Mont Ventoux, una sola vittoria italiana: 25 anni fa con Pantani

22.07.2025
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MONTPELLIER (Francia) – Solo dieci volte nella lunghissima storia del Tour, la corsa si è conclusa sul Mont Ventoux. E nell’albo d’oro del monte caro al Petrarca figura soltanto un nome italiano: quello di Marco Pantani (anche Marta Cavalli ha vinto lassù nel 2022 nella Mont Ventoux Denivele Challenge).

Accadde il 13 luglio del 2000, venticinque anni fa, ed è uno di quei ricordi da cui speriamo di non separarci mai. C’era un vento che strappava gli striscioni, tanto che quello di arrivo fu messo via per paura che volasse. La sala stampa era sulla cima, in un tendone e non a 17 chilometri come accadrà oggi. C’era l’imbattibile Armstrong che nel 1999 aveva vinto il primo Tour. C’era anche la fiducia irrazionale, che viveva da qualche parte nel nostro petto, che il Pirata sarebbe tornato. E quel giorno infatti, come è vero Dio, Marco tornò.

Chiudiamo gli occhi e rivediamo i flash della giornata. Si parte da Carpentras e al via c’è Robin Williams. L’immenso attore saluta Ilario Biondi, riconoscendo la somiglianza, e gli sussurra ridendo che potrebbero essere fratelli. Poi la corsa parte e Marco, che in classifica viaggia con un ritardo abissale di 10’34”, si stacca ancora una volta. Tuttavia questa volta, anziché sprofondare, resta lì con la sua fatica. Il tempo di inquadrare la fuga e lo vediamo spuntare nell’inquadratura alle spalle della fuga, dove la montagna si espone al vento. A quel punto noi siamo già sulla cima, cercando di seguire la corsa da uno schermo montato al riparo di un furgone. Di colpo da dietro si muove Armstrong che ha visto staccarsi Ullrich e ne approfitta, arrivando a doppia velocità.

A Carpentras, l’incontro fra Robin Williams e Ilario Biondi
A Carpentras, l’incontro fra Robin Williams e Ilario Biondi

Lo prende e fa per staccarlo, ma non lo stacca. Ci riprova e non si capisce se non affondi il colpo o se l’altro piuttosto che lasciarlo andare abbia scelto di morire sulla bici. E quando infine si tratta di fare la volata, Pantani vince e Armstrong dichiara di avergliela regalata. Non dichiara ciò che su quei giorni emergerà dalle indagini, che hanno portato alla cancellazione dei suoi risultati. Forse è stato meglio che quel giorno abbia vinto Pantani, altrimenti il Ventoux avrebbe avuto soltanto nove vincitori su dieci arrivi in cima.

In bici con Siboni

Noi c’eravamo, ma meglio di noi visse la corsa Marcello Siboni, lo storico gregario di Pantani, che quel giorno chiuse la tappa a 11’23” dal suo capitano. Il compagno di allenamenti e zingarate dai tempi della Carrera, era stato schierato in quel Tour perché oltre a uomini forti, sarebbero servite anche persone capaci di stargli accanto. Il giorno di Campiglio aveva ancora strascichi profondi. Il risveglio di fine Giro, quando Marco spianò la strada di Garzelli verso la maglia rosa, aveva riacceso le speranze, ma niente era più splendente come prima.

«La tappa del Ventoux – ricorda – veniva dopo il giorno di riposo. Eravamo partiti per il Tour con Marco al 75-80 per cento della condizione. Poi col passare dei giorni iniziammo a renderci conto che si stava mettendo a posto, ma nulla aveva potuto fare per evitare la batosta di Hautacam (il romagnolo perse 5’10” da Armstrong, ndr)».

Marcello Siboni, classe 1965, è stato pro’ dal 1987 al 2002. Oggi ha la sua officina a Cesena e si occupa di riparazioni
Marcello Siboni, classe 1965, è stato pro’ dal 1987 al 2002. Oggi ha la sua officina a Cesena e si occupa di riparazioni

«Cominciò a guardarlo – prosegue Siboni – e a pensare che fosse un extraterrestre. In più quel giorno aveva anche piovuto, quindi era stata una giornata un po’ particolare e la sera Marco era demoralizzato. Sapeva che la sua condizione non fosse al 100 per cento, ma sperava che il carattere gli bastasse per colmare le differenze.

«Non aspettava altro che battersi con Armstrong – prosegue Siboni – che aveva vinto il Tour dell’anno prima senza che noi ci fossimo per difendere la vittoria del 1998. L’americano era il favorito, ma quando partimmo, l’idea era quella di sfidarlo ancora».

La tigna del Pirata

La tappa ha una serie di salitelle nell’avvicinamento al Mont Ventoux, in quel dedalo di strade, canyon e stradine della campagna provenzale così morbida e poi di colpo pietrosa. Nessuno prova a fare chissà quale selezione, per cui fatta salva la fuga di giornata, il gruppo arriva compatto nella zona di Bedoin.

