Un clima tipicamente autunnale ha accolto la nazionale italiana ad Halle dove domenica si correrà il mondiale gravel. Il gruppo di Daniele Pontoni è arrivato in Belgio mercoledì e nella giornata di ieri ha preso contatto con il percorso, facendo subito i conti con il clima e le caratteristiche del tracciato.
«Al nostro arrivo abbiamo trovato tempo ancora piovigginoso, ma in occasione della nostra uscita, affrontando i primi 80 chilometri abbiamo notato che il tracciato si stava già asciugando e questo fa ben sperare per domenica. Nella parte finale, il circuito probabilmente decisivo, ci sono ancora dei tratti fangosi. Però se il tempo regge e soprattutto il vento continuerà a tirare, credo che sabato, quando gareggeranno le donne, sarà già tutto asciutto».
Gli azzurri ieri sul percorso iridato, 134 chilometri per le donne, 181 per gli uominiGli azzurri ieri sul percorso iridato, 134 chilometri per le donne, 181 per gli uomini
Che percorso avete trovato?
E’ stato parzialmente rivisto rispetto all’europeo gravel dello scorso anno. E’ disegnato prevalentemente su piste ciclabili e strade battute, quindi io credo che si svilupperanno alte velocità, con 2-3 single track dove sarà utile la capacità di guida, ma nel complesso sono tutte traiettorie veloci dove non ci sono particolari difficoltà di guida. Certamente serve attenzione, soprattutto nei tratti dove si procede in fila indiana per sapere dove mettere le ruote, considerando che stando alle spalle non si vedono subito le buche. Preservare i copertoni sarà un aspetto importante.
Secondo te è quindi un percorso che privilegia gli stradisti?
Sicuramente, è un percorso come detto da grandi velocità, tecnicamente abbordabile e il fatto che siano quasi 300 i concorrenti che si schierano al via lo dimostra. Io credo che la gara si svilupperà attraverso gruppetti, anzi non è escluso che soprattutto la prova femminile si possa chiudere con uno sprint a ranghi ristretti.
Il podio dello scorso anno con Silvia Persico che ci sarà anche stavolta, punta delle azzurreIl podio dello scorso anno con Silvia Persico che ci sarà anche stavolta, punta delle azzurre
Veniamo alle tue convocazioni: stupisce il fatto che a fronte di una nazionale femminile abbastanza ampia, con 7 effettive al suo interno, ci siano solamente 4 uomini convocati. Perché questa differenza?
Ho semplicemente dovuto prendere atto della situazione, della concomitanza con un calendario ancora ingolfato. A molti team ho chiesto di poter mettere a disposizione uomini, ma con Emilia, Bernocchi, Agostoni non ho avuto risposte positive. Ho quindi potuto scegliere Oss e De Marchi che sono specialisti puri del gravel, poi c’è Matteo Zurlo campione d’Italia lo scorso anno e che questo percorso lo conosce bene per averlo affrontato lo scorso anno, infine c’è Filippo Agostinacchio che ha una condizione ottima.
Questa differenza numerica ti porterà a fare scelte tattiche differenti?
Sì, andranno impostate due corse completamente diverse ma questo non dipende solamente dai numeri. Bisogna guardare al materiale a disposizione, alla concorrenza, alla lunghezza del percorso. Valuteremo le scelte più adatte al caso.
Matej Mohoric in trionfo nel 2023. A sfidarlo grandi nomi come Van der Poel e MerlierMatej Mohoric in trionfo nel 2023. A sfidarlo grandi nomi come Van der Poel e Merlier
Sono le stesse nazionali che vedremo la settimana dopo all’europeo?
Non del tutto, infatti mi sono riservato di effettuare le convocazioni fra lunedì e martedì. Al femminile sarà una nazionale che ricalcherà per la maggior parte quella presente qui in Belgio, ma al maschile avrò più uomini a disposizione. Anche perché rientrerà gente dalla trasferta di Coppa del Mondo di mtb. Quello di Asiago – percorso che voglio comunque rivedere – è molto diverso dal percorso belga, più impegnativo sia tecnicamente che altimetricamente e dove la capacità di guida avrà un peso molto superiore. Per questo penso che ci sarà maggiore equiparazione fra specialisti della strada e della mountain bike.
Saranno molti i reduci dal mondiale su strada di Zurigo della scorsa settimana, pensi che la fatica di allora influirà?
No, ormai a questo punto della stagione influiscono più altri fattori, prima di tutto quello mentale e della volontà di emergere. Non sono, quelle di gravel, gare di attesa, si va subito a tutta e come abbiamo visto anche su strada ormai ci si sta avvicinando sempre più a questo principio che fino a pochi anni fa era patrimonio di specialità dallo sviluppo temporale più breve come il ciclocross.
La polacca Niewiadoma difende il suo titolo, ma percorso e condizione non sembrano dalla sua parteLa polacca Niewiadoma difende il suo titolo, ma percorso e condizione non sembrano dalla sua parte
Ti sei fatto un’idea su chi saranno i favoriti?
Sabato fra le donne sarà quasi una rivincita di Zurigo considerando che mancheranno solo Vollering e Longo Borghini, ma ci saranno Kopecki, Wiebes, l’olimpionica di mtb Ferrand Prevot, la Niewiadoma che comunque su questo tracciato gravel non vedo favorita e direi di tenere sotto controllo l’australiana Cromwell. In campo maschile ci sono Van der Poel, il campione uscente Mohoric, Merlier, ma sono in tanti a poter dire la loro. Io spero che fra questi ci saremo anche noi, abbiamo squadre e nomi in grado di far bene su questo tracciato.
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Parliamo con Sara Casasola, tricolore di cross, delle scelte dei suoi colleghi che lasciano la specialità. Calendari, ingaggi, carriera. Perché si lascia?
Dopo un passato da pro’ che l’ha visto vincere una tappa al Tour of China nel 2016, da diversi anni Mattia De Marchi ha deciso di dedicarsi a tempo pieno al gravel. Una scelta che l’ha portato a vincere la scorsa edizione della famosissima corsa spagnola The Traka, e che quest’anno l’ha fatto volare in Kansas per partecipare al più importante evento gravel al mondo, l’Unbound 200.
Alla fine di una gara tiratissima contro alcuni mostri sacri della disciplina (in apertura, foto Roszko), Mattia è arrivato 5°, a cinque secondi dal podio. Il migliore degli italiani (nel gruppo dei nostri c’era un debuttante d’eccezione: Daniel Oss). Ci ha raccontato com’è andata.
Mattia, cominciamo dall’inizio. Com’è andato il tuo avvicinamento all’Unbound 2024?
