Una dodicenne, una poesia e l’eroe in bicicletta

Giada Gambino
13.01.2021
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Avevo dodici anni quando chiesi a mio padre di aiutarmi a scrivere una poesia che avrei dovuto leggere, il giorno dopo, a scuola.

Fu in quell’occasione che, per la prima volta, sentii quel nome: Marco Pantani.

Mio padre mi raccontò di quanto fosse forte, unico ed imprevedibile; di quanto le sue imprese fossero così emozionanti da far fermare il tempo.

Tutto il mondo si concentrava sulle sue vittorie, sui suoi scatti, sulle sue fughe. Mentre lo ascoltavo mi immaginavo questo eroe in bicicletta che si levava la bandana ogni qualvolta andava all’attacco per conquistare sempre più terreno, i miei occhi brillavano e percepivo il mio cuore battere sempre più forte.

I primi video

Così, un giorno, decisi di cercare su internet i video delle vittorie del Pirata e, inevitabilmente, me ne innamorai. Dal Giro d’Italia al Tour de France scoprii il ciclismo vero, quello non calcolato nei minimi dettagli, quello che ti entusiasma e ti fa venire la pelle d’oca anche quando stai vedendo una corsa registrata e sai già come andrà a finire.

La grandezza di Pantani si vede anche in questo: a distanza di anni, nonostante non sia più con noi, riesce comunque a catturare dei tifosi che, come la me allora dodicenne, rimangono estasiati dinanzi ad una vera e propria leggenda.

Charly Gaul, Marco Pantani, Tour de France 1998
Sul podio di Parigi, anche Charly Gaul, uno dei più grandi scalatori di sempre
Charly Gaul, Marco Pantani 1998
Sul podio di Parigi, anche Charly Gaul, uno dei più grandi scalatori di sempre

Quel giorno mio padre mi raccontò anche del Giro del 1999, dei tragici fatti di Madonna di Campiglio, del declino del Pirata e di quello che, ormai, molti considerano un omicidio. Sentire tanta brutalità attorno a qualcuno che doveva solo ricevere affetto, stima e sostegno mi fece sentire piccola e impotente.

Proprio per questo ogni qual volta mi alleno in bicicletta, salendo su Monte Pellegrino a Palermo e leggo per terra la scritta “ W PANTANI” un brivido di emozione mi attraversa tutto il corpo, sorrido e getto la treccia dei miei lunghi capelli all’indietro (involontariamente, forse, per simulare il gesto della bandana) e affronto la salita sempre con una carica in più.

La poesia, comunque, la ricordo ancora e recita così:

14 Febbraio 

Coppie scoppiettanti di amori accesi

si incontravano per farsi doni e stare assieme; 

solo, in uno squallido albergo, mi ritrovavo ad affrontare la mia ultima fuga. 

Mai più discese o ripide salite, 

mai più Alpi o Pirenei scalati a perdifiato col cuore in gola

per rendere più breve l’agonia. 

Sei morto da solo, ma vivi per tanti. 

Quella volta che feci a botte per Pantani

13.01.2021
3 min
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Feci a botte il 5 giugno 1999 più o meno verso le quattro del pomeriggio. Il motivo? Fui un po’ preso in giro, ma neanche tanto, perché Pantani, mio idolo assoluto, era stato allontano per i noti fatti di Madonna di Campiglio (in apertura la foto della vittoria del giorno prima).

Ero un facile bersaglio, visto che vivevo in un paese del Centro Italia in cui ero uno dei pochi “folli” a non seguire solo il calcio. Un ragazzino fuori dal branco era facile da prendere di mira. La verità è che la sera prima avevo festeggiato in un capannone, come si faceva all’epoca, i miei 18 anni. E questo amplificò la cosa.

Il bozzetto della torta del Pirata, tutt’ora appeso nella mia ex cameretta
Il bozzetto della torta che ritraeva il Pirata, tutt’ora appeso nella cameretta

Pantani batte il calcio

Cosa c’entrasse il mio compleanno con Pantani è presto detto. Avevo festeggiato insieme ad un mio coetaneo e amico fraterno, visto che eravamo nati a 48 ore di distanza l’uno dall’altro. Ma la torta non era unica. La mia non aveva su lo stemma della Lazio (un po’ ci avevo pensato ad essere sincero) come quella del mio amico che aveva quello della Juve. Sulla mia torta c’era lui: il Pirata. Marco Pantani intento a scattare con le mani basse sul manubrio.

Pantani era Pantani. Lo conoscevano le vecchiette, figuriamoci i ragazzi. Comunque se ne parlava. Sempre, ovunque, tutti. Persino nei bar. Per chi non lo sapesse nel centro Italia, soprattutto se vicino Roma, bar è sinonimo di calcio più che in ogni altra parte d’Italia. Al bar il discorso è monotematico e tutti sono allenatori. Ebbene il Pirata era riuscito anche in questo: aveva messo da parte Totti e colleghi.