«Il gruppo era bello nutrito – ammette Siboni – e lui come al solito era indietro. E’ sempre stato il suo modo di essere e del resto nessuno quel giorno si aspettava che potesse succedere qualcosa di bello. Però l’avete conosciuto anche voi: spesso diceva una cosa e ne faceva un’altra. Quindi magari non disse nulla, ma dentro di sé sperava di fare qualcosa. Solo, per come era andato sulle salite precedenti, era difficile crederci. Invece con la tigna che ha sempre avuto, si staccava, si riprendeva e poi tornava sotto. Quella tappa fu l’espressione massima di Marco: cioè di uno che non molla mai, a costo di arrivare morto».

«Finché a un certo punto è andato via e dopo un po’ abbiamo visto andare via anche l’americano. Magari è vero che l’ha lasciato vincere e Marco non era contento, perché lui lo voleva staccare. Ma quando l’altro si è messo a dire di avergli fatto un regalo, Marco si è imbestialito. Cosa dici certe cose? Se anche fosse, tienile per te…».

L’istinto contro il calcolo

Si passa in poco meno di due ore dalla gioia per la vittoria al fastidio per le parole di Armstrong. Marco è contento, sono tutti felici per il ritorno alla vittoria dopo quella maledetta tappa di Madonna di Campiglio che aveva segnato l’inizio della fine. Quando gli dissero che non avrebbe dovuto vincere così tanto: chissà se a Pogacar qualcuno l’ha mai detto. Probabilmente no.

«Dentro di lui covava il malumore per le parole di Armstrong– ricorda Siboni – e la sua voglia di batterlo è letteralmente esplosa. Per questo a Courchevel lo staccò, per quella cattiveria di cui solo lui era capace e che gli è cresciuta dentro. A Courchevel forse non era il vero Marco, ma nemmeno era da buttare via. Due giorni dopo cercò di sbancare tutto con la fuga di Morzine, perché di colpo credevamo di nuovo che si potesse tentare l’impossibile. Quella settimana ci sentivamo tutti galvanizzati per il suo ritorno alla vittoria.

Spaghetti all’astice per Pantani, Fontanelli e la Mercatone Uno: li ha preparati Giovanni Ciccola per la vittoria sul Ventoux
Spaghetti all’astice per Pantani, Fontanelli e la Mercatone Uno: li ha preparati Giovanni Ciccola per la vittoria sul Ventoux

«Devo ammettere che Marco non avesse mai avuto grande simpatia per Armstrong. Si era visto sin da subito, appena passato, che fosse un giovincello un po’ sbruffone. Marco nel 1998 aveva vinto il Tour, ma di colpo era l’altro che spopolava. Evidentemente non gli era tanto simpatico neppure il suo modo di correre così freddo e calcolato, mentre lui era genuino e garibaldino. Armstrong si muoveva come se fosse il padrone, con una squadra che al pari di oggi sembrava composta da atleti telecomandati».

Gli spaghetti all’astice

Le esternazioni di Armstrong non riescono a rovinare la cena della Mercatone Uno del Novotel di Avignone. Qualche giorno prima, Giovanni Ciccola, lo chef che lavora con la Mercatone Uno per conto del Tour de France, ha preso da parte Pantani, chiedendogli che cosa avrebbe voluto mangiare. E quando Marco gli ha risposto «aragosta», l’altro per punzecchiarlo gliel’ha promessa per quando avesse vinto.

Quella sera sulla tavola della squadra approdano così degli spaghetti all’astice. A noi che lo aspettiamo fuori dalla porta, ne tocca una forchettata che vale quanto un calice di champagne per brindare al successo.

Quella sera pensammo nuovamente che tutto fosse possibile, mentre il Mont Ventoux da lassù si sentì felice di essersi consegnato a un campione immenso e pelato come lui. Erano anni di sogni che si avveravano e di campioni con gambe e grinta ultraterrena. Ne servì tanto per lottare contro Armstrong che, impunito, continuò a sovralimentarsi per tutto il tempo della corsa. Tre giorni dopo, in un testa a testa niente affatto casuale, Marco lo piegò dimostrando che forse, senza quel che accadde a Madonna di Campiglio nel 1999, l’era Armstrong non sarebbe mai iniziata. Forse un complotto, se complotto ci fu, servì a spianare la strada all’americano cui il Tour tributò sette anni di onori, prima di cancellarlo senza accennare la minima autocritica.

EDITORIALE / Contador e Sinner, storie diverse di numeri uno

09.09.2024
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Jannick Sinner si conferma numero uno al mondo vincendo gli US Open, primo italiano della storia, sottolineando come questa vittoria sia venuta in un momento molto difficile della sua carriera (in apertura foto Facebook/FITP). Come avrà fatto a tenere botta in uno sport che vive sulla concentrazione estrema, sapendo quello che rischia?

Ricordiamo lo stupore nell’assistere alla vittoria di Contador al Giro d’Italia del 2011, quello dell’Etna. Come faceva a correre e sopportare quella fatica così dolorosa, con una bomba a orologeria sul capo? Sulla sua testa pendeva infatti un’accusa di doping per 50 picogrammi di clenbuterolo rintracciati nelle sue urine (0,0000000000005 grammi per millilitro). La federazione spagnola lo assolse così come la FITP del presidente Binaghi si è schierata con Sinner. UCI e Wada però fecero ricorso e alla fine lo spagnolo fu squalificato per due anni.