Rispetto alle passate tre edizioni anni abbiamo deciso di arrivare molto più all’ultimo, senza viaggiare troppo presto, perché diciamo che l’America non è un posto facile dove allenarsi. L’anno scorso abbiamo passato lì tre settimane prima della gara e alla fine sono arrivato alla partenza che ero già finito. Perché quando sei lì non riesci ad allenarti con i tuoi soliti ritmi, seguendo l’alimentazione alla quale sei abituato, nel tuo ambiente familiare. Quindi questa volta siamo arrivati quattro giorni prima, che andava benissimo anche considerando il fuso orario, visto che la gara parte la mattina molto presto.
Prima di cominciare, si fa la spesa da Walmart, affinché ci sia tutto (foto Instagram/Chiara Redaschi)Emporia accoglie la Unbound come ogni anno, questa volta Mattia ha ritardato l’arrivo (foto Instagram/Samisauri)Prima di partire, De Marchi con tutti gli integratori sul pavimento (foto Instagram)Poi si comincia a riempire le borracce secondo una logica (foto Instagram)Prima di cominciare, si fa la spesa da Walmart, affinché ci sia tutto (foto Instagram/Chiara Redaschi)Emporia accoglie la Unbound come ogni anno, questa volta Mattia ha ritardato l’arrivo (foto Instagram/Samisauri)Prima di partire, De Marchi con tutti gli integratori sul pavimento (foto Instagram)Poi si comincia a riempire le borracce secondo una logica (foto Instagram)
E’ stato utile?
Questa freschezza mentale mi è servita moltissimo. Arrivavo da un momento di stress dopo aver rotto il cambio alla fine della The Traka e non aver portato a casa niente. Un evento come l’Unbound è imprevedibile, ti giochi tutto in un giorno solo, possono succedere mille cose. In più quest’anno c’erano almeno 30 corridori che potevano vincere. L’importante è gestirsi a livello mentale. Infatti nella prima metà di corsa avevo più paura di forare che di staccarmi dal gruppo principale.
Questo però significa che stavi molto bene fisicamente
Devo dire di sì. Mi avevano detto che il percorso sarebbe stato più duro di quello dell’anno scorso, ma io non l’ho trovato così più difficile. Il dislivello totale era maggiore, ma le salite sono comunque molto corte e quindi in realtà non riesci a fare troppa differenza. Poi quest’anno c’è stato anche un po’ controllo e dopo 150 km davanti eravamo ancora in 50, rispetto ai 15-20 delle passate edizioni, questo anche per il livello più alto in generale. Infatti è uscita una gara molto tattica, in cui tutti i favoriti si controllavano.
La sfida misura 200 miglia, ritirato il numero di gara (foto Instagram/Chiara Redaschi)Il gruppo è inizialmente compatto, l’elicottero fa le riprese, ma non c’è diretta (foto Instagram/Chiara Redaschi)Borracce e gel: trovarli a bordo strada è manna dal cielo (foto Instagram/Chiara Redaschi)Coca Cola, gellini, caramelle, carboidrati, acqua: si butta dentro quell che entra (foto Instagram/Chiara Redaschi)Contrariamente alle sue abitudini, quest’anno De Marchi ha fatto una corsa di attesa (foto Instagram/Chiara Redaschi)La sfida misura 200 miglia, ritirato il numero di gara (foto Instagram/Chiara Redaschi)Il gruppo è inizialmente compatto, l’elicottero fa le riprese, ma non c’è diretta (foto Instagram/Chiara Redaschi)Borracce e gel: trovarli a bordo strada è manna dal cielo (foto Instagram/Chiara Redaschi)Coca Cola, gellini, caramelle, carboidrati, acqua: si butta dentro quell che entra (foto Instagram/Chiara Redaschi)Contrariamente alle sue abitudini, quest’anno De Marchi ha fatto una corsa di attesa (foto Instagram/Chiara Redaschi)
Tutti tranne un paio…
Lachlan Morton infatti ha corso senza pensare agli altri, a suo modo, seguendo la sua idea, e lo stesso ha fatto Chad Haga. Io invece per una volta – anche d’accordo con i preparatori – ho deciso di rischiare e stare più a ruota possibile. Poi forse se anche li avessi seguiti, gli altri non mi avrebbero lasciato spazio, perché ormai sono abbastanza conosciuto anche in America. Quindi ho deciso di rischiare, cercando di giocarmi il mio jolly più avanti possibile, anche perché in un percorso molto veloce in cui serve tanta forza io con con i miei 60 kg partivo svantaggiato. Quando in effetti me Io sono giocato, a 80 km dall’arrivo, mi sono reso conto che stavo ancora bene.
Raccontaci un po’ meglio di questo jolly
A 80 km dalla fine c’era l’ultima feed zone, che ormai sono diventate come la Formula Uno. Una volta ci si rilassava, si respirava anche un po’, adesso se ti fermi più di 20 secondi rischi di rimanere indietro e buttare via la gara. Un po’ di esperienza gli anni scorsi l’avevo fatta e appena mi sono accorto che un gruppetto di corridori forti è ripartito prima di me, ho colto l’attimo e ho cercato subito di rientrare da solo. Perché sapevo che quella era un’ottima occasione di entrare in una fuga di qualità, dove è anche più facile andare d’accordo rispetto che in un gruppo con tanti corridori. Sono rientrato senza fare neanche troppa fatica e siamo andati avanti in 6-7 così per un po’, poi anche noi abbiamo iniziato a guardarci e quelli dietro ci hanno raggiunti. Lì mi sono detto che avrei dovuto inventarmi qualcosa.
La grande fatica è finita, per un po’ meglio restare seduti a ricordare (foto Instagram/Roszko)Vanno bene i guanti, ma gli scossoni hanno messo le mani a dura prova (foto Instagram/Roszko)La grande fatica è finita, per un po’ meglio restare seduti a ricordare (foto Instagram/Roszko)Vanno bene i guanti, ma gli scossoni hanno messo le mani a dura prova (foto Instagram/Roszko)
E cosa hai fatto?
Ho attaccato una prima volta, ma nessuno mi ha seguito, allora mi sono fermato. Poi ho approfittato di un momento di indecisione e mi sono avvantaggiato con Stetina, assieme ad altri due ragazzi. Siamo stati per un bel po’ di chilometri con solo una decina di secondi di vantaggio sugli altri, ma è in quei momenti lì che devi tenere duro, perché poi basta poco per fare la differenza. Infatti col passare del tempo abbiamo preso un bel vantaggio. All’improvviso Stetina si è staccato e così abbiamo perso uno che ci dava una grossa mano. A quel punto ce l’abbiamo messa tutta per ricucire il distacco che avevamo su Morton e Haga, circa 1’30’’. Ma in quei momenti più vai avanti nella gara più è difficile rientrare, soprattutto quando ti trovi davanti gente come loro due, due regolaristi che possono andare avanti all’infinito. Ormai non avevo molta scelta e dovevo cercare di arrivare al traguardo in meno possibile, ma ai -30 km sono rientrati su di noi 5-6 corridori tra cui Van Avermaet, e la corsa è ricambiata di nuovo. Ci siamo resi conto che i primi due erano andati e quindi sono saltati tutti i possibili accordi.
