A cosa serve rimestare nel dolore? Certamente accresce il senso di fragilità, fa rivivere il dramma, ma in che modo incide sul fatto che oggi un uomo o una donna si metterà al volante e, leggendo messaggi nel suo smartphone, rischierà di uccidere qualcuno?
Matteo Trentin ha detto una verità spietata: ci sono morti di serie A e morti di serie B. I morti del ciclismo, per qualche inspiegabile ragione, non scuotono le coscienze. Forse davvero se un dramma del genere toccasse le case della politica, allora si capirebbe la necessità di intervenire. Non accade nulla quando viene ucciso un campione come Scarponi, quando tocca a Rebellin e neppure quando muore una ragazzina di 19 anni. Importa ai loro cari, importa a noi che in qualche modo ne condividiamo la passione e gli ideali, ma per il resto il mondo là fuori sembra anestetizzato.
Il 27 gennaio, Palù di Giovo ha dato l’ultimo saluto a Sara Piffer, uccisa da un automobilista a 19 anni (TGR Trento)Il 27 gennaio, Palù di Giovo ha dato l’ultimo saluto a Sara Piffer, uccisa da un automobilista a 19 anni (TGR Trento)
L’informazione assente
E’ anestetizzato o imbavagliato anche il mondo dell’informazione (in apertura, immagine depositphotos.com). Si cerca il pezzo scritto bene, che magari faccia piangere. Ma se guardiamo, sono parole e reazioni che restano fra noi, come di commiato al funerale. Si ha la sensazione di quando c’è un formicaio e te ne infischi di cosa accade là sotto quando gli versi sopra il veleno o un secchio d’acqua. Solo che questa volta le formiche siamo noi e stiamo facendo il loro gioco.
Ci sono media di serie A e media di serie B, siamo consapevoli anche di questo. Non per dignità o capacità giornalistiche, quelle siamo pronti a rivendicarle, ma per la potenza di fuoco. Di fronte al dramma, i loro giornalisti si sfogano sui social personali, ma per il resto sono inchiodati a ordini diversi. Possiamo metterci tutto l’ardore che vogliamo, ma giochiamo in una lega minore rispetto ai colossi che hanno alle spalle grandi aziende e interessi superiori a quelli di cui stiamo parlando. Interessi che forse impongono il silenzio: altrimenti perché anche loro non sono qui a pretendere una svolta? Evidentemente ai loro capi bastano Sinner, Hamilton e il calcio per essere felici.
Nessuna protesta, va tutto bene. Perché il ciclismo non si ribella al silenzio della politica davanti al dramma reiterato? (depositphotos.com)Nessuna protesta, va tutto bene. Perché il ciclismo non si ribella al silenzio della politica davanti al dramma reiterato? (depositphotos.com)
Ma anche le formiche a volte…
Qualche giorno fa abbiamo proposto di mettere in strada una manifestazione che invada pacificamente Roma e rivendichi i diritti degli utenti deboli della strada: deboli, non insignificanti. Abbiamo ricevuto reazioni e adesioni da parte di atleti professionisti e anche da associazioni di primissima grandezza. Non è detto che non sarà una strada da percorrere e ci piacerebbe condividerne l’ideazione anche con altri che abbiano a cuore come noi il problema.
Avevamo in animo di aprire la settimana parlando dei giganti. Di Van der Poel e di Pogacar, in uno sport che vive fasi esaltanti per la presenza di campioni immensi. Avevamo già cominciato a scrivere, eppure qualcosa ci ha impedito di farlo. Con quale cuore si può sperare che un bambino o una bambina segua le loro impronte, se proporglielo significa implicitamente far rischiare loro la vita? Lo capite perché c’è bisogno di una rivoluzione pacifica ma niente affatto morbida? Bisogna bonificare l’Italia. Forse è il tempo di lasciare da parte gli strumenti della cicala e diventare un po’ più spesso concreti come le formiche. Ricordando, come dice il libro, che a volte anche le formiche nel loro piccolo…
Non si parla mai abbastanza dei temi legati alla sicurezza stradale. Davide Ballerini e Gianni Moscon argomentano i loro punti di vista e ci danno qualche indicazione utile sui sistemi attivi che possono utilizzare i ciclisti
NIZZA (Francia) – «E’ cambiato veramente tutto – diceva qualche giorno fa Andrea Agostini, numero due del UAE Team Emirates – l’unica categoria che non è cambiata è quella dei giornalisti».