Secondo il Tas, che nel 2012 comminò la squalifica, era probabile che la positività di Contador fosse stata causata dall’assunzione di un integratore alimentare contaminato, ma di fronte all’oggettività del test positivo, allo spagnolo fu imputato tuttavia di aver agito con negligenza. Una superficialità, chiamiamola così, che gli costò due anni e la sottrazione dei titoli, fra cui il Tour del 2010 e il Tour del 2011. Parve a tutti eccessivo, ma si trattava di un ciclista, quindi…

E’ il 5 febbraio 2012, Contador corre a Mallorca. Dopo 2 giorni, arriverà la squalifica per due anni
E’ il 5 febbraio 2012, Contador corre a Mallorca. Dopo 2 giorni, arriverà la squalifica per due anni

La pomata e la feritina

Saremmo francamente stupiti se la Wada e il Nado decidessero di non procedere contro Sinner, ma ne saremmo anche sollevati. Da un lato significherebbe che la parola dell’atleta vale ancora qualcosa, assestando un bel colpo alla presunzione di colpevolezza che vige nell’ordinamento sportivo. Dall’altro però si verrebbe a creare un precedente, come quello di aver aggirato la normativa nazionale antidoping, per il quale sarà difficile d’ora in avanti prendere provvedimenti per chiunque incappi in simili valori infinitesimali.

Cambia il punto di vista. Per Sinner si è detto (e potrebbe essere accettato) che la pomata usata incautamente dal fisioterapista sia entrata nella feritina durante il massaggio. Per Contador gli accusatori sostennero che il quantitativo assunto fosse ben più massiccio e che l’organismo fosse riuscito a smaltirlo tutto ad eccezione di quella minima parte… traditrice. Come fai a stabilirlo? E come fai a non imputare a Sinner la stessa negligenza di Contador?

Giacomo Naldi, il fisioterapista che, al pari dell’allenatore, ha fatto le spese della positività di Sinner (foto Instagram/Giacomo Naldi)
Giacomo Naldi, il fisioterapista che, al pari dell’allenatore, ha fatto le spese della positività di Sinner (foto Instagram/Giacomo Naldi)

Il silenzio dei media

Quello che colpisce in realtà non è tanto la difesa del tennista, dovuta e ben architettata, quanto il silenzio di chi sul doping s’è costruito una carriera. Si scrivono fiumi di parole su Pogacar che respirerebbe il monossido di carbonio, adombrando chissà quali strategie, mentre si resta di colpo in silenzio davanti a una doppia positività?

Dopo le bordate iniziali, infatti, che hanno costretto lo staff di Sinner ad allontanare il preparatore atletico Umberto Ferrara e il fisioterapista Giacomo Naldi (in apparenza vittime sacrificali), sulla vicenda è sceso il silenzio.

Intendiamoci, sappiamo benissimo che qualcuno in alto ha deciso che va bene così. Però allora, forti di questa esperienza, non sarebbe bene usare lo stesso metro per tutti, senza sfogare la propria voglia di trasparenza contro chi non gode di particolari protezioni?

E’ il 25 luglio 1999, Armstrong vince il primo Tour
E’ il 25 luglio 1999, Armstrong vince il primo Tour

La ricetta perfetta

Ci fu un corridore americano che al via del Tour del 1999 risultò positivo per una pomata al cortisone, ma non venne sanzionato. L’UCI accettò la ricetta retrodatata in cui la squadra sosteneva l’uso di una pomata contro le abrasioni della sella. Se sta bene al massimo organismo dello sport, perché qualcuno dovrebbe dubitarne?

Salvo un paio di giornalisti dotati di una visione più nitida, nessuno si mise contro il sopravvissuto al cancro. Servono tanti ingredienti per la ricetta perfetta. Tanti ingredienti e qualcuno che la faccia andar bene: ci sono interessi davanti ai quali le domande si fermano. E’ così che va lo sport, è così che va la vita.

La storia Ullrich, qualche ipocrisia e una lezione da imparare

08.12.2023
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A volte si confessa per pulirsi la coscienza, altre per un tornaconto. Nel caso di Ullrich la convenienza ha la forma di un documentario su Amazon Video, dal titolo tedesco “Der Gejagte”, che significa “La Preda”. Raramente si confessa quando si ha qualcosa da perdere. Non per caso, libri e serie televisive, sono stati realizzati dopo scandali e a fine carriera. Mai durante, come dovrebbe fare chiunque avesse a cuore l’ambiente in cui vive. Nonostante ciò, vedere che finalmente Jan è uscito dal periodo più buio della sua vita riempie di gioia, perché di quel periodo sciagurato gli unici a pagare sono stati i corridori. Altri figuri, sia pure defilati, sono ancora in giro e non hanno pagato che spiccioli.

«Ullrich e io – chi parla è Lance Armstrong – eravamo icone nei nostri Paesi. Io perché avevo superato il cancro e ho ispirato molte persone. Jan perché è stato il primo tedesco a vincere il Tour. Sembra immodesto, ma eravamo i più grandi ciclisti al mondo e facevamo parte di quella generazione di merda. Mentre gli altri ciclisti dopati hanno potuto continuare a lavorare, Jan, io e Marco Pantani siamo stati trattati come se fossero stati infettati. Questo è il prezzo che paghi quando sei il migliore in uno sport, sei un simbolo. Mi ci sono voluti 10 anni di lotta per uscire da questo buco. E’ stato difficile. Ed è per questo che non ho lasciato Jan solo quando ho sentito che stava male».

