Bettini e i Giochi: Nibali lo porterei, Alaphilippe sbaglia di grosso

22.06.2021
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Paolo Bettini è nel pieno della sua stagione di testimonial, tra la Sportful Dolomiti Race cui ha preso parte lo scorso weekend e la Maratona dles Dolomites che bussa alle porte. Parallelamente anche la stagione dei professionisti si avvia verso il momento più caldo, con il Tour de France che lancerà le Olimpiadi. E proprio per questo, tornando alla scelta di Alaphilippe di mettere da parte di Giochi in favore della sfida francese, siamo andati a scovarlo nel suo buen retiro toscano, con una serie di domande perfette per il toscano che è stato campione del mondo e campione olimpico e che poi ha guidato la nazionale italiana alla sfida di Londra 2012. Si parte dal commento di Argentin, raccolto nei giorni scorsi, per cui Alaphilippe farebbe bene a non andare alle Olimpiadi e puntare tutto sulla maglia gialla.

Lefevere può aver avuto la sua parte nella scelta di Alaphilippe
Lefevere può aver avuto la sua parte nella scelta di Alaphilippe

«Rispetto ad Argentin – comincia Bettini – io ho fatto le Olimpiadi e fossi Alaphilippe farei il Tour in funzione di Tokyo. Al Tour, se va bene fa quinto. A Tokyo, se va bene vince, oppure va sul podio e sempre di medaglie olimpiche parliamo. Le Olimpiadi non sono ciclismo, sono sport. Mi diverto ancora ad andare in giro con la mia medaglia, perché ti tira fuori dal solito mondo. Le relazioni che ci legano, con i vari Iuri Chechi, Aldo Montano, Antonio Rossi, Valentina Vezzali sono particolari. Ci vediamo poco, ma quando succede siamo come fratelli».

Questo è il messaggio che sembrava essersi affermato dopo la tua vittoria, forse però il Covid ha accentuato le esigenze degli sponsor…

Infatti il problema potrebbe essere proprio questo. Alaphilippe è ancora con Lefevere ed è comprensibile soprattutto in questo periodo che gli sponsor si facciano sentire. Ma nonostante questo, il fatto che lui punti al Tour è un azzardo. Vogliamo fare l’elenco di quelli che vivono per il Tour e che possono fare meglio di lui? Al contrario, sempre valutando bene il percorso, Tokyo si addice alla perfezione a un corridore come lui, più che a un Bettini…

Sul podio dei Giochi di Atene 2004 con Paulinho e Merckx, anche Bettini correva con la Quick Step
Sul podio dei Giochi di Atene 2004 con Paulinho e Merckx, anche Bettini correva con la Quick Step
Sicuro?

Se punta al Tour, vuol dire che sulle salite dure si sente forte. E se arriva in volata in una corsa come quella, a poterlo battere ne vedo pochi. Forse Pogacar, già su Roglic avrei delle riserve. La Liegi 2020 gliel’ha regalata lui alzando le braccia 20 metri prima della riga, credendo di essere da solo. Ce l’ha un po’ come abitudine, ma non è detto che ci ricadrebbe.

Non è strano è che Voeckler, cittì francese, non abbia detto nulla?

Bisogna vedere quanto sia importante il ciclismo ai Giochi per il comitato olimpico francese. Certo che se poi Alaphilippe al Tour dovesse fare flop, non ne uscirebbe benissimo. Voeckler magari se lo deve tenere buono per i mondiali, ma la sensazione è che il ciclismo non abbia colto appieno la portata delle Olimpiadi. Paulinho è un ciclista, ma sull’argento di Atene ci si è costruito la carriera.

Da Alaphilippe che rinuncia, si passa alla querelle su Nibali: come la vedi?

La verità bisogna conoscerla, sanno Vincenzo e Cassani che cosa si sono detti (i due sono insieme nella foto di apertura al Tour che lanciava i Giochi di Ri 2016, ndr). Le convocazioni olimpiche non hanno gli stessi meccanismi di un mondiale. Ci sono tempistiche diverse e i tecnici devono consegnare al Coni relazioni sugli atleti convocati e quelli esclusi. E’ un percorso lungo, tanto che quando prima di Londra esplose Moser, vincendo il Giro di Polonia, e tutti lo volevano alle Olimpiadi, non potei inserirlo un po’ perché non rientrava nel mio progetto e un po’ perché non faceva parte della lista dei Probabili Olimpici.