E’ stata una delle frasi che più ci è risuonata nella testa in questi lunghi e frenetici giorni al Tour de France, probabilmente sentendoci chiamati in causa vista la lunga militanza in gruppo. Il mondo è cambiato completamente, le sale stampa sono piene di facce nuove. Ci sono all’opera tanti ragazzi super tecnici, che non hanno vissuto minimamente il ciclismo degli anni 90 e quello subito successivo. Ci sono pochissimi italiani. Facendo i conti a spanne, tolti gli inviati di RAI Sport con il curiosare competente di Silvano Ploner, il Tour de France 2024 (nella sua parte francese) è stato seguito da cinque fotografi italiani e tre giornalisti (3-4 in più sono arrivati per le ultime due tappe). Tutto il resto che avete letto, anche su testate prestigiose, è stato confezionato da casa telefonando oppure utilizzando gli audio che gli addetti stampa inviano nelle chat dei vari team.
Non serve andare alle corse e spendere. Arrivano gli audio. Le conferenze stampa sono online. Se ti accontenti di avere gli argomenti di tutti gli altri, hai risolto il problema. Per certi editori e certi direttori è manna dal cielo. Speriamo di cuore che la differenza si noti.
La partenza da Firenze è stata vissuta come uno splendido spot cui si è dato poco seguitoLa partenza da Firenze è stata vissuta come uno splendido spot cui si è dato poco seguito
Andare alle corse
Non è un bel modo di lavorare. Le corse bisogna seguirle, anche se questo ha un costo e adesso che lavoriamo in proprio lo sappiamo anche meglio. Ma è soltanto guardando in faccia l’atleta, il tecnico o qualunque interlocutore che si riesce a capire effettivamente il senso del suo discorso. Soltanto percorrendo le strade e respirandone l’aria si coglie il senso delle parole. E’ solo immergendosi nel bagno di folla attorno ai pullman che si capisce il consenso di questo o quel campione. Averlo visto al Giro o in qualche Tour di anni fa non basta per raccontarlo oggi. Aiuta, ma non basta. Ogni corsa ha la sua storia, ogni epoca le sue particolarità.
Qualsiasi giornalista che si rispetti, chi scrive per primo, avrebbe voglia di stare fuori ogni santo giorno, ma spesso la sua aspirazione si infrange davanti ai no delle amministrazioni o, peggio ancora, dei direttori. I quali certamente vengono dagli anni in cui il ciclismo era meno presentabile di oggi. E il guaio è fatto.
Il silenzio o l’evidenza ignorata per scelta ha portato agli anni bui da cui Pogacar vuole tenersi giustamente alla largaIl silenzio o l’evidenza ignorata per scelta ha portato agli anni bui da cui Pogacar vuole tenersi giustamente alla larga
La memoria che aiuta
C’è però un’altra sfumatura nel discorso di Andrea Agostini sulla quale abbiamo ragionato a lungo. La sua frase era venuta fuori parlando dei continui sospetti sulle prestazioni di Pogacar. E’ opinione comune, da noi condivisa, che l’attuale sistema antidoping, il passaporto biologico e la reperibilità Adams siano un ottimo deterrente rispetto alle abitudini malsane di una volta.
Le stesse parole pronunciate ieri da Pogacar nella conferenza stampa danno la sensazione di una generazione meno propensa al compromesso. Forse perché questi ragazzi preferiscono pensare con la loro testa e non ascoltare i consigli di chi già c’era: in questo caso, si dovrebbe definirlo un bene. Aver parlato così significa che il ragazzo ha gli attirbuti, non ha paura di metterci la faccia e si capisce che provi fastidio a dover rispondere per gli errori di gente che correva quando lui non era ancora nato.
Non dimentichiamo però che altre generazioni di corridori giurarono sulla loro trasparenza, in primis sua maestà Lance Armstrong. Salvo scoprire che era tutto finto. Qualcuno scelse di non vedere e ordinò di non farlo. Altri ci provarono e furono messi all’indice. Per questo avere dei giornalisti che ne abbiano memoria non è assolutamente un male. Anzi, forse è una necessità. Ricordiamo bene quando l’irlandese David Walsh fu messo all’indice ed emarginato dallo stesso Armstrong e dai suoi sodali, salvo poi vincere tutte le cause in cui l’americano lo aveva trascinato. Fu lui in qualche modo la chiave per smascherare il programma di doping del team americano.
Nella conferenza stampa di ieri a fine Tour, Pogacar ha usato parole precise: «E’ da stupidi rovinarsi la salute per delle corse»Nella conferenza stampa di ieri a fine Tour, Pogacar ha usato parole precise: «E’ da stupidi rovinarsi la salute per delle corse»
Il caso di Piccolo
La fiducia è un valore assoluto che va conquistato e mantenuta. Abbiamo applaudito Pogacar perché ci sembra un personaggio credibile, ma verremo meno al nostro lavoro se abbassassimo completamente le antenne e ci fidassimo soltanto di quello che ci viene detto. Questo non significa tornare a un clima di caccia alle streghe o dare un’interpretazione a due tinte di qualsiasi cosa farà Tadej di qui in avanti. C’è già chi lo fa e ci basta.