Per 5 anni, Ullrich è stato battuto da Armstrong al Tour. Qui siamo nel 2001, tappa di Luz Ardiden
Per 5 anni, Ullrich è stato battuto da Armstrong al Tour. Qui siamo nel 2001, tappa di Luz Ardiden

Un calderone di comodo

Ullrich alla fine ha rilasciato l’intervista che ci si aspettava da anni e ha ammesso di essersi dopato anche per vincere il Tour del 1997, che ha ribadito di sentire ugualmente suo. Mentre in quel mischione di ammissioni e confessioni, l’americano che non fu mai gentile con il romagnolo e probabilmente ne apprezzò le esclusioni dal Tour, ha ritenuto ugualmente di tirarlo dentro, sebbene non sia mai stato trovato positivo e soprattutto essendo impossibilitato a rispondere.

Avendo condiviso con lui tanti giorni, ne ricordiamo bene lo stupore quando raccontava di come Ullrich, 73 chili, rispondesse alle sue accelerazioni (Pantani pesava 58 chili) sull’Alpe d’Huez. Riepilogando dunque, il tedesco è stato male, Armstrong ha impiegato 10 anni per uscire dal buco, Marco è stato fregato e poi ammazzato. E a febbraio saranno 20 anni dalla sua morte.

Confessare ha tolto un peso dal cuore di Ullrich: al netto di tutto, un bene per la sua vita
Confessare ha tolto un peso dal cuore di Ullrich: al netto di tutto, un bene per la sua vita

La preda arresa

«Ero molto depresso – racconta Ullrich nell’intervista al tedesco Hajo Seppelt – come atleta ho sofferto molto, ma dopo la carriera, la mia vita ha preso una svolta nella direzione sbagliata. Nel 2018 ho vissuto il momento peggiore, esponendomi a tutto ciò che una persona può sopportare fisicamente e mentalmente. Il passo successivo, dal punto di vista pratico, sarebbe stato la morte».

Hajo Seppelt è un noto cacciatore di doping in Germania. Seppelt affrontò Ullrich durante la sua carriera, ma Jan evitò tutte le domande che potessero costringerlo a rivelare il segreto. Invece, dopo aver parlato per la prima volta del suo passato di doping in un’intervista con il magazine tedesco Stern, Ullrich è tornato a sedersi proprio davanti a chi lo ha inseguito lungo tutta la carriera. E ha vuotato il sacco.

Party di fine Tour 2005, Armstrong annuncia il ritiro, Ullrich festeggia con lui (foto Liz Kreutz)
Party di fine Tour 2005, Armstrong annuncia il ritiro, Ullrich festeggia con lui (foto Liz Kreutz)

Una serie Amazon

«Sono sopravvissuto a malapena a quella crisi estrema della vita – racconta – e ad un incidente. Dopo due anni in cui mi sono rafforzato fisicamente e mentalmente, sono giunto alla decisione che avevo davvero bisogno di rimettere in carreggiata la mia vita. In realtà ho perso molti anni a causa di errori e debolezze personali. Come è possibile che si sia arrivati a questo? E’ stato un processo durato diversi anni. Tutto è iniziato quando non mi è stato permesso di partire al Tour de France nel 2006 (a causa del presunto coinvolgimento nell’Operacion Puerto, ndr)».

Armstrong si era ritirato dopo sette maglie gialle consecutive, il titolo era vacante e se lo sarebbero conteso Ullrich e Basso, gli uomini degli ultimi podi, ma entrambi si fermarono sullo stesso ostacolo. La maledizione di quel Tour si abbatté anche sul suo vincitore: quel Floyd Landis che venne trovato positivo e venne cancellato dall’ordine di arrivo, con vittoria finale di Oscar Pereiro Sio.

E’ il Tour 2005, l’ultimo di Armstrong: il pubblico tifa (invano) perché Ullrich ne interrompa il dominio
E’ il Tour 2005, l’ultimo di Armstrong: il pubblico tifa (invano) perché Ullrich ne interrompa il dominio

Solo contro tutti

«Da candidato vincitore al Tour – racconta Ullrich nell’intervista – sono caduto e all’improvviso mi sono ritrovato solo, mentre tutta la Germania mi sparava addosso. Dall’essere il miglior cavallo della scuderia sono diventato un “cavallo da fattoria”, il che è stato molto difficile. Ho perso molti anni e adesso ne sono triste. I miei problemi sono sorti a causa di errori personali, a causa della mia debolezza. Ero in alto, sono caduto in basso in basso, ora per me l’obiettivo è il centro. Anche le piccole cose possono renderti felice».

Ullrich si ritirò nel 2007. A causa dell’Operacion Puero, il Tas di Losanna gli impose una sospensione, annullando i suoi risultati del 2005. Solo nel 2013, il tedesco ammise l’uso di sostanze dopanti.

In un post su Instagram, Ullrich ha ringraziato Tonina, arrivata per lui dall’Italia (foto Amazon Video)
In un post su Instagram, Ullrich ha ringraziato Tonina, arrivata per lui dall’Italia (foto Amazon Video)

Perché parlarne

E’ difficile scegliere di parlarne, lo facciamo per l’amore verso i corridori che assaporarono la gloria e si presero la croce sulle spalle. La presenza di Tonina Pantani alla presentazione del documentario è quella di una mamma che ha sentito di voler abbracciare come un figlio il rivale di Marco.