Delusione…

In questa situazione, si può ben capire come quel maledetto 5 giugno, potessi esserci io nell’occhio del ciclone. Era sabato. E a quei tempi si andava ancora a scuola. Ma io la saltai perché c’erano il Tonale, il Gavia e il Mortirolo e la Rai dava la diretta integrale. Tutta l’Italia aspettava quella tappa. L’impresa era certa. Apro il mitico televideo e sbam: la doccia fu ghiacciata. Pantani fermato al Giro.

Delusione. Un senso di vuoto che ancora ricordo. La giornata, la festa della sera prima, tutto aveva perso senso. Le forze non c’erano più. E quella dichiarazione di Marco ci mise il carico: «Sono caduto e mi sono rialzato tante volte, stavolta non so se ce la farò». Ripensavo subito al momento di Montecampione, al duello con Tonkov, per me più esaltante anche del giorno di Les Deux Alpes. O alla rimonta di Oropa. Non posso non vivere più tutto questo. Non facciamo scherzi…

Il duello con Tonkov a Montecampione, momento di agonismo strepitoso
Pantani e Tonkov a Montecampione, momento di agonismo strepitoso

E poi il cazzotto

Nel pomeriggio trovai la forza di saltare sul motorino e di andare fino alla gelateria dove ci ritrovavamo di solito. Arrivai piano, senza fare curve alla Valentino Rossi come si faceva a quell’età. Davanti all’ingresso fui preso di mira.

«Ahò, hanno beccato Pantani. “Quer” dopato. E tu hai anche scritto il suo nome sulla salita di Leggio (la salita che porta nel punto più alto del paese, ndr), ah, ah, ah…».

Di colpo le forze tornarono, ma erano quelle sbagliate. Quelle della rabbia. E senza pensarci su rifilai un cazzotto a questo mio amico. Non era della mia combriccola, ma era sempre un coetaneo e compaesano. Lo presi sul collo. Forse lui schivò o forse in un ultimo barlume di lucidità deviai il pugno dal naso verso zone meno pericolose. 

Io poi ero (e sono) basso e lui era abbastanza alto. Mi urlò contro, mi diede uno spintone, ma non rispose al cazzotto. Io invece ero di nuovo pronto col pugno chiuso. Forse in cuor suo sapeva che era stato un po’… un po’ poco delicato. E la cosa finì lì. Perché Pantani era anche suo. Pantani era di tutti.

Christina: gli amici, la moto ed eravamo felici

13.01.2021
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Christina saltò fuori quando Marco era alle prese con la rieducazione della gamba. Bionda, danese, i capelli corti e poche parole. La prima volta che la vedemmo, arrivarono insieme sulla moto. Una Harley Davidson color panna, che parcheggiarono davanti alla spiaggia. Lei andò a distendersi sul lettino, mentre Marco, che al mattino si era allenato, ci concesse un’intervista prima del meritato riposo.

Rispetto alle compagne di tanti corridori, Christina non la vedevi mai alle corse. Al contrario, era frequente incontrarla al chiosco di Tonina, dove lavorava con il grembiule bianco e il cappellino girato sulla testa. Quando Marco parlava di lei, il più delle volte sorrideva. Il giorno in cui ci raccontò del viaggio in auto per accompagnarla dai genitori in Danimarca, aveva lo sguardo della grande impresa. Le voleva davvero bene.

A un tratto però la storia si interruppe. Gli amici dicevano che anche lei gli volesse ancora bene, ma che si fosse arresa alla situazione. Si trasferì a Ravenna, poi in Svizzera e ora in Danimarca. A lungo è sparita. Non ha detto o scritto nulla su Marco, come avendo una ferita da guarire. Poi di colpo l’anno scorso è tornata dal silenzio. Non era scontato che accettasse di rispondere alle nostre domande, però lo ha fatto. E per questo le siamo grati, nel giorno in cui Marco avrebbe compiuto 51 anni.

Marco Pantani
La popolarità di Marco a un tratto ha iniziato a limitare la vita privata
Marco Pantani
La popolarità a un tratto ha limitato la vita privata
Quando hai conosciuto Marco, sapevi che era un ciclista?

Ci aveva presentato un amico comune, che evidentemente aveva visto dei punti di contatto. Mi disse che era un ciclista e che era molto forte. Stava recuperando da un incidente, era fermo e stava soffrendo. Ma a cose normali, mi disse, è molto forte. A quel tempo non avevo idea di cosa fosse il ciclismo, non ne sapevo nulla. Dunque per me, lui poteva essere una sorta di artista. Come un artista di strada.

Marco era tanto diverso da Pantani?

Fare una distinzione fra Marco e Pantani è interessante. Allora, direi che forse non conoscevo Pantani, non so se l’ho mai incontrato. Io mi sono relazionata sempre e unicamente con Marco. Pantani lo vedevo agire, parlare, pedalare, gestire, ma anche Marco era così. Magari Pantani era il Marco guerriero, almeno all’inizio. Poi è diventato una sorta di marca, un brand, un’immagine, un personaggio pubblico. E io stavo alla larga il più possibile dal personaggio pubblico. Perché era una figura molto invadente, che si rifletteva dappertutto intorno a noi.

Che cosa lo rendeva felice nella vita di tutti i giorni?