E qui hai deciso di giocarti il secondo jolly di giornata?
Esatto, ho dovuto inventarmi qualcosa per portare almeno a casa un bel risultato e a 10 km dalla fine ho attaccato ancora. Siamo andati via in tre, poi io a quel punto a dire la verità ero abbastanza stanco, con gli altri due molto forti in pianura e sono riuscito ad arrivare giusto alla fine, dove ho fatto 5°. E’ il mio miglior risultato all’Unbound, dopo il 13° del 2022 e le difficoltà dovute al terreno dell’anno scorso. Quindi devo dire che per me, anche se non ho vinto o centrato il podio, è stata comunque davvero un’ottima giornata.
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EMPORIA (USA) – Il fatto è che avrei così tante robe da dire… Di solito mi trovo anche ispirato, perché mi piace quando mi emoziono. Però in questo caso, ho talmente tante cose da scrivere che non so da dove partire e come incastrarlo. Perché il gravel è un altro mondo. Mi piacerebbe dire da dove arrivo, ma sarebbe un preambolo che esula dalla gara. E poi sulla gara in sé, sulla Unbound Gravel, rischio di dire cose che magari per me sono scontate e magari non vanno direttamente al punto. E finisce che si sparpagliano in un vomito di parole un po’ confuse…
Nel nord del Kansas si è pedalato su strappi brevi e lunghe pianure (foto UnboundGravel)Nel nord del Kansas si è pedalato su strappi brevi e lunghe pianure (foto UnboundGravel)
Un pallino americano
Dell’Unbound avevo sempre solo sentito parlare. E’ la più grande gara gravel d’America e forse del mondo. Avevo letto tanti articoli, racconti di ex professionisti che l’avevano provata. Ma anche tanti amici che l’hanno fatta come amatori, soltanto per una challenge, come la chiamano in America.
Una sfida contro se stessi e contro un percorso per nulla scontato. Mettersi alla prova sulla distanza classica di 200 miglia, se non sei allenato e non hai dimestichezza con il ciclismo, è una cosa tanto grande. Ma anche fare solo le 50 o 100 miglia è tanta roba. Ecco, insomma, ne avevo solo sentito parlare.
Perciò, da quando abbiamo voluto il progetto Gravel, nella mia testa l’Unbound è sempre stata un pallino. E’ tutto molto grande, americano: tutto molto «Wow!». Tanti ne decantano la grandezza e la maestosità.
Oss si era spostato negli Usa una decina di giorni prima della Unbound, per prendere il fuso e abituarsi agli orariOss si era spostato negli Usa una decina di giorni prima della Unbound, per prendere il fuso e abituarsi agli orari
Un giorno da eroi
Prevale l’eroismo nel fare questa cosa pazzesca. E oltre a questo, ovviamente, gli sponsor come Specialized ne hanno capito il valore e devono assolutamente esserci. Anche se loro vogliono primeggiare, essere davanti, essere presenti e protagonisti nel panorama gravel americano. E con questa Unbound si va dritti al cuore del discorso. Con questa mega gara popolare, magari ancora poco famosa, poco connessa da un punto di vista mediatico. Non c’è una diretta tv, ci sono quelle Instagram, forse su YouTube. Forse degli highlights vanno in televisione, ma su canali secondari.
In Europa, zero. Quasi non se ne sente parlare, se non perché quest’anno ha vinto Lachlan Morton. Ma tolti alcuni media specializzati, è un evento che di qua quasi non esiste. Però, fatto questo preambolo, davanti a un evento così grande che poi è sfociato in una gara, tra i racconti e quello che ho sempre sentito e quello che gli sponsor e la squadra mi chiedevano, un racconto ve l’ho promesso e vorrei farlo. Per cui, eccoci qua…
Nella prima metà di gara il gruppo è rimasto compatto, ma dopo le 140 miglia è iniziato lo sparpaglìo (foto UnboundGravel)Nella prima metà di gara il gruppo è rimasto compatto, ma dopo le 140 miglia è iniziato lo sparpaglìo (foto UnboundGravel)
Cambio di pelle
Le aspettative erano buone e si sono confermate, non voglio dire il contrario. Ma quello che mi ha stupito molto è il fatto che il livello sia completamente cambiato. Vi faccio un esempio, magari dico cose a caso che in un articolo non vanno bene, ma serve per capire. Un anno fa, quando si parlava di gravel e di UCI Gravel Series piuttosto che altre tipologie di gara, si era capito che il settore fosse in crescita. Però c’era ancora un modo di correre piuttosto blando, per cui si riusciva a fare le gare anche in maniera un po’ goliardica. Si stava insieme, non c’era la necessità di riprendere in mano tutto il mondo degli allenamenti o dei rifornimenti e come farli.
Non era una dimensione troppo seriosa. Era un po’ a tarallucci e vino, tipo nozze coi fichi secchi. E poi alla fine chi stava bene faceva la sua volata o andava in fuga. Però la gara era basata ancora sull’avventura, sul partecipare e concludere un’impresa. Il fatto che ora il movimento sia cresciuto così tanto, rende tutto molto più professionistico. Quindi in questa Unbound mi sono trovato davanti a squadre organizzate, con atleti super allenati ed esperti, tecnicità da tutti i punti di vista. Ho visto anche dei body con un camelback integrato, molto fuori dalla logica gravel. Ho visto tanta aerodinamica, che sta diventando importante anche in questo settore.
Vincitore della Unbound 200 miglia è stato Lachlan Morton. Secondo Chad Haga a un solo secondo (foto UnboundGravel)Vincitore della Unbound 200 miglia è stato Lachlan Morton. Secondo Chad Haga a un solo secondo (foto UnboundGravel)
La più veloce della storia
Fate conto che quest’anno, l’Unbound 2024 è stata la gara più veloce nella storia… dell’Unbound. Si corre dal 2006 e nei primi anni non c’era così tanta importanza per l’agonismo. I racconti dei miei ex colleghi professionisti erano tutti simili. Cioè ci si allenava 15 ore, si andava all’Unbound di 200 miglia, quindi 320 chilometri. E un atleta medio del WorldTour la faceva… fumandosi una sigaretta. Per dire che era abbastanza semplice. Riuscivi a vincere, riuscivi a farti la volata, aspettavi chi era meno allenato.
Invece quest’anno, le prime ore le abbiamo fatte a 40 e passa di media, tutti in gruppo. E poi un po’ alla volta c’è stata la scrematura. Ma chi ha vinto la gara, alla fine aveva 36 di media. Io ho finito 43° circa, a quasi 40 minuti da Morton e a quasi 33 di media. Quindi è abbastanza folle pensare a quanto tutto sia cresciuto in modo esponenziale da un anno all’altro.
Il percorso era asciutto, non c’erano tratti di fango. Siamo andati verso nord rispetto al solito, quindi era un percorso un po’ più duro. C’erano 3.500 metri di dislivello, pazzesco, è stata durissima. E non è che ci fosse una salita da 1.000 metri di dislivello, erano tutti strappi da un chilometro, 500 metri, 300 metri… Tutto così e quindi difficile per me.