Significa però osservare, fare la domanda in più e guardarlo negli occhi mentre risponde. Documentarsi e studiare. E questo puoi farlo meglio se ci sei, lo schermo è inaffidabile. Lo sloveno dà la sensazione di essere al di sopra di queste problematiche: evviva per lui, per il ciclismo, per tutti noi. Purtroppo l’episodio che ha coinvolto Andrea Piccolo di recente fa capire tuttavia che il male è ancora nella testa di alcuni atleti. Forse mal consigliati da personaggi del passato. Forse incapaci di pensare che si possa andare avanti con le proprie forze. Oppure forse dediti ad altro e convinti di aver trovato il modo per fare meno sacrifici.
Il Tour del 2024 ha offerto decine di spunti che sono stati colti bene dagli inviati presenti sul postoIl Tour del 2024 ha offerto decine di spunti che sono stati colti bene dagli inviati presenti sul posto
Racconta, non fare il furbo
In questo mondo che è cambiato tanto, davvero gli unici a non essere cambiati (forse in parte) siamo noi? C’è bisogno soprattutto di giornalisti bravi: conoscerne arricchisce e possiamo garantirvi di averne incontrati tanti sulle strade del Tour, anche molto giovani, ma animati da quel fuoco speciale che riconosci se l’hai addosso. Persone disposte a non avere orari, a lavorare (se serve) nel cuore della notte e a guidare per centinaia di chilometri, per portare a casa una storia originale. Racconta – diceva un vecchio maestro, purtroppo inascoltato – non fare il furbo. Per gente così a bici.PRO c’è sempre posto. Quelli che rielaborano i loro articoli copiando, incollando e rassegnandosi all’omologazione, continuino pure sulla loro strada. Ma forse questo mondo che così tanto è cambiato di loro davvero non ha bisogno.
ROMA – In città per assistere a un musical al Teatro Brancaccio che vede sua figlia Giulia Sol come protagonista, Gabriele Sola si presta al racconto, che parte dal ciclismo e arriva alla sua nuova vita (nella quale è incluso anche il cambio del cognome). Un passo per volta, tuttavia. Quando non c’erano gli addetti stampa, se con il corridore avevi sufficiente confidenza, l’intervista si faceva in camera oppure ai massaggi. Altrimenti, se il compagno di stanza stava riposando, ci si dava appuntamento nella hall. I cellulari non c’erano, i social e i loro ideatori erano ancora embrioni. In questo quadro decisamente nostalgico, Gabriele Sola fu il primo degli addetti stampa italiani.
Dopo essersi dimesso dalla Regione Lombardia rinunciando al vitalizio, Gabriele Sol è oggi un mental coachDopo essersi dimesso dalla Regione Lombardia rinunciando al vitalizio, Gabriele Sol è oggi un mental coach
Un giornalista della radio
La Mapei aveva appena salvato la Eldor-Viner di Marco Giovannetti, subentrando come sponsor nel 1993. E quando successivamente si trattò di strutturare la squadra a cubetti che, in un modo o nell’altro, avrebbe fatto la storia del ciclismo italiano, Giorgio Squinzi si guardò intorno e decise di introdurre qualcuno che facesse da filtro nei rapporti con i media. Ai tempi si ragionava di grandi giornali, riviste, radio e televisioni. E l’unica squadra ad essere già dotata di una figura del genere era la Banesto, che per fare muro attorno a Miguel Indurain aveva investito del ruolo Francis Lafargue.
«In realtà – ricorda Gabriele con un bel sorriso – la figura che era stata individuata da Squinzi era lo stesso Giovannetti. Lo aveva sempre apprezzato, è una persona talmente ricca su piano personale e bravo nelle relazioni, che la scelta era caduta su di lui. Credo però che Marco in quella fase avesse compreso che non era quello che desiderava fare e declinò l’offerta. Io arrivai a fine 1995. Nel frattempo avevo lavorato con RTL102,5 e avevo iniziato una collaborazione con Telemontecarlo, che faceva la trasmissione Ciclissimo con Davide De Zan. Mapei era uno degli sponsor, quindi ci fu modo di conoscersi e da lì partì il progetto».
Fino a quel momento, il solo team con un addetto stampa era la Banesto, con Lafargue per Indurain (foto El Diario Vasco)Fino a quel momento, il solo team con un addetto stampa era la Banesto, con Lafargue per Indurain (foto El Diario Vasco)
Qual era lo scopo? Avvicinare la stampa alla squadra o tenerla lontana?