Si diceva che è difficile parlarne ancora. Da una parte si vorrebbe dimenticare tutto, dall’altra si fa fatica a non essere d’accordo con chi dice che, pur in un ambiente viziato dalla chimica, fossero i più forti al mondo

La vera utilità nel ricordare certe storie sta nella voglia di non cadere ancora negli stessi errori. Nella consapevolezza che non bisogna mai abbassare la guardia e che è bene dedicare a ogni impresa enorme il rispetto e il giusto stupore, vigilando sommessamente che tutto si sia svolto nelle regole. Nessun antidoping in quegli anni fu in grado di fermarli: ci riuscirono soltanto le inchieste di Polizia.

Dalla Florida si risente Caucchioli: il ciclismo visto dagli Usa

27.07.2022
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La voce di Pietro Caucchioli è squillante come se fosse dietro casa, invece arriva da Tampa, città tra le più importanti della Florida resa famosa soprattutto dalle imprese dei Buccaneers, due volte vincitori del Super Bowl di football americano.

Quarantasei anni, la sua storia di corridore professionista con due vittorie in oltre 10 anni (due tappe al Giro d’Italia) ma con una particolare propensione per i grandi Giri, vedi il terzo posto al Giro del 2002 e altre due top 10 oltre a un 11° posto al Tour 2004, si era chiusa in maniera repentina e poco felice, con una squalifica per due anni per doping.

Quella vicenda, che ha lasciato segni indelebili nel suo animo fra la coscienza di errori commessi ma anche la constatazione di come quello fosse un mondo che non perdonava nulla e che anzi si accaniva contro facili vittime senza affrontare seriamente il problema, ha forse avuto influenza anche sulle sue scelte successive.

Scelte davvero coraggiose: «Chiusa la carriera, avevo iniziato a lavorare per il gruppo di Federico Zecchetto alla Alé, giravo il mondo, soprattutto nella penisola araba ben prima che questa diventasse come ora un centro nevralgico del ciclismo mondiale. Un giorno Federico mi disse che c’era l’opportunità di lavorare in America, di occuparmi della distribuzione del marchio oltre Atlantico. Avrei potuto fare la spola con l’Italia, ma sarebbe stato più difficile gestire tutto il lavoro.

Caucchioli famiglia
Pietro con la sua famiglia: il figlio Tommaso, lui, la moglie Eva e la figlia Giulia
Caucchioli famiglia
Pietro con la sua famiglia: il figlio Tommaso, lui, la moglie Eva e la figlia Giulia

Una scelta di vita

«Mi confrontai con mia moglie – racconta Caucchioli – era una decisione importante. Le dissi che la vita è un libro che ci proponeva in quel momento un capitolo diverso, completamente diverso, un’avventura nuova da vivere insieme. Lei mi ha dimostrato una grandissima fiducia, perché si trattava di cambiare completamente la nostra vita così decidemmo di vivere quest’avventura al 100 per cento, trasferirci tutti insieme».

Spostarsi in America non è cosa semplice, soprattutto se lo fai con tutta la famiglia: «Un conto è da giovane, fai un investimento su te stesso, ma quando hai la responsabilità e il peso di un nucleo familiare è un altro conto. E’ dura, non è che solo perché hai residenza e lavoro il visto ti arriva, ci sono tanti passaggi da effettuare, tanti controlli».

«I primi 18 mesi sono stati davvero pesanti, poi pian piano ci siamo abituati. Io giro tutta l’America e quindi non abbiamo tanto tempo da passare in famiglia: quando ci siamo trasferiti nel 2014 i nostri figli avevano 9 e 7 anni. Ora mia figlia è in procinto di andare al college, mio figlio ha la passione per il tennis e già gli ho detto che se davvero vuol percorrere questa strada dovrà presto tornare in Europa, perché è lì che si può emergere».

Caucchioli Giro 2002
Il podio del Giro 2002 vinto da Paolo Savoldelli con Caucchioli terzo dietro l’americano Hamilton
Caucchioli Giro 2002
Il podio del Giro 2002 vinto da Paolo Savoldelli con Caucchioli terzo dietro l’americano Hamilton

Nel ciclismo americano…

Caucchioli non ha certo dimenticato la sua passione ciclistica. Il lavoro lo coinvolge sempre in quell’ambito, la realtà nella quale vive è molto diversa da come la vediamo noi dall’altra parte dell’oceano.

«Qui – dice Pietro – la concezione ciclistica è molto diversa. Il ciclismo negli Usa è vivo più che mai, solo che ha connotati diversi, più disincantati e consoni al modo di pensare americano, all’insegna della libertà, quindi l’agonismo è spesso visto come una recinzione. Tantissimi vanno in bici per passione e cicloturismo, molti meno per agonismo.

«C’è però un altro aspetto che ho notato: qui non ci sono limiti di età, se vuoi provare a diventare ciclista per professione puoi farlo a qualsiasi età, un caso come quello di Evenepoel piovuto nel ciclismo quasi dal cielo qui sarebbe visto con normalità. Da noi se non hai esperienza fra le categorie giovanili neanche ti guardano…».