Anche la gara delle donne ha battuto ogni record della Unbound. Vince la danese Rosa Kloser in 10.26’02” (foto UnboundGravel)Anche la gara delle donne ha battuto ogni record della Unbound. Vince la danese Rosa Kloser in 10.26’02” (foto UnboundGravel)
Sveglia alle 3,30
Per cui, riepilogando, Unbound Gravel: 200 miglia – 326 chilometri – sterrata per il 98 per cento. C’erano solo due/tre piccole connessioni di asfalto, ma veramente irrisorie. Partenza all’alba, alle 5,50 del mattino gli elite e poi nell’arco di 20 minuti partono tutti, quasi attaccati, suddivisi per scaglioni di categoria. Alzarmi alle 3,30 per fare colazione è stata dura, anche se nei giorni di avvicinamento avevo cercato di tenere orari vicini a quello.
Al mattino c’era pochissima luce. Non era tanto freddo, quindi tutti in maniche corte e braghe corte. Tutti attrezzati con camelbak o borracce da litro e in tasca almeno un paio di penne, si chiamano così gli attrezzi per aggiustare i tubeless con i vermicelli. Se hai un buco nel tubeless, ci ficchi dentro questa penna. Tiri indietro e ti resta il vermicello fatto di gomma un po’ appiccicaticcia. Così riesci a tappare il buco e poi a rigonfiare la ruota.
Tranne pochi raccordi in asfalto, il fondo della Unbound è tutto sterrato (foto UnboundGravel)Tranne pochi raccordi in asfalto, il fondo della Unbound è tutto sterrato (foto UnboundGravel)
Persi nel deserto
C’era da portare l’attrezzatura da sopravvivenza, perché a un certo punto ti trovi veramente nel nulla. Per oltre 50 miglia, dovunque guardi, non c’è niente. Chiaramente è facile raggiungere qualsiasi punto con la macchina, però tu sei in mezzo al niente e quindi se vuoi sopravvivere devi anche arrangiarti. Non è ovviamente il deserto del Sahara, però quasi…
Il regolamento dice che il percorso non deve essere segnato, per cui io avevo la traccia sul Garmin e gli altri sui loro dispositivi. Bisogna portare il telefono, perché in casi di emergenza estrema, bisogna averlo per collegarsi con qualcuno, ammesso che ci sia campo, perché non è scontato che ci sia. E’ capitato di trovarsi in mezzo al niente senza campo, senza rete.
Anche solo finire la Unbound significa aver vinto la sfida con se stessi (foto UnboundGravel)Anche solo finire la Unbound significa aver vinto la sfida con se stessi (foto UnboundGravel)
Nove ore e 10.000 calorie
Le luci non le aveva nessuno, però bisognava organizzare i rifornimenti. Nessuno può avere un supporto sul percorso, se non in due punti prestabiliti. Infatti dopo 70 e dopo 140 miglia ci sono due rifornimenti. Un parcheggio gigante, spesso in un villaggio, con le tende dei vari sponsor e delle squadre. Ti puoi fermare o prendere al volo la sacca con 2 litri d’acqua e il cibo e le borracce. E davvero c’è stata da valutare anche la parte approvvigionamenti.
Io ho mangiato circa 12 gel. Sei borracce di acqua con 70 grammi di carbo che erano in bustina e ovviamente pieni di sali minerali, potassio, magnesio e tutto il resto. Sui cinque litri d’acqua. E ho contato nel finale circa diecimila calorie consumate. Ho fatto circa 9 ore 47’27” su 325 chilometri. Tanta roba, tantissima.
La maglia iridata non tradisce: al via c’era anche Matej Mohoric, che però si è fermato (foto UnboundGravel)La maglia iridata non tradisce: al via c’era anche Matej Mohoric, che però si è fermato (foto UnboundGravel)
Più di una Sanremo
Non ho mai fatto una distanza del genere, intesa anche come timing. La Sanremo si avvicina, ma ormai si fa in meno di 6 ore. Quindi una distanza che non era mai stata fatta dalle mie gambette. E’ stata molto veloce all’inizio. Ci sono stati un paio di punti dove era particolarmente roccioso, quindi c’erano delle discese pericolose. Salti, fossi, delle pozzanghere, però con un fango abbastanza neutro, che non si attaccava tanto alla bici. Ci sono state cadute e anche forature.
Poi dalla seconda metà della gara, sui 100-140 km all’arrivo, il gruppo si è proprio spappolatonel tratto dove c’erano parecchie salite. Ognuno ha preso il suo posto ed è diventata una lotta con se stessi. Una lotta contro la fatica, per cercare di andare avanti il più possibile e gestire l’alimentazione.
Il primo italiano sul traguardo della Undbound 200 miglia è stato Mattia De Marchi: 5° a 3’41” (foto UnboundGravel)Il friulano è un grande conoscitore di queste prove estreme ed era negli USA per provare il colpaccio (foto UnboundGravel)Sfinito dopo il traguardo, De Marchi ha pagato un guasto meccanico. Avrebbe potuto vincere? (foto UnboundGravel)Il primo italiano sul traguardo della Undbound 200 miglia è stato Mattia De Marchi: 5° a 3’41” (foto UnboundGravel)Il friulano è un grande conoscitore di queste prove estreme ed era negli USA per provare il colpaccio (foto UnboundGravel)Sfinito dopo il traguardo, De Marchi ha pagato un guasto meccanico. Avrebbe potuto vincere? (foto UnboundGravel)
Una grande festa
Comunque tutti vogliono finire la corsa, perché quando finisci un’avventura così grande, è comunque molto soddisfacente. Quasi tutti hanno pubblicato che i più leggeri hanno fatto sui 250 watt medi e quelli più pesanti come me, sugli 80 chili, che hanno fatto 300 watt per quasi dieci ore. Il livello è altissimo e fa paura. Alla fine, all’arrivo, c’erano degli stand giganti, era tutto un barbecue, tutto un tacos. Quindi cucina messicana, americana, pasta all’italiana. E dovunque tanti atleti, tutti sfiniti, tutti sfatti, però un bel clima di… yeah!
Ho percepito un clima molto agonistico e un po’ mi dispiace, nel senso che mi sono sempre aspettato un clima più godereccio. Invece mi sono trovato proprio un clima da WorldTour. Da andare a letto presto, mangiare bene, poche distrazioni. Non che si dovesse fare chissà cosa, però mi immaginavo che ci fosse un po’ più una giostra, un ambiente più godereccio. Però è stato tutto molto bello. Lungi da me essere polemico, essere del tutto negativo: anzi, tutt’altro.