Relazioni sugli esclusi, come mai?

Sì, perché l’atleta può fare ricorso, per cui se lasci a casa qualcuno, devi motivarlo. Non è come negli altri sport, in cui la convocazione è personale.

Alaphilippe_Roglic_Hirschi_Liegi2020
Roglic infila Alaphilippe alla Liegi del 2020, ma il francese ha alzato le braccia troppo presto
Alaphilippe_Roglic_Hirschi_Liegi2020
Roglic infila Alaphilippe alla Liegi del 2020, ma il francese ha alzato le braccia troppo presto
Tu Nibali lo porteresti?

Lo metterei dentro a prescindere e poi mi prenderei tutto il tempo per valutare. Vincenzo ha fatto Pechino, Londra e Rio. Uno che ha fatto tre Olimpiadi ha un’esperienza rara. A Pechino era al debutto, fu convocato per fare la corsa dura ed eravamo ancora dentro la città quando attaccò sul primo cavalcavia e rimase fuori tutto il giorno. Ai Giochi di Londra lo portai per aiutare. Disse: «Per la maglia azzurra faccio qualsiasi cosa». Il percorso era quello che era e la federazione voleva dimostrare che si poteva puntare sulla multidisciplina e che Viviani poteva fare pista e strada, altrimenti si sarebbe potuto mettere dentro Moser e fare corsa dura con Vincenzo. Ma ci sono piani e impegni e andò così. E poi a Rio ha quasi vinto. Uno così è un riferimento tutta la vita, anche solo per le cose che potrebbe raccontare alla vigilia

Può essere un elemento di disturbo nei piani del tecnico?

A due settimane dai mondiali di Zolder mi capitò di battere in volata Cipollini. Si rischiava di rompere l’equilibrio, per cui Franco (Ballerini, ndr) venne a chiedermi se mi sarei messo di traverso, ma lo rassicurai dicendogli che sarei stato ai patti. Il corridore che dà la parola fa così. La stessa cosa poteva succedere proprio con Nibali a Geelong, il mio primo mondiale da tecnico…

Nibali debuttante a Pechino fece anche la crono
Nibali debuttante a Pechino fece anche la crono
Perché?

Stava vincendo la Vuelta. Avevo paura che avrebbe avuto un calo di tensione e che il viaggio intercontinentale lo avrebbe spompato, In più c’era da allenarsi in Australia per parecchio tempo prima della corsa. E così gli chiesi se non fosse meglio restare in Italia a godersi la Vuelta. Sapete cosa mi rispose: «Non preoccuparti di me, faccio quello che serve. La maglia azzurra è troppo importante». Per portarlo rimase fuori Bennati, che non la prese bene, ma questo è il ruolo del tecnico.

Martini diceva che il momento peggiore era comunicare le esclusioni.

E’ vero ed è il motivo per cui è fondamentale parlare tanto con gli atleti. Loro magari la interpretano come una cosa personale, poi però si rendono conto che ogni parola forma il piano della nazionale. L’ambizione dei singoli c’è e va mantenuta, ma devi far capire gradualmente che si va per un obiettivo superiore. Se poi capita l’occasione…

L’ottimo rapporto con Ballerini, portò a Paolo i Giochi del 2004 e 2 mondiali (2007-2007)
L’ottimo rapporto con Ballerini, portò a Paolo i Giochi del 2004 e 2 mondiali (2007-2007)
Porta socchiusa?

Il difensore della squadra di calcio sa che se ferma l’attaccante avversario e lancia la sua punta che fa goal, alla fine ha vinto anche lui. Nel ciclismo puoi tirare per tutto il giorno senza che nessuno ti veda e alla fine magari vincer Bettini. E c’è una bella differenza, sia psicologicamente sia materialmente.

Tu Nibali lo porteresti comunque…

Per quanto possa andare piano, ti fa 180 chilometri bene, per questo è una garanzia. Mentre non può essere portabandiera, come ha suggerito Cipollini, perché per farlo devi aver vinto una medaglia. Perciò, orgogliosi di Viviani e fieri di avere un riferimento come Nibali.