Marco era felice con poco. I buoni allenamenti. Il riposo. Un piccolo giro in macchina. E l’estate girare in moto. Incontrare degli amici. Mangiar bene, ma poco. Le cose semplici. Con il crescere del successo e la celebrità, muoversi liberamente in paese e tra gli amici stava diventando meno rilassante, per cui girare in moto era diventato una buona soluzione.

Christina è mai stata gelosa della bicicletta? 

Sì e no. Di base non ero gelosa perché lui era bello quando usciva ad allenarsi e pedalare lo rendeva felice. Avevano un rapporto intimo e sereno, lui e la bicicletta. Poi col tempo è sembrato che fosse la bici a lasciarci poco tempo. Insomma poco tempo per stare sereni insieme.

Christina Joensson, Marco Pantani
Christina e Marco, a lungo una coppia affiatata
Christina Joensson, Marco Pantani
Christina e Marco, una coppia affiatata
Era difficile avere la vostra privacy? 

Quasi sempre, ogni volta per ragioni differenti. E ogni anno è stato sempre più difficile.

Oggi le compagne dei corridori sono sempre alle corse, come mai tu sei andata poche volte?

Marco non mi voleva. Soffriva di gelosia e credo avesse paura che la mia presenza alle corse potesse destabilizzarlo. Ora che ci penso, non so se il fatto di lasciarmi sempre a casa sia stato un consiglio da parte di persone intorno a lui o se Marco preferisse così per non correre rischi. Non lo so. So che lui era cresciuto e si allenava in una sorte di old-school del ciclismo, con un approccio abbastanza severo. So che a lui piacevano la concentrazione, la fatica e il recupero. Ne aveva bisogno tutti i giorni e ancora di più durante le corse. Aveva bisogno di gestire la sua squadra, sentire tutto e tutti intorno a lui, essere sempre pronto e in ascolto. Dunque forse sarei stata di troppo. E poi bisogna anche riconoscere che non avevo grande interesse nelle corse, il ciclismo non mi appassionava. Avevo un lavoro e più avanti anche gli studi. Eppure nel corso degli anni, mi sarebbe piaciuto partire qualche volta con lui. Vederlo andare via da casa era spesso molto difficile. A pensarci bene, era una sofferenza per entrambi.

Come festeggiavate di solito il suo compleanno?

L’ho dimenticato. Dal 2004, il giorno del suo compleanno è stato una sofferenza quasi impossibile. Ma ora sto scrivendo le mie memorie e magari i ricordi torneranno. Dopo il progetto d’arte “Espace d’art Saint-Valentin” che si trova a Losanna, ho incominciato a sentire il bisogno di scrivere.

Quali regali piacevano a Marco?

Marco non voleva dei regali. Gli bastava un niente. Un sorriso, un abbraccio.

Che cosa ti manca di più di lui?

E’ impossibile a rispondere questa domanda. Diciamo che, per dare comunque una risposta, non è il ciclista che mi manca.

Giro d'Italia 1998

Ecco perché farebbe tremare anche la Ineos: parla Velo

13.01.2021
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Velo non ha dubbi: «Anche oggi, con l’organizzazione di squadre come il Team Ineos, uno come Marco li farebbe morire. C’è riuscito Contador, figuratevi il Panta».

Il fruscio di fondo non lascia spazio a dubbi: Marco è in bici. Dice che ci sono due gradi, ma anche un timido sole. E in attesa di tempi migliori, quei due raggi tra le nuvole sono stati un invito irresistibile.«Ma ho gli auricolari – dice anticipando la domanda – parliamo pure».

Freccia Vallone 1998
Per Marco Velo nel 1998, le Ardenne e il Giro d’Italia
Freccia Vallone 1998
Per Marco Velo nel 1998, le Ardenne e il Giro d’Italia

Al Trentino del ’97

E allora partiamo in questo allenamento blando fra ricordi e pensieri con l’ex corridore che proprio Pantani andò a cercare, disegnando la Mercatone Uno per l’anno successivo, e che oggi fa parte dello staff di Rcs e corse e tappe nella memoria inizia ad averne tante.

«Eravamo al Giro del Trentino – racconta – e avevo appena vinto la tappa di Lienz, che era dura impestata, battendo Zaina, Piepoli, Belli e Faresin. Mi venne vicino durante la corsa e mi disse che stava pensando di rinforzare la squadra. Buttò lì due parole per capire se mi interessava venire via dalla Brescialat. Io non avevo tanto da pensarci perciò dissi di sì, anche se per sentire tutto parlai anche con Martinelli e Pezzi. Ai tempi funzionava così. Il capitano era libero di avvicinare i corridori che avrebbe voluto ingaggiare. Purtroppo adesso non va così. C’era un rapporto molto più umano e senza tanti filtri. Vuoi mettere come mi sentii gratificato a ricevere una proposta come quella? E questo fece sì che si creasse sin da subito un legame fortissimo».

Il treno del Panta

Ne abbiamo parlato nei giorni scorsi con Sabatini e Guarnieri prima, con Tiralongo poi. Il treno per il velocista e il treno per lo scalatore. La squadra di Marco a partire dal 1998 diventò una corazzata.