Daniel Oss ha concluso la sua prima Unbound Gravel in 43ª posizione, sfinito e feliceDaniel Oss ha concluso la sua prima Unbound Gravel in 43ª posizione, sfinito e felice
Una gara fighissima
E’ stata un’esperienza fantastica sotto tanti punti di vista. La cosa più bella, che forse più mi ha colpito, è il coinvolgimento di tantissima gente che non ha nulla a che fare con la parte racing, ma che è lì per godersi il weekend, la settimana e questa avventura contro se stessi. Mi ricordo in alcuni punti, quando stava per finire la gara, trovavo sul percorso gente che faceva un altro giro e quindi venivano doppiati. E quando li passavo, ci scambiavo qualche battuta.
«Dura, è?». E loro tutti gasati: «Sì, è dura!». Quindi felici di fare una cosa talmente faticosa e questo mi ha colpito tantissimo. La felicità di trovare le forze per fare una cosa più grande di loro.
E comunque è un’organizzazione bellissima, gara fighissima. Tante cose belle, anche gli stand, le grigliate, la gente felice. C’era felicità, c’era voglia di far fatica. C’era tutto questo ambiente mega festoso, ma allo stesso tempo sportivo, quindi alla fine della gara ci stava anche la birretta. Però erano tutti galvanizzati, carichi, felici di essere stati parte di questa cosa che era l’Unbound, davvero una gara fighissima.
Daniel Oss ha seguito parte del Giro da una moto di Eurosport. Ora si trova negli Stai Uniti per partecipare alla Unbound Gravel, gara di altissimo livello per specialisti, ma si capisce che pur a distanza ha continuato a seguire la corsa rosa, lasciata alla vigilia della terza settimana. L’esperienza è andata bene. Le sue osservazioni sono parse puntuali e in un ottimo inglese, figlio di tanti anni in team non italiani. E così incuriositi per le dinamiche del numerosissimo contingente di Eurosport al Giro, ci siamo fatti raccontare questo debutto inatteso.
«Per la Sanremo – racconta Oss – ero stato nella sede di Londra per fare una puntata di The Breakway con Adam Blythe e Orla Chennaoui. E’ un programma in cui prima della corsa fanno una sorta di preview, poi gli highlights e dopo la gara fanno un commento, un po’ come fanno Magrini e Luca Gregorio su Eurosport Italia. La via di mezzo fra un confronto e un battibecco. Per cui ho partecipato ed è stato molto bello. Sono arrivato la sera prima, l’indomani abbiamo fatto tutta la giornata in diretta. E a quel punto Doug Ferguson, il produttore di Eurosport Londra, mi ha chiesto se mi interessasse l’idea di fare qualche giorno con la moto. E io ho detto di sì a pelle, perché sembrava una proposta molto bella. Una bella esperienza da vivere».
Oss si era già dedicato alle interviste al Tour of the Alps, con cui collabora. Qui con TiberiOss si era già dedicato alle interviste al Tour of the Alps, con cui collabora. Qui con Tiberi
Anche perché iniziano a essere parecchi gli ex atleti che si cimentano in questo ruolo…
Infatti mi sono rivisto nell’immagine di Wiggins e dello stesso Blythe. Mi stuzzicava l’idea di essere su una moto dentro la tappa, con il pensiero di viverla e raccontarla offrendo dei piccoli spunti a chi commenta. Per cui ho detto di sì e loro si sono organizzati. Qualche settimana prima del Giro mi hanno contattato e ho confermato, guardando le mie date possibili. Ci stavo dentro bene e non potevo dire di no. Magari a scapito di un allenamento in più o in meno, però era un’esperienza che andava fatta.
Com’è stare in gruppo su due ruote ma senza faticare?
Figo, tutto bellissimo, da insider, però pensavo di vedere di più. Nei miei pensieri prima di cominciare mi vedevo in mezzo al gruppo, però effettivamente ci sono delle dinamiche e delle tempistiche che non immaginavo. C’è chi deve andare avanti, chi va dietro e quindi c’è il tuo momento di vedere l’azione: non ci sei sempre. Anche se, come moto di Eurosport, da giornalista o comunque vogliate chiamare quello che ho fatto, ci sono molte possibilità di vedere bene la corsa da vicino. E’ stato bellissimo.
Loro in bici tu sulla moto, appena un anno dopo…
Soprattutto questo mi ha un po’ spiazzato. Non immaginavo come sarebbe stato vedere i ragazzi far fatica rispetto a me che non la faccio più. Insomma, mi sentivo molto vicino pur essendo molto lontano. Ho riconosciuto la fatica, ma vista da fuori mi ha stupito molto di più. E da fuori è impressionante anche la condotta di gara. La moto dà l’impressione della velocità, dello sforzo che fanno, dell’attendismo, della paura nel muoversi.
Appesa al chiodo la bici da strada, Oss si è dato alla gravel agonisticaAppesa al chiodo la bici da strada, Oss si è dato alla gravel agonistica
In quali situazioni?
La difficoltà nel muoversi in certe circostanze, come può essere il paese o la strada particolarmente ventosa. Tutte queste cose, colte dal mio punto di vista, mi hanno coinvolto parecchio sul piano emotivo. Ho visto per la prima volta da vicino Ganna in una cronometro. Mi ha fatto impazzire, è stato incredibile. E poi anche le volate e le situazioni di vento. Lo sparpagliamento nella tappa di Cento che ha vinto Milan, quando si sono rotti col ventaglio. E io ero lì a vedere in che modo gestivano e superavano le situazioni e questo in un certo senso mi emoziona.
Durante la tappa hai avuto contatti con i corridori oppure la moto sta rigorosamente a distanza?
Le regole sono abbastanza severe. Non si può fare l’intervista ai corridori, si può parlare con le macchine. Tanti corridori li ho salutati, s’è fatta giusto una battuta e ci siamo scambiati un in bocca al lupo. Ad esempio in una tappa sull’Adriatico, Pellizzari non stava bene e lo vedevo che si staccava dal gruppo in pianura. Era tra le macchine, mancava 15-20 chilometri alla fine e io gli dicevo di stare tranquillo. Lui era nervoso, aveva paura di non farcela e io allora gli ho urlato di mollare, che non serviva a niente tenere duro. Meglio recuperare e arrivare, che il giorno dopo sarebbe stato meglio.
Il colpo d’occhio da corridore serve sulla moto?
Il feeling è lo stesso, magari ci vuole un po’ per entrare nei meccanismi e diventare bravi a valutare le situazioni standone fuori. Senti e vedi tutto, però effettivamente senza la spinta di quello che percepisci dalle gambe, è difficile. E’ chiaro che da casa o comunque davanti a una tv capisci molto di più, però dalla moto puoi vedere dei dettagli che da fuori sfuggono.
Con Milan dopo la volata di Cento e un finale da brividi con i ventagliCon Milan dopo la volata di Cento e un finale da brividi con i ventagli
Come funzionavano le tue giornate?