Bettini: «Vi svelo il segreto della Deceuninck»

30.03.2021
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Mark Cavendish, Fernando Gaviria, Elia Viviani: è lungo l’elenco di velocisti usciti da anni ruggenti alla Deceuninck Quick Step e poi affievoliti nel loro curriculum di successi. Tanto che nell’ambiente è ormai diffusa l’idea che se esci da quel gruppo, non vinci più…

Andare alle radici di questo principio non è facile, a meno che non l’hai vissuto sulla tua pelle, come accaduto a Paolo Bettini: «E’ nato tutto da Tom Boonen (con lui nella foto d’apertura, ndr). Quando correvamo insieme lui era il velocista, io me la cavavo, ma puntavo su altre corse e avevo altre caratteristiche, ma già allora nel team c’era uno spirito che si è tramandato nel tempo».

Come si crea lo spirito vincente?

Più che spiegarlo, posso raccontarlo tramite un aneddoto. Nel 2008 eravamo alla Vuelta, in una tappa di pianura Boonen mi disse che non se la sentiva di fare la volata e avrebbe tirato la mia. Io gli risposi di fare un’altra cosa: dedicarci a Wouter Weylandt, che era il suo ultimo uomo e invertire le parti. Li pilotai fino all’ultimo chilometro, Boonen fu l’ultimo vagone del treno e il compianto Wouter vinse. Questo è lo spirito, fatto di trasparenza, sincerità e amore per la squadra.

La volata vincente di Weylandt: era la Vuelta 2008, tre anni prima della tragedia al Giro
La volata vincente di Weylandt: era la Vuelta 2008
Quanto influisce la mano di Lefevere?

Tantissimo. Lui trasmise la filosofia del sacrificio per uno scopo comune sin dagli inizi. Bisogna ricordare che la Quick Step nasce dalle ceneri della Mapei, dove la dottoressa Spazzoli, moglie del patron Squinzi, aveva coniato un motto: «Un team per vincere insieme», che avevamo fatto nostro.

Patrick Lefevere con Bettini, un sodalizio che ha portato il toscano ai vertici mondiali
Lefevere con Bettini, il sodalizio ha portato il toscano ai vertici
Eppure nell’ambiente molti faticano a nascondere un pizzico di malizia, quando si parla dei successi in casa Deceuninck…

Chi non conosce quel sistema non potrà mai capire. Io l’ho vissuto agli albori, lavorando con Lefevere nel 1999 e 2000 e poi dal 2003 fino al 2008, praticamente a fine carriera. Tutto nasce dalla cura del minimo dettaglio, della persona prima ancora che della performance perché questa arriverà di conseguenza.

Perché allora il velocista che esce dalla Deceuninck fatica a ritrovarsi?

Il discorso è più ampio e riguarda la figura stessa del velocista. Se non hai un supporto forte non puoi più vincere. Non basta cambiare squadra, devi farlo portandoti dietro almeno due elementi del tuo treno. Meglio ancora se gli ultimi due. Altrimenti devi ricostruire tutto, ritrovare gli automatismi, perdi mesi e la stagione non ti dà il tempo di attendere. Ma non basta…

Elia Viviani e Mark Cavendish: tante difficoltà dopo l’addio alla Deceuninck
Elia Viviani e Mark Cavendish: tante difficoltà dopo l’addio alla Deceuninck
Che cosa manca ancora?

Devi ricreare anche un giusto ambiente, quello spirito di cui parlavamo all’inizio. Capire che si lavora tutti insieme sacrificandosi, si vince insieme e si perde insieme. Se dovessi sintetizzare, alla Deceuninck vincono perché sono una famiglia prima che un team, altre squadre che puntano tutto sulla scienza non riescono a fare lo stesso.

Bettini: «E’ora di tornare a vincere la Doyenne»

12.03.2021
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C’è un fattore che caratterizza la Liegi-Bastogne-Liegi e che inorgoglisce particolarmente Paolo Bettini quando si ritorna a parlare di quella classica che, fra le tante che il Grillo ha vinto, più ha identificato la sua carriera.

«La Doyenne è, insieme al Lombardia che però arriva a fine stagione – spiega il toscano, in apertura sul traguardo del 2002 – l’unica classica che davvero mette a confronto gli specialisti delle corse d’un giorno con quelli che vanno a caccia dei grandi Giri. E’ come un terreno di battaglia diverso, aperto a tutti, quel giorno ci si confronta per capire davvero chi è il più forte. Lo dice la storia, vedi Nibali che è giunto secondo o Basso che insieme a me si giocava la vittoria. E’ una sfida affascinante quanto poche altre».