Gestire la stampa. A volte avvicinarla, tenerla lontana mai. Credo che uno degli aspetti che portò alla scelta del sottoscrittore fu proprio il fatto che venissi dal mondo del giornalismo. L’anno precedente ero al Tour de France e ci fu un incidente diplomatico con Rominger.
Cosa accadde?
Da bravo giornalista rampante, gli arrivai davanti dopo una cronosquadre che non era andata particolarmente bene e gli feci una domanda secca. Tony, che parlava benissimo italiano, mi rispose in inglese o francese, dicendomi: «Ma è possibile che un giornalista al Tour de France mi faccia una domanda in italiano? Forse è il caso che tu vada a fare il Giro d’Italia». Mi trattò malissimo. Immaginate la sorpresa quando al primo giorno di lavoro in Mapei, mi ritrovai a lavorare con lui.
Quale compito ti fu affidato?
Mi fu chiesto di mediare. L’idea era di agevolare l’interazione tra tutte le parti, facendo in modo che si trovassero dei punti di equilibrio. Quindi in alcuni momenti è capitato di dover limitare un po’ la stampa, in altri è stato il contrario.
La Mapei nacque per la spinta del patron Giorgio Squinzi, che creò un patto di acciaio con Aldo SassiLa Mapei nacque per la spinta del patron Giorgio Squinzi, che creò un patto di acciaio con Aldo Sassi
Per il ciclismo italiano era un periodo di grande popolarità e grandi campioni, non c’erano ancora i social. Forse era davvero un altro mondo…
Manco da parecchio, ma forse in quel periodo c’era più rispetto delle reciproche esigenze. C’era un rapporto di calore umano, a volte anche conflittuale. C’erano tensioni, ma anche momenti meravigliosi di unione. Il racconto dello sport veniva trasposto in una dinamica molto accesa, oggi molto meno. Leggo ancora i giornali e mi sembra che su quel versante sia tutto un pochino impoverito. E questo nonostante ci siano più strumenti per interagire. Anche i social, usati in un certo modo, potrebbero consentire un’interazione migliore. Il fatto che non sia più così forse arriva anche alla gente, perché alla fine diventa tutto un po’… plasticoso. Un certo stile va bene per le altre discipline, non per il ciclismo.
Percepivi nei corridori la voglia di raccontarsi?
Allora (sorride, ndr), c’erano corridori e corridori. Franco Ballerini era un grande narratore. Percepivi davvero il piacere di raccontare, non lo faceva per esibizionismo, come alcuni suoi colleghi di cui non faccio il nome. Franco aveva il piacere di condividere con i giornalisti l’esperienza che viveva. E quando raccontava, ti sembrava essere in bicicletta con lui, come se volesse rivelarti le sensazioni più profonde e autentiche del suo vivere il ciclismo. Soprattutto al Nord.
Franco era una grande eccezione?
Di sicuro, c’erano quelli che tendevano a sgomitare per farsi vedere e anche quelli estremamente riservati e chiusi, che quasi consideravano il dover incontrare i giornalisti un dovere ingiustificato. E allora toccava a me spiegargli che facesse parte del loro lavoro e che la giornata non finiva nel momento in qui tagliavano il traguardo. Ho avuto a che fare con persone molto diverse, con cui negli anni si sono create belle interazioni.
Bartoli vince la Freccia Vallone 1999 sotto la neve: Gabriele ricorda distintamente il freddo di quel giornoBartoli vince la Freccia Vallone 1999 sotto la neve: Gabriele ricorda distintamente il freddo di quel giorno
Qualche esempio?
Quella con Gianni Bugno, che poi è stato padrino di mio figlio. Col tempo abbiamo fatto alcune cose molto belle. Mi piace pensare che il Gianni della Mapei fosse diverso da quello degli anni precedenti. E poi Bartoli, con cui ho vissuto una complicità bellissima. Michele era talmente immerso nel trip della competizione, che con lui creai una specie di routine. Per 2-3 minuti dopo l’arrivo, andava blindato. A quel punto, una volta sbollita l’adrenalina, tornava una persona meravigliosa. Una delle persone più belle e autentiche che abbia conosciuto nel mondo del ciclismo. E questo a volte è stato il suo problema nelle relazioni con i giornalisti, perché era davvero schietto. Arginarlo nel dopo gara era un modo per tutelarlo soprattutto da se stesso…
Quali sono gli episodi che porti con te?
Ce ne sono diversi. Uno proprio con Michele, quando vinse la Freccia Vallone del 1999 sotto una nevicata terribile. Dopo l’arrivo era veramente intirizzito e mi ricordo che gli diedi il mio giubbino. Mi guardò come per dire «Grazie». Non me lo disse, bastò lo sguardo. Invece un episodio da ridere ci fu proprio con Bugno.
