotidiane e senza eccezioni, il vento non cambierà. E allora davvero la morte di Silvia sarà stata invano».

Il ciclismo, più che uno sport è uno stile di vita.
Ci insegna la cosa più importante: a non arrenderci mai.
Silvia Piccini

La favola in rosa del friulano con i capelli rossi

11.05.2021
6 min
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Valentino Sciotti che gli corre intorno e gli grida che ce l’ha. Alessandro De Marchi che precipita fra le sue braccia. Che lo guarda. Che poi si butta sul manubrio, con la faccia fra le mani. Piove, ma nessuno sembra farci caso. Sciotti che continua a strattonarlo e abbracciarlo, mentre uno dopo l’altro arrivano gli altri componenti della Israel StartUp Nation. Il Rosso di Buja ha conquistato la maglia rosa. Non riesce a parlare. Pensiamo a Bressan e Boscolo a Udine, a quante bottiglie stapperanno stasera.

Un viaggio profondo

Il suo racconto è un viaggio profondo. Lo vedi che non si rende conto e che ha dentro qualcosa che lo scuote, ma non sa nemmeno lui con esattezza che cosa sia. Così parla, dando vita a un percorso interiore che sarà a volte perplesso, altre volte commosso.

«Per il modo di correre che ho io – dice – la percentuale dei tentativi che vanno a buon fine è sempre minore di quelli che riescono. Non credo di aver sbagliato o fatto delle scelte sbagliate in questi 11 anni, però è così. La generosità che ho sempre dimostrato era quasi scontato che finisse un po’ così, come ho detto anche altre volte. Alla fine però non bisogna mollare, perché le cose grandi a volte succedono anche a quelli come me».

Da soli non si beve, ma un brindisi a se stesso ci sta davvero tutto
Da soli non si beve, ma un brindisi a se stesso ci sta davvero tutto
Quelli come me?

Non lo so, una sensazione. Mi fa piacere che la gente possa essere contenta per la mia maglia rosa. Vuol dire che ho seminato bene in questi anni (trattiene a stento le lacrime, ndr). Forse questa cosa è ancora più gratificante della vittoria, dei risultati, magari addirittura più di questa maglia. Sapere che tante persone sono contente per quello che hai fatto e le cose che hai raggiunto… vuol dire che qualcosa di buono sono riuscito a fare».

Da bambino l’hai mai sognata?

In questi anni non avevo mai sfiorato e neanche mi era venuto in mente di pensarci. E’ un simbolo che quando un bambino inizia a pedalare è lì in alto. Non so esattamente perché, ma due giorni fa mi è venuta questa idea. E alla fine con una crono e due tappe in gruppo, siamo arrivati a oggi. Quello che ha fatto subito la differenza è stato capire nei primi chilometri che c’era battaglia. Non era una fuga a perdere, con la giusta situazione poteva crearsi questa opportunità.

Dombrowski lo attacca, Alessandro lo controlla: l’idea rosa prende corpo
Dombrowski lo attacca, Alessandro lo controlla: l’idea rosa prende corpo
Quando l’hai capito?

Alla fine. Primo ero concentrato su Oliveira e ovviamente sul riacchiappare i due fuggitivi. Nel momento in cui questo si stava sistemando, dalla macchina mi hanno detto di fare attenzione anche a Dombrowski, perché non potevo permettermi di farlo allontanare troppo. E quindi fino alla fine è stata una via di mezzo: ce l’ho, non ce l’ho. Una volta arrivato ho visto Valentino Sciotti che mi correva incontro e dalla faccia che mi ha fatto, ho capito che ero la nuova maglia rosa.

Cercavi qualcosa da dedicare a Silvia Piccini, la ragazza morta sulla strada poche settimane fa…

Sono pronto a portare qualcosa alla famiglia. Sarà un piccolissimo pensiero, ma è quello che possiamo fare noi, ora che lei non c’è più. Ho già risposto a tante domande, è il problema più vecchio del mondo. Siamo a volte molto incivili, non riusciamo ad avere il minimo rispetto per gli altri e ormai sulla strada questo è evidente. Silvia è l’ultima, ma purtroppo non lo resterà a lungo.