Sveglia la mattina e circa un’ora prima di partire, si faceva un briefing che partiva dalle indicazioni mandate su whatsapp dalla regia e dalla direzione. Dipende dalla trama della tappa. Se c’è una volata in cui se la giocano Milan e Merlier, si fanno le interviste a entrambi, in modo da poterle usare nei momenti in cui serve. Si realizzano servizi slegati da luoghi e tempi, in modo da poterle inserire quando servono.
Pensi che lo farai ancora?
Spero sia andata bene, che gli sia piaciuto. Devo migliorare, mi piacerebbe fare altre esperienze. Vedo che a loro comunque piace l’entusiasmo, il fatto che si lavori in gruppo. Non è solo una questione di lingua madre, ma anche di quello che si trasmette. Gliel’ho detto, vediamo se mi richiameranno. Intanto domenica si corre. E qua vanno tutti davvero molto forte…
Hai parlato di Ganna, com’è stato invece vedere Pogacar in azione?
Beh, cosa posso dire… abbastanza emozionante! E poi il mio parametro è sempre quando piaci ai bambini, allora hai fatto centro. Ma al di là di questo, tecnicamente mi ricorda tantissimo quando mi emozionavo con Peter (Sagan, ndr). Quando faceva quelle cose che, cavoli, resti proprio a bocca aperta. E non puoi che dire: «Wow, che bomba!». Davvero tanta roba…
L'uccisione di Sara Piffer ha colmato la misura. E' tempo di prendere posizione per la nostra sicurezza. Una manifestazione sarebbe il segnale che serve?
Venerdì prossimo sarà un momento importante per il gravel italiano, con la prova delle UCI World Series allestita a Orosei (foto UCI in apertura). Sarà la seconda prova italiana inserita nel massimo circuito dopo la Monsterrato Bike che si svolgerà il prossimo 31 agosto con un nuovo comitato organizzatore. Sarà un esperimento importante anche perché la gara sarda è inserita in un contesto completamente diverso, ossia entra nel Giro di Sardegna per amatori, che da molti anni è un appuntamento fisso per gli appassionati di Granfondo e in generale di bicicletta, accoppiando l’agonismo alla scoperta dell’Isola.
Colonna della nazionale italiana sarà naturalmente Daniel Oss, vicecampione del mondo che nel gravel ha convogliato tutta la sua passione una volta chiusa la sua lunga parentesi professionistica e si è fatto già un’idea specifica sulla corsa sarda.
«E’ una prova per specialisti – dice – e per certi versi mi fa piacere perché significa che la disciplina si sta evolvendo. Mi accorgo anche che il livello sta crescendo molto rapidamente e ci si sta indirizzando verso gare più lunghe. Tra l’altro la prova sarda avrà anche un’importanza particolare essendo qualificativa per le manifestazioni titolate che ci saranno più avanti nell’anno».
Per Daniel Oss un nuovo impegno nel circuito. Alla Indomable è stato 40°Per Daniel Oss un nuovo impegno nel circuito. Alla Indomable è stato 40°
Rispetto a quando sei entrato in questo mondo, che evoluzione noti?
C’è innanzitutto un calendario più attraente e vario che è la testimonianza di come sta crescendo il movimento nel suo insieme. C’è maggiore interesse e questo sta favorendo anche un’evoluzione interna al movimento. Vedo ragazzi che si orientano verso questa nuova disciplina, vedo soprattutto collettivi che si evolvono in squadre vere e proprie e questi sono i prodromi per una disciplina che si afferma. In corsa si vedono sempre più giochi di squadra simili a quelli della strada. E’ un mondo sempre più tecnico che però lascia spazio all’amatore che vuole tramite la bici scoprire il territorio. Io me ne accorgo tramite i feedback sui miei canali social e questo porta sempre maggiori investimenti da parte delle aziende.
Il gravel era interpretato come una via di mezzo fra strada e mtb: ritieni che si stia spostando da una o l’altra parte?
Anche se parliamo di offroad, è più orientato verso la strada perché non servono grandi capacità tecniche, hai più attività metabolica. L’evoluzione agonistica è una conseguenza molto legata alla strada, ma per me la gravel continua ad avere un’identità ancora più legata al divertimento puro.
L’australiano Connor Sens, vincitore della GravelistaUna vittoria italiana nel circuito: Giada Borghesi prima alla Worthersee Gravel RaceAlejandro Valverde, per la seconda volta trionfatore alla IndomableL’australiano Connor Sens, vincitore della GravelistaUna vittoria italiana nel circuito: Giada Borghesi prima alla Worthersee Gravel RaceAlejandro Valverde, per la seconda volta trionfatore alla Indomable
Ti senti un gravelista?
Io sono uno che ha vissuto tutta la vita sulla bici da strada, ho girato il mondo e corso con i più grandi campioni quindi sarò sempre uno stradista. Diventa anche difficile esprimersi dopo 15 anni da pro’ con compagni che hanno vinto tutto. Qui sono più in un mood di scoperta. Mi piace l’aspetto racing, ma guardo molto il contorno. E’ chiaro però che quando indosso il numero, prendo tutto molto sul serio.
In Sardegna che ricordi hai?
Qui facevamo i ritiri della Liquigas, poi c’era il Giro di Sardegna che ho corso già al fianco di Sagan che vinse 2 tappe. Chissà che non possa portarmi dietro qualche altro bel ricordo, anche dal punto di vista agonistico…
Tonino Scarpitti, l’organizzatore. Il GiroSardegnaGravel si affianca al Giro di Sardegna cicloturisticoTonino Scarpitti, l’organizzatore. Il GiroSardegnaGravel si affianca al Giro di Sardegna cicloturistico
L’intuizione di Scarpitti
Il GiroSardegnaGravel nasce da un’idea di Tonino Scarpitti, uno dei personaggi storici che ha vissuto sulla propria pelle l’evoluzione del granfondismo italiano dal secolo scorso, che ha colto tutti di sorpresa.
«Tutti mi dicevano “ma chi te lo fa fare” – racconta – invece io sono convintissimo della mia scelta perché so che il gravel è sul punto di esplodere. Avrà un successo strepitoso e questo territorio è ideale per esaltarlo. Lo dico senza mezzi termini, è il tracciato più bello di tutte le WorldSeries. Ma dove lo trovate un percorso che attraversa la spiaggia di Berchidda proprio a ridosso dell’acqua, oppure che passa in mezzo ai pascoli di pecore e vacche? E’ questo il bello del gravel, può offrire qualcosa di mai visto».
Come sei riuscito a inventare una gara e inserirla subito nel massimo circuito?
Non è stato facile convincere l’Uci, ma il Giro di Sardegna è conosciuto come uno dei massimi eventi amatoriali, che ogni anno richiama una percentuale di corridori stranieri che non si vede nelle altre gare. La gara gravel si inserisce in questo contesto. Noi abbiamo messo subito in chiaro che, per coloro che prendono parte al Giro, non è obbligatoria la presenza anche nella gara gravel. E’ fuori dalla classifica anche perché non tutti potevano portarsi dietro due bici. Ma la risposta da parte amatoriale è stata molto incoraggiante.