Cosa successe?
Un giorno al Tour de France, c’era la crono e come al solito ci dividevamo per seguire i corridori. Io di solito ero dietro qualche gregario, invece la sera prima Gianni chiese che seguissi lui. A me prese un colpo. Gli dissi: «Gianni, sei sicuro? Io ho due mani sinistre, non sono capace di aiutarti. Se capita una cosa alla bicicletta, sei fritto…». Lui invece disse che non avrebbe fatto la crono al massimo e così il giorno dopo mi misi nella sua scia con la mia Ulysse tutta cubettata.
Bugno è stato uno degli atleti seguiti da Gabriele Sol, che ne è poi diventato amicoBugno è stato uno degli atleti seguiti da Gabriele Sol, che ne è poi diventato amico
Andò bene?
Era pieno di tifosi in mezzo alla strada. Faceva veramente paura, perché lui era popolarissimo in Francia. A un certo punto però alza la mano, problema meccanico: terrore. Mi avvicino. Lo affianco. E lui mi fa: «E’ un Ecureuil». E mi descrive la marca e le caratteristiche dell’elicottero della televisione che lo stava inquadrando dall’alto. Questi sono due episodi personali, ma ci sono state anche fasi più complesse.
Ad esempio?
Eravamo al Tour e Rominger era particolarmente in difficoltà. Non stava bene e cominciava a perdere sicurezza nei suoi mezzi. Poiché è molto intelligente, creammo una sorta di narrazione parallela a quella reale. Non si negò mai all’attenzione dei media, solo che per proteggerlo decidemmo di raccontare una versione che non rivelasse al mondo esterno il suo momento di difficoltà.
Per finire, che personaggio è stato per te Giorgio Squinzi?
Fantastico. Io ero tra i pochi che spesso veniva chiamato nel suo ufficio al sesto piano. E nel momento in cui il ciclismo entrava nella sua stanza, era come se si accendesse la luce. E’ stato un grandissimo imprenditore con lo stress delle sfide adeguate al suo ruolo. Ma quando veniva alle corse, guai se non c’era la pastasciutta aglio, olio e peperoncino fatta da Giacomo Carminati. C’era tutto un insieme di rituali, complicità e situazioni che lui viveva intensamente. L’ammiraglia, il pullman, iIl rapporto con il corridore e con tutti i membri dello staff. Viveva tutto con grande generosità e si stupiva di vedere che per altri non fosse lo stesso. Io non l’ho mai vissuto nei panni di presidente di Confindustria o in una trattativa importante, ma credo che lo Squinzi visto nel ciclismo, fosse il vero Squinzi.
Mondiale di Varese, Bettini e Gabriele Sol, che faceva parte dell’organizzazione: per entrambi l’ultima corsaMondiale di Varese, Bettini e Gabriele Sol, che faceva parte dell’organizzazione: per entrambi l’ultima corsa
Perché finì?
Nel 1999 venni contattato dalla Juventus. C’era la possibilità di prendere il posto di capo ufficio stampa e io mandai il curriculum. Questa cosa credo non la sappia praticamente nessuno. Mi chiamarono a fine Vuelta. A ottobre ci furono tutti i colloqui ealla fine scelsero me. Avrei iniziato il 2 novembre del 1999, senonché mia moglie si mise di traverso. Non voleva andare a Torino. Giulia aveva appena quattro anni e alla fine rinunciai. Solo che lo avevo già detto a Squinzi. Lui non era stato entusiasta, mi aveva lasciato andare a malincuore, essendo per giunta milanista. Così quando tornai indietro, mi aprì le porte, però percepii che le cose erano cambiate. Perciò nel 2000 aprii la mia agenzia e iniziammo a seguire la Liquigas, una parte della comunicazione internazionale per il Tour de France e nel 2008 i mondiali di Varese.
Sappiamo della carriera politica in Regione Lombardia e ora del tuo lavoro di mental coach. Hai mai sentito la mancanza del ciclismo?
La parentesi politica fu istruttiva è un po’ distruttiva. Sono felice di seguire alcuni corridori, ma con la conoscenza attuale, mi piacerebbe essere più dentro al mondo del ciclismo: il cuore è lì. Non vengo più alle corse, perché rischio di star male e quindi me le guardo in TV. E nel frattempo abbiamo anche cambiato nome. Abbiamo seguito nostra figlia Giulia. Lavorando come artista a Roma, ha scelto come nome d’arte Giulia Sol. Finché un bel giorno, dato che come mental coach lavoro in tutta Italia e faccio pubblicità sul web, ho pensato che chiamarsi Sola non fosse un bel biglietto da visita. Così siamo andati dal Prefetto e abbiamo tutti cambiato cognome. Esattamente un anno fa sono diventato Gabriele Sol, ma per il resto giuro che sono sempre lo stesso.