«Sono un padre, per questo mi espongo sulle questioni di diritto. Corro per Giulio Regeni»
«Sono un padre, mi espongo sulle questioni di diritto. Corro per Giulio Regeni»
Ci hai sempre messo la faccia…

Mi sono sempre espresso su temi che stanno al di sopra di ogni colore e schieramento. I diritti fondamentali, i diritti civili, cose che non hanno colore e non possono essere strumentalizzate. Più di qualcuno, anche persone care, mi hanno criticato su questo. Però prima che ciclista – ormai sono stufo di ripeterlo – sono un marito, un papà, un cittadino. Quindi domani vestirò ancora il braccialetto giallo per Giulio Regeni e parlerò ancora di sicurezza sulle strade, senza problemi. Non cambierò idea.

Resterai fedele anche al tuo modo di vedere il ciclismo?

Ho un modo di fare più romantico di quello che ti viene richiesto nel ciclismo attuale. Mi è sempre stato insegnato così, sin da quando sono passato professionista con il buon Gianni Savio. Forse c’è molto di quello stampo nel mio modo di fare. E’ anche vero però che il ciclismo va avanti e anche io mi devo scontrare con questo cambio di stile. Anche io devo fare attenzione a mangiare nel modo giusto, ad avere i vestiti giusti, a usare il body, ad avere il casco aerodinamico, ad avere una bicicletta leggera e veloce… Sono tutte cose che fanno parte delle regole del gioco di adesso. Probabilmente questo stile non è il più redditizio, utile a fare risultati e aumentare il numero di vittorie. Però…

Però?

Ci sono state tappe in cui ho passato la giornata in fuga e sono stato ripreso, in cui ero più soddisfatto di quando ho fatto un piazzamento. Io cercherò di continuare a interpretare il ciclismo in questo modo, fino a quando potrò farlo.

Taglia il traguardo, ma ancora non si rende conto dell’impresa
Taglia il traguardo, ma ancora non si rende conto dell’impresa
E intanto sei il faro per i ragazzi del Ct Friuli.

Sono stato il primo a sfruttare quello che è diventato un sistema e una squadra che non hanno niente da invidiare ai team professionistici. Lo dobbiamo a Roberto Bressan, Renzo Boscolo e ora Andrea Fusaz, Alessio Mattiussi e Fabio Baronti. Queste sono le persone che hanno dato il via a quella bellissima realtà che è il Cycling Team Friuli. E i ragazzi che arrivano adesso nel mondo del professionismo stanno sfruttando appieno questa squadra. Milan, Fabbro, Aleotti, Venchiarutti, i fratelli Bais. Ormai siamo in tanti ed è giusto che il mondo dei professionisti guardi sempre di più a questa realtà.

Non sarebbe male chiudere in Italia…

A parte i primi anni qua, ho subito intuito che purtroppo in Italia era difficile continuare a stare ad un certo livello. Sono felice di aver capito subito la necessità di partire. Ma è il segno che il mondo va in questa direzione, non possiamo essere troppo chiusi su di noi e le nostre piccole realtà. Ormai siamo interconnessi, siamo globali in tutto e anche il lavoro deve essere così. Spero di insegnare questo a mio figlio. Sono cresciuto in una famiglia che ha sempre avuto un occhio verso lidi diversi, mondi un po’ più lontani. Mio fratello vive in Nuova Zelanda da tanti anni ed è una cosa di cui i miei genitori vanno fieri, nonostante ci siano migliaia di chilometri. Avere sperimentato squadre di Paesi diversi è stimolante, ma sarebbe bello anche ritrovare una squadra italiana nel WorldTour in cui magari finire la carriera.

Lo sguardo di chi su quel palco rosa non c’è mai stato: che cosa mi aspetta?
Lo sguardo di chi su quel palco rosa non c’è mai stato: che cosa mi aspetta?

Ha raccontato. Si è commosso. Non ha avuto paura di mostrare le sue emozioni. Prima di lui, forse, soltanto Simoni era riuscito a entrare nel cuore della sua gente per la stessa cocciuta coerenza. Stasera si farà festa, magari con il vino dello sponsor. Da domani però il Rosso di Buja sarà sulla strada per difendere il suo sogno rosa e cercherà di portarlo il più avanti possibile. Ganna è passato con l’espressione sfinita ed è sfilato verso il pullman. Da stasera il Giro ha trovato un’altra storia da raccontare.