«Qual è il reale stato di salute del ciclismo americano? Molto migliore di quanto si pensi. Avete notato che i principali aiutanti di Vingegaard e Pogacar al Tour erano americani? Kuss e McNulty hanno avuto un peso notevole nella loro sfida. I corridori validi ci sono e non sono neanche pochi, resta però il fatto che il ciclismo di vertice è qualcosa di prettamente europeo e qui è visto da lontano, almeno ora…».

Caucchioli 2001
Due vittorie per Caucchioli nel Giro 2001, a Reggio Emilia e Sanremo, finendo 9° in classifica
Caucchioli 2001
Due vittorie per Caucchioli nel Giro 2001, a Reggio Emilia e Sanremo, finendo 9° in classifica

Armstrong e gli Usa

Già, perché Caucchioli ha vissuto direttamente tutta la parabola di Lance Armstrong, dopo il quale il ciclismo in America non è stato più lo stesso. Al di là dei giudizi morali sul suo operato, trasferendosi negli Usa Pietro ha compreso maggiormente che cosa ha significato Armstrong nell’immaginario collettivo a stelle e strisce.

«Dall’Italia – spiega Caucchioli – non ci si poteva rendere conto di quel che rappresentava: Armstrong era uno che parlava direttamente col presidente americano, che smuoveva le folle. Mai visto creare dal nulla una Granfondo con incasso da devolvere alla ricerca sul cancro e raggiungere subito oltre 10 mila iscritti.

«Con lui la Trek è passata da 100 milioni di introiti a un miliardo – riprende Caucchioli – i corridori di adesso non smuovono neanche una parte di tali interessi economici. Armstrong era un personaggio assoluto, superiore anche alle stelle del basket e del football americano, era talmente popolare che non poteva fare altro che esporsi, raccontare la verità, confessare, pagare per tutto quel che aveva fatto. E liberarsi di un peso troppo grande per qualsiasi uomo».

Caucchioli Tour
Anche in Francia, al Tour Caucchioli si è ben distinto, con l’11° posto nel 2004 e il 12° nel 2006
Caucchioli Tour
Anche in Francia, al Tour Caucchioli si è ben distinto, con l’11° posto nel 2004 e il 12° nel 2006

Il tifo da lontano

Il ciclismo resta per il veneto un grande amore, visto ormai da lontano: «Cerco di seguire, compatibilmente con il lavoro grazie anche allo smartphone, tante volte mi collego e ascolto le cronache. E’ un ciclismo diverso da quello dei miei tempi, molto più universale: allora la Gran Bretagna non aveva l’impatto che ha ora, Paesi come Slovenia, Australia, Canada erano ai margini, figurarsi gli africani…

«Emergere ora è molto più difficile. Vedo le difficoltà del ciclismo italiano, io dico che i giovani ci sono ma va anche detto che il ciclismo non ha più l’appeal che aveva ai miei tempi, quando fuori dalla nazionale rimaneva gente che vinceva classiche e corse a tappe…».

Il tempo per chiacchierare è finito, Caucchioli si rimette in viaggio per attraversare un altro pezzo di quell’immenso Paese, fatto di spazi enormi, strapopolato eppure spesso portatore di solitudine. Magari, ora che il covid non segrega più nelle case, potrebbe anche tornare in Italia, nella sua Bovolone: «Chissà, magari a Natale, perché casa è sempre casa…».

Le regole da tecnico di “Sweet Baby Jesus”

02.01.2022
5 min
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La prima volta fu a Tenerife a dicembre del 2008, all’alba della stagione in cui Contador e Armstrong avrebbero vestito la maglia dell’Astana e lo spagnolo per questo era parecchio contrariato. Sarebbe stato l’anno del Tour condiviso, vinto da Alberto a capo di tensioni clamorose. La squadra kazaka aveva ingaggiato un suo amico, Jesus Hernandez, compagno nelle giovanili e di tanti allenamenti.

E proprio Hernandez, in un giorno di allenamenti verso Masca, si prese il gusto di mettere in croce l’americano, staccandolo in salita nonostante l’altro avesse tentato di resistergli fino in cima. E la sera, tornato in hotel, scrisse un tweet, che ancora oggi è fra noi motivo di scherzo, chiamandolo «Sweet Baby Jesus», Dolce Bambino Gesù, e coprendolo di complimenti.

«Arrivavo con una buona condizione – ricorda Jesus, in apertura nella foto di Maurizio Borserini – perché nel 2008 non avevo corso e mi ero allenato tanto. Quel giorno si misero davanti Lance e Leipheimer. Io ero per tutti l’amico di Contador e quando andai vicino alla macchina, mi dissero di attaccarli, se potevo. Forse non colsi l’ironia di quella che poteva essere una battuta e così andai con loro e li saltai, dimostrando che ero più dell’amico di Alberto. Lance la prese con grande spirito e al rientro scrisse quel famoso tweet. Fu divertente anche per Johan (Bruyneel, tecnico del team, ndr). Io credo che a gente come Armstrong e come Alberto piacciano le persone con personalità. E se loro attaccavano, perché non avrei dovuto contrattaccare?».

Dalla bici all’ammiraglia

Oggi Sweet Baby Jesus è uno dei direttori sportivi della Eolo-Kometa. Da quei giorni, la sua carriera rimase parallela a quella di Contador. Smise alla fine del 2017 e fu Alberto a coinvolgerlo nel progetto continental Polartec-Kometa, agganciata alla sua Fondazione poi diventata un team professional.