Nibali è andato vicino alla Liegi del 2012, ma fu beffato da Iglinskiy
Nibali è andato vicino alla Liegi del 2012, ma fu beffato da Iglinskiy
L’hai vinta nel 2000 e 2002: che cosa serve per emergere alla Liegi?

Deve essere il giusto connubio fra fisico e mente, come d’altronde in tutte le competizioni ciclistiche. Chi vince riesce sempre a farlo perché mette d’accordo queste due componenti. Sicuramente la Liegi è una gara completa, che va saputa interpretare.

Tatticamente è diversa dalle altre classiche?

Diciamo che è più strutturata, più definita nella sua trama, difficilmente esula dal copione stabilito alla vigilia. Sai che le prime parti della gara sono di assestamento, chi attacca all’inizio non ha speranze. La gara si accende dopo La Roche aux Faucons e la Redoute, che viene prima, dà sempre verdetti che poi, anche se non sono definitivi, hanno comunque un peso importante sul suo esito finale. Per questo servono grande condizione e testa, devi essere attento nelle fasi decisive e avere le gambe per recitare il tuo ruolo.

E’ una corsa per scalatori?

Per certi versi sì. Se si pensa che il suo dislivello totale supera i 5.000 metri, siamo in presenza di qualcosa che somiglia moltissimo a una grande tappa alpina. Per questo chi è specialista delle grandi corse a tappe qui può fare il colpaccio e Roglic lo scorso anno lo ha dimostrato. Non basta però andar bene in salita, devi essere esplosivo. Io non avrei mai potuto primeggiare sullo Stelvio o sul Pordoi, ma in quel tipo di corse mi trovavo a mio agio…

Anche Formolo è arrivato secondo a Liegi: nel 2019, dietro Fuglsang
Anche Formolo è arrivato secondo a Liegi: nel 2019, dietro Fuglsang
Chi identifichi come corridore italiano adatto alla Doyenne?

Il primo nome che mi viene in mente è sempre lo stesso: Vincenzo Nibali, a dispetto dell’anagrafe è proprio l’uomo fatto su misura per la Liegi, poi non so se quest’anno la correrà, ma è davvero incredibile che un corridore simile non sia nell’albo d’oro della Doyenne. In alternativa mi viene in mente Davide Formolo, che su quelle strade ha già dimostrato di poter far molto bene, proprio perché incarna le caratteristiche giuste, sia tecniche che tattiche, per emergere e finalmente tornare a far sventolare il tricolore a Liegi.

Il giorno che a Sydney cambiò la storia del ciclismo

19.01.2021
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Un giorno, la storia del ciclismo ha preso una piega diversa. Un giorno, la cultura dello sport delle due ruote e quella olimpica si sono finalmente sposate, dopo essersi ignorate per decenni. E’ vero, la storia delle Olimpiadi nel ciclismo affonda quasi ai suoi primordi, ma fino al 1992 nella gara su strada gareggiavano solo i dilettanti, con un’evidente sperequazione tra i Paesi del blocco comunista, dove lo sport era di Stato, e gli altri. Quell’anno però il Cio aveva deciso di aprire le porte delle Olimpiadi ai professionisti: tutti ricordano l’edizione di Barcellona 1992 come quella del Dream Team americano di basket, che offrì uno spettacolo indimenticabile. Nel ciclismo si dovettero attendere quattro anni, ma la gara di Atlanta non colpì la fantasia degli appassionati. Per quella di Sydney, il 27 settembre 2000, fu diverso: allora la storia del ciclismo cambiò e fu grazie a due italiani.

Azzurri guidati dal cittì Fusi, dal dottor Daniele e dal segretario generale Standoli
Azzurri guidati dal cittì Fusi e dal segretario generale Standoli

Attacca Ullrich

L’evoluzione di quella gara fu tanto semplice quanto rivoluzionaria: a una trentina di chilometri dalla fine, il tedesco Jan Ullrich, reduce dalla piazza d’onore al Tour de France dietro Armstrong, chiamò a sé due compagni della Telekom, il connazionale Andreas Kloden e il kazako Alexandre Vinokourov e andò in fuga con loro. Tre uomini significava podio monopolizzato ed essendo i tre appartenenti allo stesso team (anche se alle Olimpiadi si corre per nazionali) voleva dire che la loro gara sarebbe diventata da lì una cronometro a squadre. Pressoché impossibile raggiungerli, ma due italiani ci provarono: Michele Bartoli e Paolo Bettini.