Belletta Liberazione 2021

Belletta, quel Liberazione rabbioso dedicato a Silvia

30.04.2021
4 min
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Se fosse una canzone, Dario Igor Belletta sarebbe la hit del momento. Il diciassettenne del GB Junior Team – che frequenta la quarta al liceo scientifico Donato Bramante a Magenta – ha iniziato la stagione suonando quattro sinfonie (in meno di un mese) nelle prime sette gare disputate: vittorie ad Ancarano il 28 marzo, alla Coppa Dondeo a Cremona per Pasquetta, nella Novara-Suno l’11 aprile e nel Gp Liberazione a Roma pochi giorni fa, quest’ultima con una dedica particolare. E a gioire di questi successi, oltre alla sua famiglia, è il suo team manager ed allenatore Gianluca Bortolami

«Lo abbiamo preso – spiega l’eroe del Fiandre 2001 – dalla S.C. Busto Garolfo e lo tenevamo un po’ sotto osservazione perché nel 2016 avevamo già avuto suo fratello Pier Elis, più vecchio di cinque anni e che ora corre tra gli U23 nella Named-Uptivo. Da allora siamo rimasti in contatto con la famiglia, che si fida di noi e così siamo riusciti ad assicurarcelo anche se aveva tante richieste da altre formazioni».

In ritiro con la nazionale di De Candido a metà aprile (foto Instagram)
In ritiro con la nazionale di De Candido a metà aprile (foto Instagram)

Se Bortolami si gode il ragazzo di Arluno, lo stesso Belletta sembra lusingato e sorpreso dalle parole del suo dirigente e dalle attenzioni che gli vengono rivolte dagli addetti ai lavori. A parlargli però sembra di avere di fronte una persona più grande.

Dario, eravamo rimasti in sospeso con quella esultanza del Liberazione: mani in alto ed indici puntati verso il cielo. Quel gesto era per Silvia Piccini (la diciassettenne morta investita in allenamento il 22 aprile scorso, ndr)?

Sì, la vittoria l’ho dedicata a lei, che era praticamente una mia coetanea e che è stata uccisa mentre faceva quello che più le piaceva. E’ stato doveroso dedicargliela perché un minuto di silenzio era troppo poco.

Immaginiamo che ti abbia molto scosso questa disgrazia.

Assolutamente, è stato un brutto colpo, una vera ingiustizia. E’ morta che stava facendo quello che amava di più. E’ toccato a lei ma poteva capitare ad ognuno di noi. E non possiamo andare avanti così.

Secondo te cosa bisognerebbe fare in più?

Non saprei cosa dovremmo fare di diverso. Va cambiata la cultura e la mentalità italiana del guidatore di un mezzo verso il ciclista, bisognerebbe guardare davvero al Nord Europa dove ci sono tante piste ciclabili e le biciclette hanno la precedenza sulle maggiori strade. Ecco, forse noi giovani potremmo impegnarci sui social facendo qualche post superficiale in meno e cercando di sensibilizzare di più la popolazione ad avere più rispetto per noi. Ma sappiamo che è molto difficile.

Dario cambiamo argomento cercando di riportarti un po’ il sorriso. A chi ti ispiri?

Attualmente, forse perché fisicamente somiglio a lui, adoro Van Aert perché quando si attacca il numero lo fa per essere competitivo su ogni terreno, anche quello meno adatto a lui senza aver paura di saltare o non fare risultato. Un corridore così fa tanto bene al ciclismo. E come lui apprezzo anche Van der Poel.

E’ vero che ti svegliavi all’alba e ti allenavi di nascosto?

Ma no (ride, ndr), non era di nascosto. Uscivo ad orari inconsueti quando sapevo che avrei avuto la giornata scolastica piena, però non mi è mai pesato e per me era normale. Credo che in tanti abbiano o avrebbero fatto come me.

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Dato il tuo impegno com’è il rapporto a scuola con compagni e professori? Cosa ti hanno detto dopo queste quattro vittorie?

Tutti si sono complimentati con me e penso che la prossima vittoria la dovrò dedicare ai miei insegnanti, perché sono comprensivi e disponibili per aiutarmi e farmi recuperare le lezioni che perdo. Così come i miei compagni che sono i miei primi tifosi e talvolta si offrono di farmi i compiti. Li ringrazio ma declino sempre.

E invece com’è il rapporto con i tuoi compagni di squadra? Sei pronto a metterti al loro servizio?

Assolutamente sì, nel momento in cui mi dovessi accorgere che uno di loro sta meglio di me, mi metterei subito a lavorare per lui. E quest’anno è già capitato. Inoltre penso che non sia mai un bene che vinca sempre solo un corridore. L’unione fa la forza e se più corridori del GB Junior Team vincono, più timore può fare la squadra in ogni corsa cui partecipa.