Tour de France 1998
Scherzi con Borgheresi nell’ultima tappa del Tour 1998
Tour de France 1998
Scherzi con Borgheresi nell’ultima tappa del Tour 1998

«Marco era ed è il ciclismo – prosegue Velo – essere il suo ultimo uomo ti metteva su un altro pianeta di responsabilità. Sono stato anche l’ultimo uomo di Petacchi, ma era diverso. Sapevi che a parte qualche imprevisto, dovevi fare solo il finale. Con Marco c’erano molte più variabili. E quando però arrivavi al dunque, eri quello che faceva l’ultimo passaggio, l’assist per Maradona o Messi nella finale di Champions League. Mi sentivo partecipe, era la causa comune. Anche se magari ti trovavi a gestire situazioni tattiche completamente diverse, rispetto a quelle che avevamo studiato e condiviso. Se l’istinto gli diceva di andare, raramente non lo assecondava. E di solito aveva ragione lui. Mai visto un attacco a vuoto del Panta».

Tutto sul gruppo

La Mercatone Uno raggiunse livelli di potenza e affiatamento che negli anni successivi, attorno a uno scalatore, avrebbero raggiunto la Saxo Bank di Contador e l’Astana di Nibali.

Davide Dall'Olio 1997
Dall’Olio in squadra dopo l’incidente del 1995: fu Marco a volere lui e Secchiari
Davide Dall'Olio 1997
Fu Marco a volere Dall’Olio (sopra) e Secchiari dopo l’incidente del 1995

«Per questo dico – prosegue – che ne avrebbe avuto per far saltare anche gli schemi Ineos. Perché non era un solista contro tutti, era la nostra corsa e gli altri a inseguire. Eravamo forti. Partivamo prima di Natale da Madonna di Campiglio, mentre gli altri erano alle Canarie. Non andavamo a perdere tempo, a casa ci eravamo allenati già tutti. Si andava su quei tre giorni a fare una cosa che ora va tanto di moda. Il team building, che in italiano si dice fare gruppo. Ed è vero che ai tempi si parlava tanto dei percorsi troppo facili a favore dei cronoman, ma quelli dopo Indurain iniziarono a sparire e tutto sommato a Marco per vincere bastavano le salite. Di tutti i tipi, quelle lunghe, ma anche quelle corte da fare a tutta con le mani sotto».

La tattica giusta

Velo ragiona ad alta voce e intanto pedala. «Avendo una squadra come la Mercatone Uno del 1999 e avendo ovviamente anche il Panta – dice – si potrebbe davvero far saltare la Ineos. Loro corrono a sfinimento, facendo un ritmo che impedisce gli scatti, ma si potrebbe sorprenderli tatticamente.

«Potresti fare il ritmo alto, rischiando di perdere i tuoi uomini. Loro hanno per gregari dei vincitori di Giro e di Tour, noi avevamo Garzelli, che aveva vinto il Giro ma singolarmente non eravamo così forti. Ma se c’è spirito di squadra, e noi ne avevamo da vendere, si può fare. Se tiri forte per fargli fuori sulla prima salita gli uomini delle pianure, quando Marco attacca e si porta dietro qualcun altro, nella valle successiva, loro devono far tirare gli scalatori. E allora magari sulla salita successiva il leader è un po’ più solo. Ma queste sono cose che potevi fare soltanto con un Marco in condizione, oppure il Contador degli ultimi anni».

Gli urli di Oropa

Secondo Velo, che intanto continua a pedalare accrescendo la voglia di farlo anche di qua dall’apparecchio, il capolavoro di squadra lo fecero a Oropa. Che sarebbe anche facile da dire, se non fosse che dopo l’arrivo Marco prese fiato e li mise tutti sugli attenti.

«Esatto – conferma – è facile dire Oropa, anche perché la fanno vedere spesso. In realtà prima di allora ci sono state tante situazioni, come tutto l’avvicinamento al Giro del 1999 dove Marco raggiunse un livello di condizione eccezionale. E comunque quel giorno avevamo fatto tanto lavoro per prendere la salita davanti e pensai che per uno stupido problema meccanico, rischiavamo di perdere tutto. Marco era dietro di me, ma io non avevo capito niente. Mi girai con la coda dell’occhio per controllare che fosse tutto a posto e non lo vidi. Fu uno della Saeco, mi pare Petito, a dirmi che si era fermato. Avrei voluto girare per tornare indietro, ma è vietato, così lo aspettammo. La rimonta l’avete vista, ma dopo l’arrivo si arrabbiò con me e con Zaina perché ci eravamo messi a tirare con troppa foga, volendo riportarlo sotto. Non c’erano le radioline. Lui urlava probabilmente per dire di andare regolari e io, in piena trance agonistica, continuavo ad aumentare. Ci disse che, ogni volta che uno di noi si spostava, lui doveva aumentare. E così avevamo rischiato di mandarlo fuori giri. A parte quella volta, che c’era una sola salita e anche durissima, Marco non ti metteva in difficoltà soltanto nei finali. Quando trovi uno così che ti va via a 30 chilometri dall’arrivo dopo averti tirato il collo, hai poco da controllare. Certo sarebbe difficile, ma sarebbe ancora uno spettacolo».