Il bellissimo passaggio sulla spiaggia di Berchidda, uno dei momenti topici della gravel sardaIl bellissimo passaggio sulla spiaggia di Berchidda, uno dei momenti topici della gravel sarda
Tu sei abituato a rivolgerti ai granfondisti, come ti sei trovato in un contesto differente come quello delle World Series?
Bene, ma vorrei segnalare un aspetto che non mi aspettavo: molti hanno scelto di venire per pedalare esclusivamente nella gara del 28 aprile, abbinando il gravel al turismo e questa è una scelta che deve far pensare, anche perché la maggior parte viene dall’estero.
Parliamo del percorso…
L’Uci ha imposto la regola di giri di almeno 40 chilometri, questo significa che gli uomini sotto i 60 anni gareggeranno al mattino su 3 giri pari a 147,9 chilometri, le donne insieme alle categorie maschili più grandi su due giri pari a 106,8 km. E’ un percorso impegnativo, su quasi 2.000 metri di dislivello, io credo che sarà molto selettivo ma scorrevole, quando l’abbiamo congeniato abbiamo pensato a una media di 39 all’ora.
Il percorso di gara, un circuito di più di 40 chilometri da ripetere 3 volte (uomini) e 2 (donne)Il percorso di gara, un circuito di più di 40 chilometri da ripetere 3 volte (uomini) e 2 (donne)
Quando hai pensato a questa gara l’hai prevista come “una tantum”?
Sì e no, nel senso che se tutto va come speriamo l’esperienza si ripeterà, stante il beneplacito dell’Uci, ma pensiamo di farne un evento itinerante perché la Sardegna ha tanti posti bellissimi che vogliamo far conoscere. Abbiamo intenzione di spostarci verso Olbia, Alghero, la stessa Cagliari. Io voglio essere pioniere per il gravel in questa terra, d’altronde ormai chi vuole fare cicloturismo compra la gravel o la bici a pedalata assistita.
Qualche giorno fa il Tour of the Alps ha annunciato la collaborazione con Daniel Oss.«Sarà il nostro ambassador», tanto per sintetizzare il tutto. E ci sta. Oss è un ragazzo brillante, è un freschissimo ex pro’, è trentino… Insomma c’erano, e ci sono, tutti i presupposti per una storia che è già interessante (in apertura Daniel Oss, foto di Giacomo Podetti).
Quest’anno il TOTA, abbreviazione Tour of the Alps, andrà in scena dal 15 al 19 aprile. Cinque tappe nell’Euroregio, vale a dire quella zona a cavallo fra Austria e Italia, puntinata dalle cime forse più belle del mondo e solcata dalle valli più affascinanti. E in questo contesto, fra squadre WorldTour, professional e continental, e tappe stuzzicanti, ci sarà anche Daniel Oss appunto.
Dal Sud Africa, dove si trova ora con il team Specialized per provare i modelli gravel in vista del nuovo scorcio di carriera, Oss ci spiega meglio questa avventura.
Daniel Oss (classe 1987) fra il general manager del Tour of the Alps, Maurizio Evangelista, e il presidente del GS Alto Garda, Giacomo Santini (foto Giacomo Podetti)Daniel Oss fra il general manager Evangelista, e il presidente del GS Alto Garda, Santini (foto Giacomo Podetti)
Daniel, come nasce dunque questa collaborazione con il GS Alto Garda, società organizzatrice del TOTA?
Mi ha contattato il GS Alto Garda, la società organizzatrice del TOTA, tramite Maurizio e David Evangelista (che con la loro Vitesse curano il coordinamento organizzativo e la comunicazione della corsa, ndr). Siamo vicini di casa e mi hanno fatto questa proposta che io sposato subito con naturalezza per diverse ragioni. Innanzitutto perché è il nostro territorio e in generale perché c’è una certa empatia per questa gara. Io ho dedicato del tempo al mio territorio. Ho sempre vissuto in Italia. Durante le uscite valorizzavo “casa mia” facendone la palestra di allenamento e mostrandolo sui social… e tutto ciò rispecchia anche i valori del TOTA. Senza contare gli aspetti legati al turismo e all’organizzazione stessa della gara.
Insomma c’era una certa affinità…
Esatto, io poi continuo a pedalare ma lo faccio da un punto di vista diverso, un punto che tuttavia può essere comunque affine al TOTA. Anche perché io tecnicamente non lo ero, visto che è una corsa per scalatori. Anche se ai tempi della BMC aiutai Cadel Evans a conquistare la maglia ciclamino.
Quale sarà il tuo ruolo? Cosa ti vedremo fare?
Quello di far parlare della corsa e di raccontarla. Stare con gli ospiti, i giornalisti e i corridori. E tutto ciò mi entusiasma e mi lusinga. Raccontare il pre e post tappa. In più sono previste delle social ride. Credo sia importante essere presente sul posto.
Nel 2014 grazie alla cronosquadre di apertura, Oss indossò il simbolo del primato dell’allora Giro del Trentino poi divenuto TOTANel 2014 grazie alla cronosquadre di apertura, Oss indossò il simbolo del primato dell’allora Giro del Trentino poi divenuto TOTA
Prima si è detto da un punto di vista diverso. Anche Nibali al Giro ha assaporato questa situazione…
Stare vicino a David e Maurizio mi consentirà di vedere tante cose che da atleta ti sfuggono e mi piace imparare questi dettagli, scoprire queste cose. Potrebbe essere anche l’inizio di qualcosa di nuovo.
Seguirai i social ufficiali?
Vediamo, di sicuro sarò presente sui social. Miei o della corsa, sono un canale molto importante.
Daniel, hai parlato di valori. Spiegaci meglio…
Il TOTA è una corsa che offre spettacolo. Ha percorsi belli, scenografici e la corsa stessa è dinamica grazie ai suoi tracciati mai troppo lunghi. Io stesso ho fatto delle ricognizioni e posso dire che sono percorsi perfetti per lo show.
Sei un corridore, conosci quelle strade, che Tour of the Alps ci possiamo aspettare da un punto di vista tecnico?
Come sempre sarà duro. E su questo non ci sono dubbi. Sarà un banco di prova per coloro che puntano a fare bene al Giro d’Italia, ma c’è anche chi viene per vincere la corsa. E il valore dell’evento lo si nota anche perché c’è proprio chi non viene, perché sa che non può fare bene, non può vincere o non è in condizione. Segno dunque che è una gara importante.