La posizione di Colbrelli desta curiosità: visto quanto è corto? Sonny è in volo per la Francia e intanto ne parliamo con Bartoli. Poi arriva la conferma
Domani la Freccia del Brabante. L'albo d'oro è stato inaugurato nel 1961 da Pino Cerami. La sua storia e la corsa vinta poi da Bartoli, Paolini, Colbrelli
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Diciassetteanni di differenza e in mezzo un mondo. Stefano Garzelli, nato nel 1973, Moreno Moser nel 1990. Entrambi professionisti, sia pure con carriere diverse. Entrambi opinionisti televisivi. Garzelli, da più anni, in questi giorni è in Francia con la Rai, assieme a Rizzato e Pancani. Moser, fresco di microfono, è negli studi di Eurosport con Gregorio e Magrini, pure loro impegnati a raccontare il Tour. Entrambi sono piuttosto attivi sui social.
«Ma proprio i social – diceva Garzelli qualche giorno fa – hanno isolato ancora di più i corridori. Mi rendo conto anche io quanto sia diventato difficile parlarci. Per averne qualcuno ospite al Processo alla Tappa, sia pure virtualmente, era ogni giorno un’impresa. Sembra che vivano il confronto col giornalista come una seccatura, preferiscono restare nel loro mondo. Io ero contento dopo la corsa di andarmi a raccontare e spiegare, oggi credono che bastino i social. Con alcuni di loro ne parlo. E gli dico: attenti, perché quando smetteranno di cercarvi, significa che la carriera sarà finita. E allora vi mangerete le mani».
Dopo aver fatto il Giro, Garzelli è al Tour accanto a Stefano RizzatoDopo aver fatto il Giro, Garzelli è al Tour accanto a Stefano Rizzato
Campioni e social
Del tema ieri hanno parlato anche gli amici di Eurosport, cercando di capire in che modo si possa rendere il ciclismo attrattivo per gli italiani più giovani. Si parlava della possibile Grand Depart di un Tour dall’Italia e ci si chiedeva se sulle strade vedremo mai la tanta gente che nei giorni scorsi ha orlato le strade danesi. Lassù infatti la popolarità del ciclismo non sembra tema da dibattere, da quando si è fatto della bici uno strumento di vita e benessere quotidiano.
«Una volta – ha detto Moser – avevamo sei canali tivù uguali per tutti. Avevamo tutti gli stessi accessi all’informazione. Oggi ci sono centinaia di app e siti e ciascuno segue quel che più gli piace. C’è il rischio che i più giovani neppure sappiano che cosa sia il Tour e che possa partire dall’Italia. Per cui il modo di rendere attrattivo un evento è che lo siano in primis i campioni. Vincere è importante, ma conta più il modo in cui si vince. Servono campioni in grado di coinvolgere i tifosi anche con i loro social. Il pubblico è tifoso. E per chi investe una delle prime discriminanti è se la persona in oggetto sia davvero forte sui social».
Con questa locandina dedicata ai suoi 4 Moschettieri, Eurosport celebra Magrini, Moser, Belli e GregorioCon questa locandina dedicata ai suoi 4 Moschettieri, Eurosport celebra Magrini, Moser, Belli e Gregorio
Il lavoro del giornalista
Il tema è chiaramente complesso e investe ogni ambito della società. Si può fare buona informazione, ma se non si è capaci di condividerla bene sui social, potrebbe restare lettera morta. Al contrario, si può essere forti sui social, ricorrendo a mille sistemi (titoli fake e notizie distorte) e ugualmente non avere niente da dire.
Chiedere a Mozzato, Dainese e con quale spirito si approcciano al Tour o a Fiorelli le motivazioni che lo spingeranno al Sibiu Tour fa sì che davanti ai risultati che seguiranno, il lettore capace di collegare i puntini, avrà un’idea completa e magari potrà capire lo sfogo, l’esultanza, le lacrime e le reazioni in genere.
Il lavoro del giornalista, se fatto bene, è più complesso del semplice mitragliare notizie. Perché se a questo si limita, va in rotta di collisione con il flusso di notizie che arriva dai social. Spesso stringate, al massimo colorite, ma prive di un punto di vista critico che possa inserirle nel contesto più ampio in cui si generi l’approfondimento e si stimoli la conoscenza.