Alfredo Martini, Ilario Biondi, Marco Pantani

Ilario Biondi, il mio Marco attraverso la reflex

13.01.2021
6 min
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«La foto che in tanti anni mi ha dato più emozioni – dice Ilario – fu quella del podio di Parigi con Gimondi. La foto più facile che ci sia. Scattavo e pensavo: cavoli, questa è storia. L’Italia non vinceva il Tour dal 1965 e io ero lì ai piedi del podio, con Marco e Felice. Poi partì l’Inno di Mameli e… Ancora adesso a raccontarlo mi emoziono!».

Marco Pantani, Les Deux Alpes, Tour 1998
Sul Galibier nel 1998 la bordata decisiva a Jan Ullrich
Sul Galibier nel 1998 la bordata decisiva a Jan Ullrich
Sul Galibier nel 1998 la bordata a Jan Ullrich

Ilario Biondi ha 62 anni e dal 1983 fotografa ciclisti e corse. Somiglia a Robin Williams, tanto che quando lo incontrammo al Tour de France, anche l’attore americano ne rise. Il pizzetto e i capelli ingrigiti, giornalista fin nel profondo, per i primi trent’anni ha scattato foto per Bicisport, poi ha intrapreso una nuova strada assieme all’amico Roberto Bettini. A pochi altri Marco Pantani concesse le stesse aperture.

Quando sentisti parlare di Marco per la prima volta?

Nel 1990, al Giro d’Italia, l’anno che i dilettanti correvano sullo stesso finale dei professionisti. Sergio Neri, che è di Rimini, mi suggerì di fare un po’ di foto a questo ragazzino che poi sarebbe arrivato terzo. Ricordo la foto di Sacromonte, con lui, Belli e Gotti seduti su un gradino. Sembravano tre bambini. A pensare a quella foto, forse Belli è stato quello che ha vinto meno, ma se c’era qualcuno in gruppo con cui Marco parlava volentieri, quello era proprio Wladimir. Marco stava con i compagni, con Belli e Cipollini. Il primo contatto vero fu però nell’inverno del 1992, dopo la vittoria del Giro dei dilettanti, quando andammo insieme a Cesenatico. Sulla spiaggia, sulle barche dei pescatori, al ristorante da Franciosi fingendo di cucinare le tagliatelle…

Impossibile da dimenticare. Per non parlare di Agrigento…

Esatto, ai mondiali. Martini lo aveva messo in camera con Chiappucci, magari qualche anno dopo non lo avrebbe più fatto. Comunque entrai in camera che aveva appena finito di depilarsi le gambe con la lametta e siccome capì che sarebbe stata una foto simpatica, accettò si rimettersi addosso la schiuma e finse di radersi. Era davvero un altro modo di lavorare, adesso sarebbe quasi impossibile…

Com’era davanti all’obiettivo?

A suo agio, sin da subito. La timidezza spariva, perché Marco era timido. Ho sempre detto che soltanto due corridori trasformavano anche la foto più banale in un capolavoro. Lui e Armstrong. Gli altri, da Bugno a Nibali, non hanno mai avuto la stessa intensità nello sguardo.

Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998
Tour 1998, sul podio con Gimondi: ultimo italiano in maglia gialla nel 1965
Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998
Tour 1998, sul podio con Gimondi: ultimo italiano in maglia gialla nel 1965
Che tipo di rapporto c’era fra Marco e Ilario?

Privilegiato, forse per come mi sono sempre comportato o perché lo seguivamo da tanto. Mi ha permesso di fare foto che nessuno ha mai fatto. In camera. Sul camper durante il Tour. Mi bastava incrociare il suo sguardo per capire se potevo avvicinarmi e di quanto. Ti ricordi la sera del 1998 sul lago a Fois?

Aveva appena vinto a Plateau de Beille, serata tiepida fuori dall’hotel…

Quelle sono situazioni che abbiamo vissuto perché si fidava. Feci tre scatti senza rompere oltre e Marco capì. Se mi fossi messo a scattare in continuazione, sarei stato un fastidio. Invece ci mettemmo lì a parlare di pesca e altre cose, tranquilli, recuperando dopo una tappa dura.

Quali sono le foto che ricordi più volentieri?

Del podio di Parigi abbiamo già detto. Poi la foto in curva con l’acqua sull’Alpe d’Huez. Quindi i momenti in camera, quando ci divertivamo a inventare le pose. Dal cuscino infilato nella maglia rosa a quando scelse lui il modo di lanciarla a Garzelli nel 2000. Mi sono sentito un privilegiato. 

Cambiò qualcosa dopo la vittoria del Tour?

Nel 1999 era un Pantani diverso. Sembrava onnipotente, ma conoscendo il suo carattere si vedeva che lo faceva per difendersi. Era meno sciolto dell’anno prima, pensa a quante pressioni aveva. Sportivamente era Dio. Ma si allenava tanto. Nel giorno in cui lo seguimmo in allenamento a Terracina, si prestò per tutte le foto e poi quando i compagni rientrarono, lui fece altre due ore da solo. Al ritorno, in hotel trovò Pezzi e Gimondi.

