Non avrà più il fascino del secolo scorso, delle sfide infuocate fra Merckx e Gimondi o fra Hinault e Moser, ma la Chrono des Nations resta sempre un appuntamento di prestigio per chi ama confrontarsi contro il cronometro. Soprattutto per le categorie inferiori. Luca Giaimi ne aveva fatto un obiettivo primario un po’ forzato, scaturito dall’andamento ondivago della sua prima stagione da U23. Ma alla fine il secondo posto di caregoria rappresenta tanto, è una boccata di fiducia.
Sotto il diluvio veneto, dove si trova per le ultime classiche italiane della stagione, il portacolori del devo team della Uae parte proprio dal podio transalpino per analizzare la sua stagione: «Era una conferma alla quale tenevo particolarmente. Ho chiesto espressamente di affrontare la trasferta prima di venire in Veneto, perché quest’anno non avevo potuto fare cronometro dal Giro Next Gen. E soprattutto ho voluto lavorarci sopra, volevo vedere quale livello posso raggiungere. Ho cercato di prepararla, Matxin mi ha dato l’opportunità di farlo credendo in questo mio piccolo progetto e il risultato mi ha dato le risposte che cercavo».
Ti si era un po’ perso di vista…
Effettivamente quest’anno ho corso poco e senza grandi risultati soprattutto nella prima parte, infatti sapevo che non sarei andato né agli europei né ai mondiali. Ho lavorato molto in allenamento anche se le gare non andavano bene, anche per questo avevo bisogno di un risultato in chiusura di stagione.
Come giudichi quest’annata?
Direi a due facce. Fino a luglio mi è pesata tantissimo la scuola, infatti ho potuto gareggiare poco e soprattutto inseguivo sempre la miglior condizione. Mi sentivo inferiore agli altri, d’altronde mi ero messo d’impegno con lo studio per finire bene e la squadra mi ha dato mano libera in tal senso. Ad agosto ho voluto un cambio di rotta e ho trovato in Alessandro Covi un grande amico oltre che una guida in allenamento. Ci alleniamo a Varese e dintorni dove c’è davvero ogni tipo di percorso. Sto cambiando il mio modo di vivere, entrando sempre più nella mentalità del ciclista a tempo pieno.
Tu quest’anno hai fatto già un buon numero di gare con la squadra WorldTour. Quanto cambia rispetto al tuo team abituale?
Molto, si impara tanto. Soprattutto il modo di avviare le corse, il lavoro che c’è nella prima parte sia per mandare avanti la fuga o per ovviare se non ci si è entrati. Io sono stato deputato proprio al lavoro in avvio delle gare, per questo ad esempio nelle classiche italiane mi sono ritirato. Serve molto per acquisire quel ritmo che è molto diverso da quello a cui siamo abituati. Faccio un esempio: la Parigi-Tours con i suoi 213 chilometri è la gara più lunga che abbia mai percorso. Anzi posso dire: il giorno nel quale ho coperto più chilometri in tutta la mia vita…
Il fatto che la squadra ti abbia chiamato in causa tante volte è però un sintomo di grande fiducia. Che cosa significa far parte dello stesso team di Pogacar e quindi vivere, anche se non direttamente, il suoi trionfi?
Sicuramente aiuta il morale. Io credo che la forza del team sia la sua coesione. I suoi successi ti portano ad attaccarti sempre più alla maglia. Io non ho avuto la possibilità di correre ancora con lui, ma ho gareggiato insieme a grandi campioni, ad esempio Hirschi. Standoci insieme, si ha l’opportunità di imparare tantissimo, per noi giovani è un plus.
Tornando a te, avrai altre occasioni per gareggiare con i “grandi”?
Mi hanno già detto di sì, anzi saranno sempre di più le occasioni e questo è sinonimo di fiducia. Ci saranno tante gare con la squadra del WorldTour, per aumentare la mia esperienza. So che il mio lavoro viene apprezzato sempre di più e questo vale molto perché nel team c’è molta competitività: se non vai forte, la squadra non ti convoca…
Perché non sei stato in Danimarca per i mondiali su pista?
Diciamo che un po’ è colpa mia. Villa ha chiesto di partecipare ai ritiri, ma tra corse e preparazione della crono non potevo dare le garanzie che chiedeva. Mi serviva fare questo percorso di carriera. Mi sarebbe piaciuto esserci, ma per farlo devi essere davvero al 100 per cento e con la pista ora non ho il necessario feeling.
Ma continuerai con la pista?
Certo, basterà trovare i giusti spazi nei rispettivi calendari per fare tutto al meglio. La squadra è perfettamente d’accordo che segua entrambi i percorsi, io alla pista tengo molto e soprattutto a percorrere una strada che possa portarmi a Los Angeles 2028 che è un mio obiettivo.
Tu spesso parli di lavorare per gli altri e della soddisfazione del team per il tuo apporto per la causa comune. Non temi però di essere identificato sempre più in un corridore che aiuta e non in uno che può mettere la propria firma sulle corse?
Le occasioni arrivano, bisogna farsi trovare pronti quando accadrà, fisicamente ma anche come esperienza. Alla Parigi-Tours, ad esempio non c’era un leader prestabilito, tutti correvano per procacciarsi la propria chance. Io troverò i miei spazi, ma devo ancora crescere…