«Quando ripenso a quella gara è come se l’avessi disputata ieri, è stampata nella mia mente in ogni suo metro». Sono passati 37 da quel 29 luglio 1984, da quella gara olimpica di Los Angeles ricca di spunti, di aneddoti che con il tempo hanno assunto contorni sfumati nella memoria di Maria Canins, colonna della storia ciclistica italiana al femminile. Molti ad esempio ricordano quella gara come la sfida a Jeannie Longo, la francese vincitutto, un totem esattamente come l’Olanda lo è oggi, ma le cose non stanno propriamente così…
«Allora la Longo era ancora troppo giovane, non aveva vinto nulla della caterva di titoli conquistati in seguito – racconta la Canins – Il vero spauracchio erano le americane, Connie Carpenter e Rebecca Twigg, che avevano tutto per vincere correndo in casa e infatti fecero doppietta. La Longo però un peso in quella corsa lo ebbe, eccome…».
Ci spieghi meglio…
Partiamo allora dall’inizio: per gareggiare a Los Angeles la trasferta era iniziata molto prima, con il Giro del Colorado, una prova a tappe di preparazione alla gara olimpica, molto dura. Vinsi io e forse proprio per questo mi indicavano tutti come favorita per l’oro, ma io sapevo che le americane erano fortissime e sarebbe stato difficile batterle su quel percorso. Dovevo staccarle e ci provai.
Riuscendoci?
No, perché andavano veramente forte. Nella fase finale della gara ci ritrovammo in 6: io, la Longo, le due americane, la tedesca ovest Schumacher che fino allora non aveva risultati di rilievo e la norvegese Unni Larsen, stesso discorso. Le americane facevano gioco di squadra anche perché sapevano di essere forti in volata, bisognava staccarle. Io mi misi alla ruota di una delle due, ma questo alla Longo non stava bene e voleva prendere il mio posto.
Cosa accadde?
La francese si mise al mio fianco, ma io non ero tipo da impaurirmi e la scia non la cedetti. Così andò un poco più avanti e strinse su di me, col risultato che il pedale toccò la mia ruota anteriore. Finimmo a terra, ma io mi rialzai subito, lei invece ruppe la catena e dovette attendere. La corsa l’aveva persa, ma anch’io…
Eppure arrivò insieme alle prime…
Sì, infatti ripartii in quarta (il mio direttore sportivo diceva sempre che mi serviva qualche incidente per dare davvero il massimo) ma mancavano solo 3 chilometri. Mi riagganciai, ma avevo speso tutto, così non andai oltre il 5° posto. In un gruppetto così ridotto, in volata avrei potuto dire la mia, ma ero troppo stanca. Comunque la Carpenter fu una vincitrice più che degna, una vera campionessa.
Quelle erano Olimpiadi speciali, le prime con la gara femminile su strada…
E fu proprio per quelle Olimpiadi che iniziai la mia carriera da Elite. Quando si seppe che il ciclismo su strada avrebbe fatto ingresso nel programma olimpico, la Fci contattò la federazione sport invernali per vedere se c’era qualche fondista disposta a provare il ciclismo in funzione della gara olimpica. Dissero tutte di no, a me piacevano le sfide e accettai. Nel giugno 1982 affrontai la prima gara e quello stesso anno fui argento ai Mondiali. Poi andai avanti vincendo in tutto il mondo, ma la molla fu quella.
Quante eravate in gara?
Esattamente come adesso, 4: io, Luisa Seghezzi che arrivò nona, Roberta Bonanomi 23esima e Emanuela Menuzzo 34esima. La tattica di gara era semplice: le altre dovevano proteggermi e aiutarmi a fare selezione su un percorso duro. Nei propositi dovevo staccare tutte le altre o perlomeno costruire un gruppetto, infatti alla fine rimanemmo solo le favorite.
Un po’ lo stesso principio che accompagna Elisa Longo Borghini nella sua sfida olimpica alle olandesi…
Elisa la conosco bene, sua madre Guidina Dal Sasso era mia grande avversaria nelle gare di sci di fondo. Ha un po’ le mie caratteristiche, deve riuscire a staccare tutte o ridurre le avversarie a un numero minimo per avere possibilità. Mi rivedo molto nella campionessa della Trek Segafredo e la seguo con il cuore.
Segue ancora il ciclismo femminile?
Per quel poco che si può… Io forse andrò controcorrente, ma ho sempre pensato che il grande errore del ciclismo femminile sia stato quello di andare troppo dietro a quanto fanno i pro’, quando invece bisognerebbe scegliere una propria via, più semplice, più divertente. Il paragone con l’altro sesso sarà sempre perdente, è come paragonare la gara dei 100 metri maschile in atletica a quella femminile, sarà sempre la prima ad attirare di più. E poi, la volete sapere una cosa?
Prego…
Non capisco come facciano a correre con quegli auricolari sempre nelle orecchie, io non li avrei sopportati. A me piaceva correre e inventare, un giorno andava bene e l’altro magari no, ma così era più divertente.