Marco Pantani, Giro d'Italia 2003
La caduta nella discesa del Sampeyre fu un colpo davvero durissimo
Marco Pantani, Giro d'Italia 2003
La caduta nella discesa del Sampeyre fu un colpo davvero durissimo
Giro d’Italia 1999, tappa del Gran Sasso…

Ero accanto a lui sulla moto quando scattò. Mise le mani sotto, si alzò sui pedali e buona notte a tutti. Quando si trattò di scendere, era circondato da 2-3 carabinieri che dovevano scortarlo verso la funivia. Io intuii il movimento e mi infilai dietro e salii assieme a loro. Marco mi vide, non potevo starci, ma non disse nulla. C’era anche Fontanelli, che gli chiese: «Panta, ma come hai fatto?!». Lui lo guardò e mimò il gesto di dare gas alla moto.

A Campiglio, infine…

Fu drammatico. Andai su molto prima rispetto al solito, perché ci attendeva una tappa cruciale. E al centro del Villaggio vidi due signori in un angolo: Neri e Cannavò. «Pantani non parte», disse Neri. Mi misi a correre verso il Touring seguito da Claudio Di Benedetto. E per non fare il giro largo, mi misi a scavalcare muretti e aiuole. Arrivammo su e vedemmo gente che piangeva. Ricordo Veneziano, il meccanico. Aspettammo tantissimo, finché un giovanissimo Andrea Agostini gestì la famosa conferenza stampa.

Tutto il giorno sotto all’hotel, aspettando?

A un certo punto vidi Giannelli che si allontanava portando in mano i tesserini dei corridori. Gli chiesi: «Ale, dove vai?». Mi rispose che andava da Castellano. Lo seguii, andò a comunicare che la squadra non sarebbe ripartita. La cosa singolare è che a Campiglio tornammo quello stesso inverno per un ritiro e ricordo una serata con Magrini che cantava…

Molino Rosso di Imola, servizio fotografico da rifare…

Neri faceva dei servizi in cui metteva a tavola Martini con un altro personaggio e quella volta toccò a Marco, Campiglio era già successo. Si presentò tardissimo, ma fu disponibile. Il guaio fu che quando tornai a Roma, mi resi conto che le foto non erano venute. Si trattava di rifarle, di convincere Martini e portare Marco. Onestamente non credevo che sarebbe venuto, ma clamorosamente andò in porto. Forse fu il suo modo di darmi una mano.

Giro d'Italia 1998, Marco Pantani, Ilario Biondi
Fine Giro 1998, Pantani in rosa si presta per le foto di rito. Qui con Ilario Biondi e il motociclista Volterra
Marco Pantani, Ilario Biondi, Carlo Volterra
Fine Giro 1998, Pantani e le foto di rito. Qui con Ilario Biondi
Nel frattempo lo sguardo cambiò?

Non direi. L’unica volta che lo vidi quasi perso, con le lacrime agli occhi, fu nella caduta del Sampeyre. Mi fece male vederlo cadere e stare lì fermo con quell’asciugamano sulle spalle, mentre Amadori lo pregava di non ritirarsi. Era come se fosse crollato tutto, era nei 10 e finì fuori classifica. Gli era costato tanto arrivare sin lì…

Ilario, ti ricordi del funerale?

Una situazione che non avrei voluto vivere. Entrai in chiesa e mi trovai davanti Tonina che urlava, una scena che mi ha straziato, quello che ricordo di più e che mi ha segnato. C’era una marea di gente e anche quel residence… Non mi capacitavo che potesse essere finito così.

Ti ricordi che bello quando rideva?

A proposito di ridere… Arrivo delle Deux Alpes, Marco si stava prendendo il Tour. Era buio pesto e avevo soltanto una pellicola Fuji 100 asa, scattavamo in diapositiva al tempo. Quella foto sarebbe entrata nella storia. E così per evitare che venisse completamente buia, decisi di tirare la pellicola di 2 stop e mezzo. Non lo avevo mai fatto in vita mia, praticamente scattai a 640 asa. Feci tre foto. Quando tornammo a Roma, andai da Ernesto al laboratorio e gli chiesi se avesse mai sviluppato una pellicola tirata a quel modo. Lui disse di sì e che comunque sarebbe stato attento. Vennero tre foto perfette. Marco non era uno che faceva tanti festeggiamenti sul podio, ma quella volta urlò come un pazzo.

Fabrizio Borra, Fernando Alonso 2012 (foto Motori Online)

Borra, l’angelo custode di Moschetti

28.11.2020
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Fabrizio Borra saltò fuori nel mondo del ciclismo tra il 1995 e il 1996. Caschetto nero, slang mezzo americano sull’accento romagnolo, raffiche di mille parole al secondo. Ma soprattutto mise le mani su quello che un tempo era insieme un amico ferito e il messia del ciclismo italiano: Marco Pantani nei mesi successivi all’incidente di Torino. I pomeriggi con loro nel vecchio centro di Forlì a fare rieducazione in acqua riempivano gli occhi. E anche se quelle immagini sono rimaste negli archivi di un tempo, nulla potrà portarsi via il ricordo e il rapporto costruito negli anni.