Due toscanacci di ferro, compagni nella Mapei. Un tentativo che poteva sembrare velleitario, ma proprio per questa sorta di sfida ai mulini a vento la storia del ciclismo cambiò. Perché? Semplice: fino ad allora, in ogni gara ciclistica, mondiali compresi, si pensava che quel che conta è solo il vincitore, nessuno si ricorda del secondo, men che meno alla rassegna iridata. Alle Olimpiadi vincono in tre e vincono davvero. Loro sapevano che dovevano provarci, anche se era un’impresa disperata.

Fra gli azzurri in Australia, anche Pantani, Di Luca e Casagrande
Fra gli azzurri in Australia, anche Pantani, Di Luca e Casagrande

Due azzurri in caccia

A tanti anni di distanza, quando ci ripensa la voce di Michele Bartoli s’increspa ancora: «Mi è rimasta la delusione tipica del quarto posto, perché potevamo vincere. La gara olimpica è particolare perché unisce un po’ di professionisti che affronti durante l’anno a tanti altri corridori che vengono da Nazioni non di primo piano, che non conosci. Poi si corre in 5 per squadra e non puoi controllare la corsa, quindi serve maggiore attenzione e noi, al momento cruciale, non l’avemmo. Per questo l’Olimpiade è così difficile da vincere».

Quell’inseguimento fu meno velleitario di quanto si pensi, perché i due azzurri ci credevano davvero: «Dovevamo provarci e arrivammo davvero vicini ai tre. Diciamo che ci mancò un terzo corridore della Mapei – dice ancora Bartoli – allora avremmo gareggiato ad armi pari, ma sarebbe bastato avere un altro corridore in grado di darci qualche cambio e li avremmo ripresi».

Jan Ullrich scatena la fuga e si fa aiutare da Kloden e Vinokourov compagni alla Telekom
Jan Ullrich si scatena, lo aiutano Kloden e Vinokourov

Bettini e la curva

Paolo Bettini è ancora più specifico: «Se non li riprendemmo, fu per causa mia. Dal mattino la gara era stata una battaglia e io e Di Luca eravamo quelli deputati a lavorare di più per tenere coperti Bartoli, ma anche Casagrande e Pantani. Nella parte finale di gara ero finito, ma mi ritrovai a inseguire con Michele. Ricordo che nel finale eravamo arrivati a una quarantina di metri, in prossimità di una curva, ma appena girata non riuscii a rilanciare l’azione e il distacco raddoppiò. A quel punto avevamo capito che la gara era finita, ma io non ne avevo più…».

Una cosa diversa

In una gara differente, come una grande classica, magari non ci si provava neanche: «E’ una cosa diversa – riprende Bartoli – perché hai più compagni di squadra e puoi gestire la corsa in molte altre maniere. Lì è una gara individuale. Dovevamo provarci anche se sapevamo che era difficile».

«E’ vero – ribatte Bettini – ma lì capii che l’Olimpiade è qualcosa di particolare, perché vincono in tre: io per esempio ho vinto un argento ai mondiali, ma non se ne ricorda nessuno, quasi neanche io, perché chi arriva secondo è un … Vabbé, avete capito!».

A Bartoli non resta che la volata per il quarto posto, che sa di beffa
A Bartoli non resta che la volata per il quarto posto

Progetto Atene

Eppure quell’epilogo (Bartoli finì per vincere la volata del gruppo dei battuti, Bettini arrivò nelle retrovie e la gara la vinse Ullrich) ebbe un peso enorme per il Grillo livornese, che vinse l’edizione successiva.

«Ero giovane a Sydney – dice – ma capii che potevo vincere, che anzi dovevo lavorare per vincere. Il 2000 fu un anno fondamentale per la mia carriera, avevo vinto la Liegi dimostrando che potevo lottare per ogni classica, poi cominciai a pensare ad Atene e non sbagliai. Tempo fa sono andato in Portogallo a trovare Paulinho, argento dietro di me. Da professionista non ha vinto nulla, ma nel suo Paese è considerato ancora un eroe: l’Olimpiade è questo».

