Questo articolo è nato da un incontro per caso nella sala stampa di Catania, quando abbiamo visto entrare Gianfranco Josti, inviato per tanti anni del Corriere della Sera. Così tanti, da essersi guadagnato un titolo che nessuno ha poi rivendicato. Dopo poche parole, ci siamo resi conto che Gianfranco mancasse dal 2005. E qui è nata l’idea: «Perché non ci scrivi un pezzo in cui racconti quel che eventualmente vedrai di diverso?». Detto e fatto…
Buongiorno ai lettori.
Come tutti gli esseri umani ho un nome e un cognome, ma nel mondo del ciclismo che ho frequentato per più di quarant’anni in qualità di giornalista, gli addetti ai lavori mi conoscono come “Decano”. Dopo una assenza durata diciassette anni ho deciso di accettare la proposta di un collega francese, una sorta di fratello minore che ho conosciuto sulle strade del Giro ’84: seguire con lui le prime tappe della corsa rosa al Sud saltando la partenza dall’Ungheria. E’ stato insieme un atto di coraggio e di amore verso un ambiente che mi ha regalato tantissime emozioni e soddisfazioni, ma anche profonde e dolorose delusioni.
Come a Disneyland
Vista con gli occhi di un ultraottantenne, la più grande kermesse sportiva che si svolge in Italia da oltre un secolo ti lascia a bocca aperta per la sua imponenza.
Ogni giorno su strade e stradine si muovono centinaia di mezzi ultracolorati, quasi fossimo a Disneyland. Alla partenza e all’arrivo di ogni tappa, chi s’avventura per la prima volta rischia di perdersi se non si fa guidare da una segnaletica cartellonistica ancora in grado di reggere il confronto con quella digitale.
La sensazione che ne ho ricavato è che, rispetto ai miei tempi, c’è stato un grande sforzo da parte degli organizzatori per catturare l’interesse dei frequentatori del Giro (forse è più corretto chiamarli sponsor) proponendo loro un’immagine di grandiosità. Caratteristica che credevo fosse esclusiva prerogativa del Tour de France.
La nuova sala stampa
La cosa che mi ha colpito di più ritornando alla corsa rosa dopo tantissimo tempo è la “quasi” assenza di giornalisti della carta stampata. Ricordavo sale stampa sovraffollate, con colleghi francesi, belgi, olandesi, qualcuno di lingua inglese, anche danesi e norvegesi.
C’erano problemi per parcheggiare l’auto nei pressi del Quartier Tappa (quasi tutte le testate seguivano la corsa su una propria vettura con tanto di pilota qualificato).
Ho ancora vivido il ricordo dell’aria frenetica della sala stampa che si respirava tra tavolate o banchi anche quando è scomparso il martellare delle macchine da scrivere (e l’acre fumo delle sigarette) sostituite dai silenziosissimi e mai sufficientemente apprezzati computer.
Il ruolo del cronista
La vita cambia continuamente, ai giorni nostri addirittura a ritmo frenetico e si fa davvero fatica a tenere il passo dei progressi che ci impone la tecnologia quasi quotidianamente. Però, mi sono detto, i corridori sono sempre essere umani in carne ed ossa, sono sempre costretti a soffrire, a sacrificarsi, a fare fatica. Anche se le bici sono più leggere, c’è il cambio elettronico e il freno a disco e il marchingegno per regolare l’altezza della sella, per andare avanti bisogna sempre azionare le gambe. Tanto che il vecchio detto di Alfredo Binda, il primo campionissimo del ciclismo “ghe voren i garùùn” (ci vogliono le gambe) è sempre d’attualità anche nel terzo millennio.
Ecco perché continuo ad amare il ciclismo, anche se non sarei più disposto a seguirlo. Perché un tempo il contatto con corridori, direttori sportivi, meccanici, massaggiatori era quotidiano, alla partenza e all’arrivo, qualche volta in albergo. Le interviste più succose avvenivano mentre il corridore si faceva massaggiare.
Adesso, complice il Covid, ci si parla spesso in videochiamata, quando va bene, o attraverso il responsabile della comunicazione. Del resto la quantità di notizie che un giornalista al seguito è in grado di ricevere è tale che “forse si lavora meglio da casa che al seguito della corsa”. Essendo tecnologicamente negato, non sarei in grado di svolgere il ruolo di cronista.
Incontro sull’Etna
Per concludere questo revival (di cui sarò sempre grato a Enzo Vicennati, uno dei ragazzini che ho avuto il piacere di conoscere e frequentare) consentitemi di citare un personalissimo e singolare episodio che mi ha visto protagonista in questa fantastica rentrèe.
Sul traguardo dell’Etna, molto prima dell’arrivo dei concorrenti, ho incontrato un imprenditore calabrese, amante del ciclismo, che avevo conosciuto negli Anni Ottanta. Commozione reciproca, baci e abbracci ed una sensazionale scoperta. Mimmo (il nome dell’imprenditore) infatti mi detto: «Caro Gianfranco ho conservato come una reliquia la tessera stampa che tu mi hai dato per accedere alla Sei Giorni di Milano, visto che i biglietti erano esauriti e introvabili. L’ho conservata come una reliquia, adesso che ti ho incontrato te la posso restituire, ci vediamo all’arrivo della tappa di Scalea».
Cosa che si è puntualmente verificata. Dopo quarant’anni sono pertanto tornato in possesso della tessera stampa plastificata intestata a “SIG JOSTI corriere della sera” che mi consentiva l’accesso alla Sei Giorni di Milano nel Palazzo dello Sport dal 13 al 19 febbraio 1982. Per la cronaca: quell’edizione fu vinta dalla coppia Saronni-Pijnen che la spuntò su Moser-Sercu.
Al Giro d’Italia può accadere anche questo.
Gianfranco Josti