«Sono molto contento di questo ruolo – sorride al termine del primo ritiro spagnolo – per come è andata in questi giorni insieme e per il rapporto che si è creato con staff e corridori. Ci siamo conosciuti meglio, peccato solo per il tempo brutto degli ultimi giorni. Quei mesi con Armstrong? Furono un’esperienza. Lance non mi ha mai trattato male, forse perché sono amico di Alberto. Ma si capiva che fra loro la tensione fosse a mille. Due così che puntano agli stessi obiettivi…».

Il direttore mascherato: Jesus Hernandez, madrileno classe 1981 (foto Eolo-Kometa)
Il direttore mascherato: Jesus Hernandez, madrileno classe 1981 (foto Eolo-Kometa)
Sembra passata una vita…

Sono già al quinto anno come direttore sportivo, è un vivere differente. I primi due anni non furono facili. Scesi di bici e passai in ammiraglia, da una squadra WorldTour con tutti i riflettori, a una piccola continental. Da quando sono arrivati Zanatta e Sean Yates però c’è stata un’accelerazione impressionante. La squadra è salita di categoria e lottiamo per obiettivi importanti. Molte volte in corsa devo respirare, perché vorrei andare davanti ad aiutare i corridori. In macchina sembra facile, ma non è così…

Pensavi a un progresso così rapido?

No davvero, è stato un salto molto alto. Ma visto che a gestirlo s’è ritrovata gente con tanta esperienza, è stato quasi naturale. Lavoriamo con grande serietà, normale lavorare per vincere.

Perché è stato determinante l’arrivo di Zanatta e Yates?

Perché ogni giorno imparo qualcosa. Quando parlano, mi fermo qualsiasi cosa stia facendo, e li ascolto. Yates l’ho avuto come mio direttore alla Tinkoff e poi all’Astana. Sono due maestri.

Smesso di correre nel 2017, nel 2018 Jesus è già alla Valenciana con la Polartec-Kometa
Smesso nel 2017, nel 2018 Jesus è già alla Polartec-Kometa
Che tipo di direttore sportivo è Jesus Hernandez?

Mi piace dissezionare la corsa. Osservare i dettagli. Il vento. La salita. Preferisco il livello tattico, oltre a trovarmi bene nel motivare i più giovani, perché non abbiamo una grandissima differenza di età. Con alcuni della squadra ho anche corso. Però quello che preferisco è prendere la mappa nella riunione del mattino sul pullman e presentare la corsa, spiegando i vari passaggi.

Eri così anche da corridore?

Quando ero in camera con Alberto (ride, ndr), si stava tutta la notte col libro in mano a preparare qualcosa. Niente era per caso, lui studiava il percorso e gli avversari. Era molto metodico in tutto. C’erano e ci sono corridori che non aprivano nemmeno il libro della corsa, noi invece arrivavamo al via e sapevamo già tutto.

E’ cambiato il vostro rapporto?

Non è cambiato niente. Va bene, non dividiamo più la stanza, ma siamo sempre amici. Usciamo la sera, andiamo a cena. Andiamo in bici con i corridori, ci divertiamo ancora con il ciclismo e con la squadra. Mi piace lavorare con lui e per lui.

Quando hai capito che la tua sarebbe stata carriera da gregario?

Già prima di andare alla Astana. Ho capito che non avrei vinto tanto facilmente, ma che avrei potuto aiutare il migliore a farlo. Quando nel 2004 passai alla Liberty Seguros, mi resi conto che andavo bene, ma sempre un gradino sotto i migliori. A Madrid mi allenavo con “Dani” Moreno, che ha la mia età. Lui si preparava per vincere e ci riusciva, io no. Non è stato difficile scegliere.

Da dove comincerà il tuo 2022 di corsa?

Da Valencia e Mallorca con gli spagnoli. Abbiamo diviso i corridori in base alle affinità. Io ho il gruppo spagnolo, Yates quelli che parlano inglese, Stefano e Conte seguono gli italiani. L’importante è che il corridore si trovi bene, questo è il nostro punto di partenza.

Una Coca con Hincapie, prima di ripartire

26.07.2021
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La storia di George Hincapie vale la trama di un film. Ed è per questo che mentre l’americano parla seduto a un tavolo in questo angolo caldo di Toscana, davanti agli occhi scorrono le immagini di una vita affascinante ma dura. Hincapie il gregario, figlio di colombiani emigrati in America. Scoperto per caso a Central Park da quel mecenate (marchigiano) della bici che si chiamava Fred Mengoni e portato alla Motorola appena un anno dopo l’arrivo di Armstrong che in un modo o nell’altro gli avrebbe cambiato la vita.

L’ottavo, il primo

Quando Evans l’ha chiamato per venire a Saturnia a festeggiare i 10 anni del Tour, George ha prenotato in men che non si dica. Ne aveva già vinti sette accanto al texano, ma di quel giallo restano soltanto le ombre, una dannata parentesi della storia con cui fare quotidianamente i conti. George i conti li chiuse nel settembre del 2012, giusto l’anno dopo il Tour con Evans, quando fu costretto a raccontare la sua versione della storia e questo gli valse sei mesi di sospensione e le vittorie dal 31 maggio 2004 al 31 luglio 2006. Aveva 39 anni, il ciclismo aveva poco altro da regalargli e così smise.