Podio assicurato. Vince Ullrich, poi Vinokourov e terzo uno sfinito Kloden
Podio assicurato. Vince Ullrich, poi Vinokourov e terzo uno sfinito Kloden

Due scuole

Da allora la gara olimpica è diventata un grande obiettivo: «E’ cambiata la cultura ed è cambiata la storia – dice Bettini – ai nostri tempi il patron Lefevere odiava le Olimpiadi perché interferivano con la stagione, soprattutto con il Tour. Oggi non è così, tanto è vero che molti stanno programmando la stagione in funzione della gara di Tokyo e sono pronti a rinunciare al Tour, ma nelle squadre nessuno protesta perché sanno quanto conta la gara olimpica».

«Io però sono legato alla vecchia scuola – riprende Bartoli – non riesco a dare alle Olimpiadi lo stesso valore di un mondiale o di una classica monumento, perché è su quelle che si basa una carriera».

«Capisco l’idea di Michele proprio perché è figlia di un pensiero più tradizionale – ribatte Bettini – più legata alla storia del ciclismo, io però vi dico una cosa: ho vinto due mondiali, ma baratterei volentieri una maglia iridata anche per un bronzo olimpico, perché ho provato sulla mia pelle che cosa significa essere un atleta olimpionico. Quando ci penso mi vengono ancora i brividi…».

Andrea Tonti, Paolo Bettini, mondiali Stoccarda 2007

Con Tonti un giro d’orizzonte fra Bettini e Cunego

21.12.2020
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Andrea Tonti è un leone in gabbia, aspettando che gli eventi possano riprendere. Quest’anno la sua Bike Division ha dovuto fermarsi quasi del tutto, ad eccezione di qualche finestra fra una chiusura e l’altra. Il primo viaggio 2021 dovrebbe portare il gruppo a Gran Canaria alla metà di febbraio, cercando di capire la logistica e come fare con i tamponi e quanto sarà richiesto. La bicicletta non si farà fermare, insomma, e il risvolto turistico del ciclismo professionistico, con la partecipazione agli eventi Rcs, è il modo con cui Andrea continua a tenerci dentro il piede.

«Quando sei lì – dice – sia pure a margine di certi eventi, vengono fuori insieme l’emozione del tifoso e quella del bambino che un giorno si innamorò del ciclismo. E’ un richiamo così forte, che anche ieri guardavo in televisione la Coppa del mondo di ciclocross, nonostante sia una disciplina che non ho mai praticato, e mi emozionavo. E’ una voce che in qualche modo l’inconscio riconosce».

Andrea Tonti, Gp Castelfidardo 2006
Nel 2006 vince il Gp Castelfidardo con una dedica speciale a suo figlio Daniel
Andrea Tonti, Gp Castelfidardo 2006
Nel 2006 vince Castelfidardo e lo dedica al figlio Daniel
Perché il ciclismo, una volta che ti ha contagiato, non ti abbandona…

Anche se adesso significa seguirlo da sportivo e da appassionato e lo stesso mi immedesimo nelle situazioni. Magari poi alla fine sfocia in chiacchiere da bar, con il privilegio di avere ancora contatti con ex colleghi. Quest’anno sono dieci anni che ho smesso, non sembrerebbe passato così tanto. Forse per il coinvolgimento diretto con l’ambiente, chissà…

L’ambiente… Hai provato a restarci dentro solo all’inizio, poi ti sei fatto da parte.

Dal 2011 al 2014 ho fatto la continental con Nippo, fino a quando Nippo decise di crescere e passò ad altri lidi. Erano anni di altre continental, non vivai come oggi. Eppure vincemmo la classifica dell’Asia Tour, che per loro era importante, e qualche bel corridore l’avevamo anche noi. Arredondo, che poi andò alla Trek. Baliani e anche Richeze, che dopo il periodo con Reverberi era rimasto a piedi e ora è un riferimento a livello mondiale. Poi Nippo si unì alla Fantini e io, rimasto senza main sponsor, preferii dedicarmi ad altre attività imprenditoriali.

Quali sono i tre ricordi del Tonti ciclista?

La vittoria del 2006 a Castelfidardo, nella Due Giorni Marchigiana, in casa che di più non si poteva. Il mondiale 2007 vinto con Bettini. Il Giro d’Italia 2004 con Cunego, di cui ancora si parla, anche se sono passati 16 anni.