L’uomo delle stelle

Da allora Borra è diventato una sorta di salvatore degli atleti feriti e intanto si dedicava alla preparazione fisica di Jovanotti, prima dei concerti, e allo stato di forma di Fernando Alonso, quando lo spagnolo era ancora un riferimento in Formula Uno (i due sono insieme nella foto d’apertura di Motori Online). Rimase persino… impigliato nella squadra che Alonso avrebbe voluto fare con Paolo Bettini, ma questa è un’altra storia.

Matteo Moschetti, giorno di riposo, Vitoria, Vuelta Espana 2020
Matteo Moschetti un caffè nel giorno di riposo della Vuelta a Vitoria
Matteo Moschetti, giorno di riposo, Vitoria, Vuelta Espana 2020
Moschetti, un caffè alla Vuelta nel giorno di riposo

Arriva Moschetti

Più recentemente di Borra abbiamo parlato con Matteo Moschetti, reduce a sua volta dalla frattura dell’acetabolo del femore destro rimediata il 7 febbraio all’Etoile de Besseges. E quando, riferendosi sua rieducazione, Fabrizio ha detto che non fosse niente di troppo complesso per un ciclista, ci è venuta voglia di chiamarlo.

«A livello clinico ero guarito – aveva detto Moschetti – però mi mancava la condizione per tutte quelle settimane immobile. Non ho dolori, manca un po’ di forza e ho la sensazione che la muscolatura del gluteo destro si affatichi più del sinistro».

Comanda la testa

Borra va subito al sodo. Per cui dopo averci raccontato l’evoluzione nel mondo della riabilitazione, con gli europei che hanno superato i maestri americani, spiega perché a Moschetti è andata tutto sommato bene.

«Quando si subisce una frattura come quella – dice – e poi si riprende, il rischio è uno solo: che il corpo netta in atto quelle famose compensazioni che lo spingono a sostenere con la parte sana il carico di quella ferita. La sensazione che la muscolatura del gluteo destro si affaticasse più dell’altra deriva proprio da questo. Non si tratta di un fatto ortopedico, perché nel frattempo la scienza è andata avanti a studiare certi fenomeni. Ed è venuto fuori, come si era sempre intuito, che il vero problema sia a livello del cervello. Banalizzando, è la testa che determina certe compensazioni. Per cui quello che si è fatto con Matteo è stato essenzialmente impedire al suo cervello di farci lo scherzetto».

Centro Phisiology Fabrizio Borra Forlì
La piscina del centro di Borra a Forlì che si chiama entro Fisiology
Centro Phisiology Fabrizio Borra Forlì
La piscina del centro di Forlì

Tempi eroici

La rilettura dell’intervista di Moschetti assume ora un altra sfumatura. Soprattutto laddove il milanese parla delle attenzioni osservate alla Vuelta, nel fare stretching per curare il bilanciamento fra destra e sinistra. Prima di finire fuori tempo massimo per pochi secondi Villanueva de Valdegovia, settima tappa.

Borra sorride, perché quel tipo di lavoro glielo ha suggerito lui, non potendo completare il lavoro in palestra.

«E’ stato però buono poterlo seguire dall’inizio – riprende – perché di fatto è arrivato che non camminava. E’ salito sui rulli e poi è tornato a pedalare sotto stretto controllo. Intanto era quasi marzo e l’Italia iniziava a chiudere. Un mio amico gli aveva prestato un piccolo appartamento vicino al Centro e mio figlio e mia moglie lo accompagnavano avanti e indietro e anche a fare la spesa. E’ un peccato non essere riusciti a finire il lavoro perché a un certo punto è dovuto andare a casa, ma credo che averlo preso prima che quegli adattamenti si verificassero ha permesso di abbreviare la sua ripresa. Quello che gli è mancato è stato semmai un problema di preparazione, ma l’attenzione al fatto che restasse simmetrico gli ha permesso di rientrare. Ormai rispetto a tante tematiche siamo super avanti. Il lavoro con Marco, la stessa attenzione a evitare posture scorrette, il lavoro in acqua… mi rendo conto che eravamo davvero dei pionieri. Oggi quello che una volta si faceva in modo quasi empirico è molto più schematizzabile. Per questo ho parlato di un infortunio serio ma non impossibile da gestire.

Dopo l’ultimo controllo di una decina di giorni fa, ci ha scritto Moschetti: Borra gli ha detto che è dritto e pronto a iniziare il lavoro invernale. E allora che l’inverno abbia inizio…

Marco Pantani, Piancavallo, Giro d'Italia 1998

Pantani, a Piancavallo quel giorno…

18.10.2020
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Pantani ha Lago Laceno che brucia ancora nell’orgoglio. Zulle l’ha staccato e questo non gli è andato giù. Non vince al Giro d’Italia dal 1994, da quasi 1.500 giorni, perché dopo quel giorno ad Aprica la sfortuna ha infierito su di lui con una puntualità cinica e spietata. L’incidente del primo maggio nel 1995. Il Giro del 1996 saltato per la gamba spezzata l’anno prima. Il gatto nero del 1997. E siamo dunque al 1998, iniziato con una vittoria a Murcia davanti a Elli e Vinokurov. La Mercatone Uno è tutta per lui e poco importa che il giorno dopo ci sarà la cronometro di Trieste. Il Pirata vive un giorno per volta. E oggi il Giro affronta Piancavallo e c’è l’arrivo in salita. Noè l’ha anticipato nella sua San Marino, ma qui oggi c’è da mettere il punto.