Il punto su Instagram: Van der Poel a quota 902 mila follower
Nonostante le tante vittorie, Van Aert ne ha meno di Van der Poel, ma è molto meno attivo
Nibali è a quota 461 mila. Di recente si è buttato su Twitch assieme a Lello Ferrara e Pozzovivo
Sagan e i suoi 1,9 milioni di follower è la vera star del lotto
Pogacar è un ragazzo schivo, ha 591 mila follower , ma ben sotto le sue vittorie
Cavendish a quota 746 mila: lo scorso anno le vittorie del Tour furono un super boost
Froome oltre il milione: l’essere schivo fa parte del suo fascino
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Questione di punti di vista
Gli atleti sono influencer. Parlano di sé, a volte danno opinioni su altro, ma ciascuno col suo device in mano offre del mondo un punto di vista parziale. Il proprio, ovviamente. Alcuni sono particolarmente lucidi e le loro frasi meritano approfondimenti, altri sentenziano e non offrono margini.
Dopo la volata di ieri al Tour, Sagan non ha postato una sola riga sull’insulto gridato a Van Aert. Ha scritto di un’altra tappa veloce e dell’attesa della prossima. Van Aert, cui il terzo piazzamento avrà dato sui nervi, non ha proprio toccato l’argomento.
A farsela bastare, si potrebbe pensare che non sia successo niente, ma si perderebbe l’occasione di intercettare quel che magari succederà la prossima volta.
Nessun cenno sui social di Sagan di questo gesto: giusto stemperare le tensioniNessun cenno sui social di Sagan di questo gesto: giusto stemperare le tensioni
Tra fare ed essere
La differenza non la fa l’esplodere dei canali, ma la qualità dell’informazione. Quando i canali e i giornali erano pochi, si poteva sperare che anche la selezione degli addetti ai lavori fosse severa. Fare l’inviato al Tour era motivo di vanto, una cosa per pochi, quasi un punto di arrivo. Ti mandava il direttore, non decidevi di andarci da te. Oggi che basta registrare un dominio per definirsi giornalisti, c’è chi si prende le ferie dal suo lavoro vero e va a fare l’inviato in Francia. E’ la stessa cosa? Oggi che il gruppo è pieno di ragazzini fatti passare per necessità di numero, siamo certi che si possa davvero definirli professionisti?
E’ vero, come dice Garzelli, che i social hanno isolato i corridori. E’ lo stesso meccanismo per cui dopo il COVID milioni di ragazzi al mondo sono diventati isole. Vivono là dentro e pensano che sia tutto, ci sono psicologi che studiano e non se ne viene a capo. Ma è anche vero, tornando al ciclismo, che l’informazione polemica e faziosa li ha resi spesso diffidenti.
E’ molto cambiata anche la composizione della sala stampa del TourE’ molto cambiata anche la composizione della sala stampa del Tour
Fra social e media
Solo con i social dei campioni non si vince la battaglia. Certamente, se non ci fossero, mancherebbe comunque un pezzo. Ma il pubblico ha diritto all’approfondimento, che spieghi e renda più attrattivo quello che vede sui social, sulle strade o in televisione.
I corridori forti sui social sono quelli che prima di tutto sono forti sulla strada. Il resto, come certi titoli o l’abitudine di sparare notizie bomba (esponendosi a smentite dai diretti interessati sui social che si cerca di cavalcare), destabilizza il sistema e lo mina alla base. Spinge i corridori a non fidarsi e accentua la deriva di cui hanno parlato con diversi argomenti Garzelli e Moser. Il primo, avendo visto com’era prima. Il secondo, avendone sentito parlare ma senza averlo troppo sperimentato. Non esistono percorsi irreversibili, bisogna essere capaci di starci dentro, con onestà e bontà d’animo, cogliendone le possibilità.
Il pezzo scritto da Gianfranco Josti e pubblicato giusto ieri è stato una piccola scossa. Forse se non l’avessimo letto, non avremmo scritto questo Editoriale. Parlandone fra colleghi al Giro, ci siamo resi conto infatti di quante condizioni… avverse abbiamo accettato per lavorare nel ciclismo al tempo del Covid. E di come ora che il Governo ha tolto le varie restrizioni, continuiamo a subirle. C’è chi lavora in condizioni ben peggiori, sia chiaro, ma avendo a cuore la qualità di ciò che produciamo, ci rendiamo conto di operare con il gas tirato.