Andrea Tonti, Tom Boonen, Giovanni Visconti sopralluogo mondiali di Varese
Nel 2008 con Boonen e Visconti, durante il sopralluogo sul percorso dei mondiali di Varese
Andrea Tonti, Tom Boonen, Giovanni Visconti sopralluogo mondiali di Varese
Nel 2008, con Boonen e Visconti sul percorso di Varese
Quali i tuoi grandi capitani?

Nelle gare di un giorno Bettini, non si discute. Per le corse a tappe, ho vissuto l’ultimo Simoni e il primo Cunego. Nella mia carriera ho potuto anche lottare per me stesso, ma la soddisfazione personale maggiore è stata quella di lavorare per un grande capitano.

Saeco e Quick Step, grandi differenze?

La prima era una famiglia. La squadra cui approdai dopo la Cantina Tollo. Era molto blasonata, con loro iniziai a fare le corse importanti e capii la differenza fra capitano e gregario. Alla Quick Step, con il ciclismo che nel frattempo aveva accelerato verso certi cambiamenti, si respirava aria di gruppo internazionale, senza il contatto diretto che poteva esserci prima. I programmi di colpo arrivavano via mail.

Visconti lasciò quella Quick Step e tornò con Scinto, come te lo spiegasti?

Se hai l’ambizione di fare il capitano e vuoi che la squadra aspetti te, non è detto che nello squadrone ti trovi bene. Se non riesci a ricavarti quello spazio, sai che a un certo punto dovrai tirare per un altro. Sai che nella corsa che ti piace, magari non sarai l’ultimo uomo, ma quello che parte ai 100 dall’arrivo. Anche Trentin lasciò la Quick Step, perché magari sapeva che in Belgio ne aveva altri davanti. Anche a me nel 2006 capitò di fare il passo indietro. Ero di quelli che avevano firmato con Ferretti (il tecnico romagnolo finì in un raggiro e mise in piedi la mai nata Sony Ericsson, ndr) e a dicembre dovetti accasarmi all’Acqua&Sapone. Vinsi le mie 2-3 corse, ma sapevo che per il Giro serviva l’invito e c’erano meno possibilità.

Andrea Tonti, Donoratico 2012
Smette di correre e nel 2011 mette su una continental, il Team Nippo che tiene fino al 2014
Andrea Tonti, Donoratico 2012
Dal 2011 al 2014 manager del Team Nippo
Cunego vinse il Giro a 23 anni, Pogacar il Tour a 21. Fu un’anticipazione del futuro?

Fu un’eccezione, in anni in cui la maturità atletica arrivava fra i 28 e i 30. Ora sembra sia scontato andare forte da così giovani, ma credo che la situazione 2020 sia stata falsata dal Covid e dai diversi tempi di reazione di giovani e meno giovani.

Però nel momento in cui ci si interroga se poi dureranno meno, anche Cunego tutto sommato fece un paio di anni a fiamma, poi cominciò a calare…

Se Cunego farà un’analisi della sua carriera, qualche errore capirà di averlo fatto. Lo hanno subito etichettato come il nuovo Pantani. Lo hanno messo a lavorare sulla crono, mentre era un ragazzo esplosivo, che andava forte in salita. Alla fine si è ritrovato meno prestante sul suo terreno preferito e a prendere bastonate a crono dagli specialisti veri. Nel 2004 andava molto forte, gli bastava alzarsi sui pedali per fare il vuoto. Può essere stato l’anno della sua vita, ma ci rendemmo conto poi che aveva problemi se la pressione si faceva forte. Quando lo aspettavano perché vincesse, lui soffriva. C’è gente che quando arriva al giorno X diventa una bestia, lui spariva. Forse non fu per caso che vinse il Giro con Simoni capitano e l’Amstel quando nessuno lo aspettava. Vinse da pronosticato un Lombardia, ma ad esempio ai mondiali di Mendrisio quasi sparì. Sono cose di cui si è parlato e discorso a lungo.

Quando vai in bici cerchi ancora di andare forte?

Cerco di gustarmi le sensazioni del semplice pedalare, ma a volte mi trovo che sono inspiegabilmente a tutta. Scatta la molla e allora non alzi il piede. Ma ho smesso da un pezzo di cronometrare le solite salite…