Uomo in affari

Ci ha sempre regalato la sua gentilezza, anche se con gli occhialoni e la barba ispida sembra un vero cow boy. Oggi gestisce un hotel cui ha dato il nome di Domestique, gregario, ai piedi della Blu Ridge Mountains in South Carolina: monti nella catena degli Appalachi resi celebri da alcune canzoni di John Denver. Le stanze di quell’hotel portano il nome di alcune delle località che lo hanno visto sudare su una bici. Bordeaux, Courchevel, Aubisque, Aspin, La Madeleine, Galibier, Azet, Chartres, Colombiere, Lombarde, Portillon, Dijon, Tourmalet. E anche l’ospitalità, fra campi da golf e tour in bicicletta, è la somma delle esperienze in giro per il mondo.

Accanto al suo ultimo capitano, Hincapie sulle strade etrusche di Saturnia
Accanto al suo ultimo capitano, Hincapie sulle strade etrusche di Saturnia

In più ha una linea di abbigliamento fondata nel 2002 con suo fratello Rich, con cui vestì anche la BMC di allora, e coordina l’organizzazione di tre Gran Fondo che portano il suo nome: in South Carolina, in Pensylvania e in Tennessee.

La nuova vita

Da quel passato ha preso le distanze e anzi si è fatto portavoce di un diverso modo di fare ciclismo, quello giusto e certamente sano.

«Io e Cadel – ricorda – abbiamo fatto un pezzetto di storia insieme. Siamo partiti da quella che sembrava una piccola squadra e quello che abbiamo fatto è stato davvero importante nella mia carriera. Non potevo dire di no. Naturalmente l’ho fatto per tutto il gruppo, è bastato rivedere il video l’altra sera in cui si raccontava quel Tour. Mi ha chiamato a giugno, dicendomi che si sarebbe potuto fare qualcosa del genere, ma non aveva le idee chiare. I dettagli li ho saputi la settimana scorsa…».

Un sorso di vino prima di ripartire: per Hincapie ora il ciclismo è relax
Un sorso di vino prima di ripartire: per Hincapie ora il ciclismo è relax

Gregario e leader

La magia di quella BMC è qualcosa di cui abbiamo parlato spesso con i corridori che ne facevano parte e accettarono a malincuore di disperdersi, quando con la morte del fondatore Andy Rihs fu chiaro che il team avrebbe cessato di esistere.

«La grande forza di quel team – racconta – fu prima di tutto Andy Rihs, molto appassionato di sport. Poi Jim Ochowitz, un grande boss, e John Lelangue, un grande direttore sportivo. A quel punto della mia carriera avevo bisogno di un ruolo diverso, al servizio di un capitano. Quando diventi un professionista, ti rendi conto che il talento può portarti lontano, ma non basta. Ti rendi conto che tutti a quel livello sono straordinariamente bravi e la vera differenza è mentale. Nasce tutto dal tuo desiderio di lavorare, la disciplina sul lavoro. Queste sono le cose che fanno la differenza. E per me arrivare nella squadra di Cadel significava accettare anche più responsabilità, mi sono goduto quella piccola parte della mia carriera».

Verso l’ignoto

Il ciclismo oggi è un’altra cosa, ma non solo per l’impressionante mole dei controlli messa in atto proprio dopo quel dannato periodo americano, ma anche per cosa significa essere in gruppo.

«E’ un altro mondo – dice – noi eravamo pronti per qualsiasi cosa succedesse sulla strada, ci conoscevamo bene come squadra e andavamo spesso verso l’ignoto. Sulle mappe non c’era scritto se le strade fossero strette oppure molto ripide. Potevi aver fatto il sopralluogo e ricordare qualcosa, ma nessuno sapeva tutto nei dettagli e la bravura stava nel reagire e nel gestire le situazioni. Invece adesso sanno tutti esattamente ciò che sta per accadere e secondo me tanta tecnologia aumenta lo stress e tutto diventa più pericoloso. Vedo i corridori combattere sempre per tenere la testa. Ma resta bello. Sono ancora contento di guardarlo in televisione».

Sosta per fare qualche foto: Evans, Bookwalter e Hincapie
Sosta per fare qualche foto: Evans, Bookwalter e Hincapie

Back home

George rientrerà oggi negli Stati Uniti, proprio nel momento in cui ha iniziato a fare pace con il fuso orario. Si è goduto ogni attimo con il sorriso sul volto, chiedendosi se e quando si vedranno ancora. E’ stato già tanto aver potuto volare nonostante il Covid.

«Torno al mio piccolo hotel in South Carolina – dice – e alla mia linea di abbigliamento che mi porta in giro per il Paese. Ho molto da fare. Ho tre Gran Fondo, sono ancora coinvolto nel ciclismo. Ma a Cadel non potevo dire proprio di no».

La prossima Gran Fondo si correrà il 23 ottobre a Greenville, nel South Carolina, sulle strade in cui era solito prepararsi per il Tour. George sembra ancora in gran forma. A vederlo passare sulla sua BMC in un paio di inquadrature è parso di riconoscere il corridore che nel 2011 aiutò il suo capitano a vincere il Tour de France. E di quello negli annali resterà per sempre la traccia.