Mercatone in testa

La tappa misura 165 chilometri, si parte da Schio. Noè ha la maglia rosa, il suo capitano Michele Bartoli ha vinto a Schio proprio alla vigilia. La Mercatone Uno si defila, ma quando serve prende la testa.

Marco Pantani, Piancavallo, Giro d'Italia 1998
Marco Pantani conquista Piancavallo: è il Giro d’Italia 1998
Marco Pantani, Piancavallo, Giro d'Italia 1998
Pantani conquista Piancavallo: è il Giro 1998

Pantani al Giro d’Italia è come Maradona nella finale dei mondiali. L’Italia si ferma e ne ha motivo. Quando in corsa c’è il Panta e la strada va in salita, è sicuro che lui farà il suo show. Che non è come le smorfie di Virenque o le fughe di Coppolillo. Quando Marco getta via la bandana e mette le mani sotto, significa che sta per attaccare i primi della classifica. Loro lo sanno e si attrezzano per capire come possono per rispondergli. L’anno prima sull’Alpe d’Huez ha spezzato la resistenza di Ullrich e Virenque, mentre Indurain ha smesso di correre da un paio di stagioni e anche lui quel giorno sul Mortirolo capì che sarebbe stato meglio girarsi dall’altra parte e lasciarlo passare.

Il solito Marco

Marco è sempre lo stesso che d’inverno si diverte con i rollerblade nelle strade coperte di foglie a Cesenatico. Che canta al karaoke con gli amici. Che si ferma ogni giorno a mangiare una piada al chiosco di Tonina. E che se glielo chiedi viene anche a provare le salite del prossimo Giro, solo perché glielo hai chiesto tu che gli fai simpatia. Dicono che sia magro per vincere un Giro, ma quando adesso la telecamera lo inquadra da dietro, i glutei e il quadricipiti dicono esattamente il contrario. Il ragazzino dei primi anni è cresciuto e quando a 12 chilometri dall’arrivo va all’attacco, si capisce che non ci sarà fumo ma soltanto arrosto.

Via il cappello

Il cappellino vola via. Garzelli ha quasi finito la sua spinta e Marco scatta. Zulle è orgoglioso. Lago Laceno per lui è stato la dimostrazione di una qualche forma di superiorità elvetica sul piccolo italiano. A ben vedere, l’errore dei passisti con Marco è sempre stato lo stesso. Nell’era in cui a supportare la fatica dei più pesanti intervengono altri fattori, la sensazione di onnipotenza dettata dai super watt ha indotto tanti nella tentazione di rispondere. E così succede anche questa volta.

Zulle risponde, ma poco dopo apre la bocca e le gambe. Tonkov invece no, perché il russo è a suo modo uno scalatore. Ha vinto il Giro del 1996, senza Pantani. E’ arrivato secondo l’anno dopo dietro Gotti, senza Pantani. E questa volta vuole battere il colpo contro quel rivale, evocato come un fantasma per ridimensionare ogni sua impresa.

Piancavallo, cartello Marco Pantani 1998
Piancavallo è da quest’anno una “Salita Pantani”
Piancavallo, cartello Marco Pantani 1998
Piancavallo è da quest’anno una “Salita Pantani”

Pantani da solo

Ma oggi Marco vuole arrivare da solo. Così scatta ancora. Scatta ancora. E scatta ancora. Tonkov più o meno resiste. Zulle soffre. Gotti si aggrappa al suo numero uno pregando di non cedere. I tifosi esplodono, il gruppo si è sbriciolato. L’arrivo sulla montagna friulana arriva rapido, perché alla fine la strada spiana e il vantaggio smette di crescere. Marco vince e cancella Lago Laceno. Tonkov arriva a 13 secondi, ripreso da Zulle proprio nel finale meno ripido. 

La classifica non si è smossa di molto. Zulle riprende la maglia rosa e guarda già alla cronometro del giorno dopo a Trieste. L’indomani il passivo di Marco sarà di 3’26”, ma poco importa. A Piancavallo il Panta ha capito che in montagna potrà affondare i denti. La Marmolada è in fondo alla strada. La storia della maglia rosa sta per essere riscritta. 

Sono passati più di vent’anni, ormai se ne può parlare. Chi scrive aveva perso il papà da cinque giorni, non aveva testa per il Giro. La sera di Piancavallo il telefono squillò inatteso. Era Marco. «Spero – disse – che questa vittoria ti sollevi un po’ il morale. Si vince il Giro, adesso ne sono sicuro».