Il luogo deputato agli incontri con i corridori è la mixed zone, corsia di pochi metri in cui gli atleti parlano con i media
Anche ai fotografi è vietata l’area bus, in cui si sono sempre fatte grandi foto
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Un Giro vietato
Josti ha ricordato le chiacchierate e gli approfondimenti ai bus prima del via: vietati. Ha ricordato le interviste fatte durante i massaggi, in quei lunghi momenti in cui davvero il corridore si lascia andare: vietate. Ha parlato delle conferenze stampa virtuali, che oggi nel giorno di riposo si rincorreranno sul web grazie al ponte effettuato da RCS Sport, mentre fino al 2019 il riposo era il modo di frequentare gli hotel delle squadre, scambiando parole in libertà che sarebbero servite nel seguito della corsa per costruire racconti e approfondimenti più sostanziosi.
Di una cosa non si è accorto Josti o non ha voluto scriverlo. Il tanto invidiato accredito che ci permetteva di passare fra i corridori abbreviando i tempi di percorrenza, ormai ha esaurito i superpoteri. Se vuoi andare al foglio firma per accedere alla zona mista, dove si fanno le interviste alla partenza, devi farlo solcando il meraviglioso popolo dei tifosi. Niente di male, serve anche per rendersi conto dei viottoli lasciati a sua disposizione, ma ancora una volta allunga i tempi e rende difficoltoso il lavoro. Sulla strada della corsa i giornalisti non possono più passare, mentre non si batte ciglio ad esempio per la banda dei bersaglieri. A impedirti il passaggio, degli uomini vestiti di nero che si esaltano nell’esercitare il loro potere. Mentre come tifosi esclusi dallo stadio, ci sono colleghi che con mezzi e mezzucci cercano di intrufolarsi. Anche in questo si perde la dignità.
Le interviste ai massaggi sono sempre state fonte di pezzi stupendi: qui con Pantani
E qui con Nibali: foto e pezzi fatti fino a poco tempo fa
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E qui con Nibali: foto e pezzi fatti fino a poco tempo fa
Squadre scontente
Al Giro d’Italia e in tutte le corse RCS è così. Ne fanno le spese i colleghi incolpevoli dell’ufficio stampa che lavorano con noi e per noi, che si fanno in quattro e sono spesso costretti a giustificare decisioni prese altrove. Interpellato in merito nei giorni scorsi, il direttore Mauro Vegni ha detto che si proverà a invertire la tendenza in quest’ultima settimana: gliene saremmo eternamente grati. Lo sarebbero anche le squadre, che si sono viste respingere le richieste di accredito per i loro sponsor: quelli che pagano gli stipendi e vorrebbero godere dello spettacolo dal suo interno. Nel resto del mondo, dalla Turchia alla Francia, passando per Belgio e Olanda, certe restrizioni sono state eliminate. Tanto che nelle più recenti Freccia Vallone e Liegi si è potuto lavorare come una volta.
La motivazione addotta da RCS Sport è che il presidente Lappartient avrebbe richiesto di tenere gli atleti nella bolla: ma di quale bolla parliamo se poi negli hotel i corridori sono in mezzo alla gente e si fermano per fare le foto andando alla partenza? L’Uci ha semplicemente consigliato di attenersi alle normative dei Paesi ospitanti. E la normativa italiana ha eliminato certi vincoli.
Però c’è un però. RCS Sport deve attenersi alla normativa UCI, così come l’ASO e gli altri enti organizzatori. Se è vero che per ogni infrazione alle normative tecniche vengono spiccate multe salate, viene da pensare chi i francesi paghino oboli salatissimi all’autorità costituita o che i criteri di controllo siano difformi.
Mauro Vegni ha detto che per l’ultima settimana si lavorerà a un cambiamento: è il desiderio di tuttiMauro Vegni ha detto che per l’ultima settimana si lavorerà a un cambiamento: è il desiderio di tutti
Un altro sport
Eppure c’è chi da questa situazione scomoda trae beneficio. Quelli che stanno a casa e raccontano ai lettori che sono al Giro e alle altre corse. Quelli che grazie alla possibilità di accedere alle conferenze stampa virtuali hanno gli stessi… privilegi di chi investe e manda i suoi giornalisti sulle strade delle corse, per offrirne uno spaccato più avvincente. Quelli che in qualche modo anziché raccontare, fanno i furbi grazie a un sistema che glielo consente.
Ecco la mail con i link per le conferenze stampa di oggi. Anche chi è a casa può accederviEcco la mail con i link per le conferenze stampa di oggi. Anche chi è a casa può accedervi
Così facendo però il ciclismo cambia. Se lo si sposta sul terreno del virtuale, non ha più senso investire per mandare inviati, si perde il gusto del racconto e si finisce per offrire al pubblico e di riflesso agli sponsor un prodotto povero e standardizzato. Se tutti scrivono le stesse cose, il Giro ne trae vantaggio? Il ciclismo e il racconto che lo seguiva erano un’altra cosa. Facciamo tutti in modo che tornino a esserlo?