Andrea Tonti è un leone in gabbia, aspettando che gli eventi possano riprendere. Quest’anno la sua Bike Division ha dovuto fermarsi quasi del tutto, ad eccezione di qualche finestra fra una chiusura e l’altra. Il primo viaggio 2021 dovrebbe portare il gruppo a Gran Canaria alla metà di febbraio, cercando di capire la logistica e come fare con i tamponi e quanto sarà richiesto. La bicicletta non si farà fermare, insomma, e il risvolto turistico del ciclismo professionistico, con la partecipazione agli eventi Rcs, è il modo con cui Andrea continua a tenerci dentro il piede.
«Quando sei lì – dice – sia pure a margine di certi eventi, vengono fuori insieme l’emozione del tifoso e quella del bambino che un giorno si innamorò del ciclismo. E’ un richiamo così forte, che anche ieri guardavo in televisione la Coppa del mondo di ciclocross, nonostante sia una disciplina che non ho mai praticato, e mi emozionavo. E’ una voce che in qualche modo l’inconscio riconosce».
Perché il ciclismo, una volta che ti ha contagiato, non ti abbandona…
Anche se adesso significa seguirlo da sportivo e da appassionato e lo stesso mi immedesimo nelle situazioni. Magari poi alla fine sfocia in chiacchiere da bar, con il privilegio di avere ancora contatti con ex colleghi. Quest’anno sono dieci anni che ho smesso, non sembrerebbe passato così tanto. Forse per il coinvolgimento diretto con l’ambiente, chissà…
L’ambiente… Hai provato a restarci dentro solo all’inizio, poi ti sei fatto da parte.
Dal 2011 al 2014 ho fatto la continental con Nippo, fino a quando Nippo decise di crescere e passò ad altri lidi. Erano anni di altre continental, non vivai come oggi. Eppure vincemmo la classifica dell’Asia Tour, che per loro era importante, e qualche bel corridore l’avevamo anche noi. Arredondo, che poi andò alla Trek. Baliani e anche Richeze, che dopo il periodo con Reverberi era rimasto a piedi e ora è un riferimento a livello mondiale. Poi Nippo si unì alla Fantini e io, rimasto senza main sponsor, preferii dedicarmi ad altre attività imprenditoriali.
Quali sono i tre ricordi del Tonti ciclista?
La vittoria del 2006 a Castelfidardo, nella Due Giorni Marchigiana, in casa che di più non si poteva. Il mondiale 2007 vinto con Bettini. Il Giro d’Italia 2004 con Cunego, di cui ancora si parla, anche se sono passati 16 anni.
Quali i tuoi grandi capitani?
Nelle gare di un giorno Bettini, non si discute. Per le corse a tappe, ho vissuto l’ultimo Simoni e il primo Cunego. Nella mia carriera ho potuto anche lottare per me stesso, ma la soddisfazione personale maggiore è stata quella di lavorare per un grande capitano.
Saeco e Quick Step, grandi differenze?
La prima era una famiglia. La squadra cui approdai dopo la Cantina Tollo. Era molto blasonata, con loro iniziai a fare le corse importanti e capii la differenza fra capitano e gregario. Alla Quick Step, con il ciclismo che nel frattempo aveva accelerato verso certi cambiamenti, si respirava aria di gruppo internazionale, senza il contatto diretto che poteva esserci prima. I programmi di colpo arrivavano via mail.
Visconti lasciò quella Quick Step e tornò con Scinto, come te lo spiegasti?
Se hai l’ambizione di fare il capitano e vuoi che la squadra aspetti te, non è detto che nello squadrone ti trovi bene. Se non riesci a ricavarti quello spazio, sai che a un certo punto dovrai tirare per un altro. Sai che nella corsa che ti piace, magari non sarai l’ultimo uomo, ma quello che parte ai 100 dall’arrivo. Anche Trentin lasciò la Quick Step, perché magari sapeva che in Belgio ne aveva altri davanti. Anche a me nel 2006 capitò di fare il passo indietro. Ero di quelli che avevano firmato con Ferretti (il tecnico romagnolo finì in un raggiro e mise in piedi la mai nata Sony Ericsson, ndr) e a dicembre dovetti accasarmi all’Acqua&Sapone. Vinsi le mie 2-3 corse, ma sapevo che per il Giro serviva l’invito e c’erano meno possibilità.
Cunego vinse il Giro a 23 anni, Pogacar il Tour a 21. Fu un’anticipazione del futuro?
Fu un’eccezione, in anni in cui la maturità atletica arrivava fra i 28 e i 30. Ora sembra sia scontato andare forte da così giovani, ma credo che la situazione 2020 sia stata falsata dal Covid e dai diversi tempi di reazione di giovani e meno giovani.
Però nel momento in cui ci si interroga se poi dureranno meno, anche Cunego tutto sommato fece un paio di anni a fiamma, poi cominciò a calare…
Se Cunego farà un’analisi della sua carriera, qualche errore capirà di averlo fatto. Lo hanno subito etichettato come il nuovo Pantani. Lo hanno messo a lavorare sulla crono, mentre era un ragazzo esplosivo, che andava forte in salita. Alla fine si è ritrovato meno prestante sul suo terreno preferito e a prendere bastonate a crono dagli specialisti veri. Nel 2004 andava molto forte, gli bastava alzarsi sui pedali per fare il vuoto. Può essere stato l’anno della sua vita, ma ci rendemmo conto poi che aveva problemi se la pressione si faceva forte. Quando lo aspettavano perché vincesse, lui soffriva. C’è gente che quando arriva al giorno X diventa una bestia, lui spariva. Forse non fu per caso che vinse il Giro con Simoni capitano e l’Amstel quando nessuno lo aspettava. Vinse da pronosticato un Lombardia, ma ad esempio ai mondiali di Mendrisio quasi sparì. Sono cose di cui si è parlato e discorso a lungo.
Quando vai in bici cerchi ancora di andare forte?
Cerco di gustarmi le sensazioni del semplice pedalare, ma a volte mi trovo che sono inspiegabilmente a tutta. Scatta la molla e allora non alzi il piede. Ma ho smesso da un pezzo di cronometrare le solite salite…