1ª tappa, Egna-Cortina Sulla Strada del Vino: 133,3 chilometri, 2.060 metri di dislivello2ª tappa, Salorno-Stans: 189,1 chilometri, 2.510 metri di dislivello3ª tappa, Schwaz-Schwaz: 127 chilometri, 2.360 metri di dislivello4ª tappa, Laives-Borgo Valsugana: 141,3 chilometri, 3.830 metri di dislivello5ª tappa, Levico Terme- Levico Terme: 118,6 chilometri, 2.490 metri di dislivello1ª tappa, Egna-Cortina Sulla Strada del Vino: 133,3 chilometri, 2.060 metri di dislivello2ª tappa, Salorno-Stans: 189,1 chilometri, 2.510 metri di dislivello3ª tappa, Schwaz-Schwaz: 127 chilometri, 2.360 metri di dislivello4ª tappa, Laives-Borgo Valsugana: 141,3 chilometri, 3.830 metri di dislivello5ª tappa, Levico Terme- Levico Terme: 118,6 chilometri, 2.490 metri di dislivello
Ci saranno da fare un totale di 709 chilometri in 5 tappe, con 13.250 metri di dislivello: c’è un passaggio o un momento chiave?
Credo che tutto sia collegato allo show. Mi spiego: non ci sono salite super lunghe di 10-15 chilometri che potrebbero ammazzare la corsa e che poi in quel periodo si rischierebbe di non affrontare per questioni meteo. E poi ci sono i circuiti finali, nei paesi, dove c’è la gente. Il tutto per rendere la corsa interessante e spettacolare appunto.
Quindi gara aperta fino alla fine?
Salvo azioni particolari, non ci sarà un vincitore con minuti di vantaggio. Le prime frazioni sono più da studio, mentre le ultime due, in Valsugana e nella Valle dei Mocheni, saranno decisive. Sono tappe in cui la squadra è molto importante per quei tratti di transizione. Tratti in cui se un uomo di classifica resta solo rischia di pagare molto.
Una carriera vissuta insieme. Non solo per le strade del mondo, pedalando, perché quando condividi un lavoro che è anche una passione, si sviluppano connessioni strette, quasi inaspettate che vanno al di là e allora condividi confidenze, speranze, illusioni, gioie alternate a delusioni. Peter Sagan ha deciso di lasciare il ciclismo professionistico (non l’agonismo perché il suo sogno olimpico lo ha riportato verso le radici della mountain bike) e Daniel Oss è un po’ orfano. Il trentino continua, va avanti per la sua strada portando con sé un grande bagaglio di ricordi.
La loro amicizia è di lunga data: «Ci siamo conosciuti in Liquigas, lui è arrivato nel 2010, io ero già lì da un anno. Poi ci perdemmo quando io passai alla Bmc mentre lui continuò nel team che era diventato Cannondale, ma le strade che frequentavamo erano le stesse, alle partenze non mancava mai qualche parola, poi ci siamo ritrovati insieme nel 2018 e abbiamo continuato. Non capita spesso che due carriere procedano spedite di pari passo con l’amicizia, è qualche cosa che il ciclismo ha saputo regalarci».
Lo slovacco ai mondiali di Mtb 2023. Ora si dedicherà alla mountain bike puntando ai Giochi di ParigiLo slovacco ai mondiali di Mtb 2023. Ora si dedicherà alla mountain bike puntando ai Giochi di Parigi
Che cosa vi unisce?
Tanto. Diciamo che siamo ciclisticamente compatibili: ci piacevano le classiche prima di tutto, poi avevamo le stesse idee sulla gestione delle gare, anche fisicamente essendo entrambi abbastanza possenti ci trovavamo bene a collaborare, io potevo tirarlo nelle volate evitandogli di prendere aria, potevo risolvere alcune situazioni in gruppo per fargli trovare la posizione più favorevole.
Ma ciclismo a parte?
Siamo simili anche nella vita, abbiamo una mentalità da velocisti. Io dico sempre che un velocista e uno scalatore sono molto diversi non solo in gara, ma anche come approccio alla stessa quotidianità. A me e Peter piace la stessa musica, cii troviamo d’accordo su molte cose. Non su tutto, abbiamo avuto anche noi i nostri confronti, ma in un’amicizia ci stanno. Un amico è anche chi al momento che serve ti mette davanti alla realtà nuda e cruda e noi l’abbiamo sempre fatto. Ma c’è anche altro…
Lo slovacco con Oss, suo compagno per tanti anni, cementando un’amicizia profondaLo slovacco con Oss, suo compagno per tanti anni, cementando un’amicizia profonda
Che cosa?
Abbiamo sempre cercato di sdrammatizzare. Il ciclismo è importante, è il nostro lavoro, ma in fin dei conti è una gara, finita quella ce ne sarà un’altra, quindi diamo il giusto valore a vittorie e sconfitte. Questo non significa non essere professionali, anzi. C’era il momento per scherzare e il momento per applicarsi con tutto se stesso, su questo Peter è sempre stato molto intransigente, ma cercavamo di affrontare tutto col sorriso, non per niente il suo motto è sempre stato “why so serious?”.
La sensazione è che il suo modo di essere, forse anche guascone in certi frangenti, sia servito a cambiare il ciclismo, che oggi è profondamente diverso da quello dei vostri inizi…
La sua filosofia positiva è sicuramente servita. Prima si parlava solo di ciclismo eroico, con stereotipi vecchi e che non erano più legati così strettamente all’attualità. Noi abbiamo dato un segno di cambiamento. Sagan ha capito che si poteva essere al top dando un’immagine diversa, d’altro canto ha subito intuito di essere un personaggio che faceva breccia, sia esteticamente che con il suo fare. Questo ha contribuito a dare una svolta, a mostrare l’immagine di gente che non solo fatica, ma si diverte anche.
Sagan è stato iridato junior di mtb, disciplina nella quale meglio esprime la sua estrositàSagan è stato iridato junior di mtb, disciplina nella quale meglio esprime la sua estrosità
Quanto hanno contribuito i social in tutto ciò?
Enormemente, sono stati lo strumento, ma è stato bravo lui a saperli usare nel modo giusto. La gente vedeva gli spot, i suoi passaggi in tv mai banali, magari sempre con qualche battuta. E’ sempre stato una star, ma Sagan ha anche saputo usare i social per dare risalto a chi era con lui: sponsor, collaboratori, compagni, anche particolari vicende. Poi però il ciclismo ha preso una via sua, diversa da quella che intendiamo noi.
In che senso?
Molti uniscono Sagan alle generazioni attuali, ma non è così. Oggi c’è una concentrazione massima, una pressione enorme, quel disincanto è andato un po’ perdendosi nei campioni di oggi, quasi meccanici nel loro agire. E’ una metodica portata allo stremo a scapito di quella goliardia che faceva bene a questo sport. Forse Pogacar con la sua leggerezza nell’affrontare ogni gara, magari anche col proposito di vincere sempre è quello più vicino al suo e nostro modo di essere.
L’ultimo dei mondiali vinti da Sagan, nel 2017 battendo in volata KristoffL’ultimo dei mondiali vinti da Sagan, nel 2017 battendo in volata Kristoff
C’è però da chiedersi se questi suoi ultimi anni, soprattutto il periodo alla TotalEnegies, li abbia vissuti con la consapevolezza di un lento tramonto agonistico…
Tutti sappiamo che prima o poi si va verso la fine di questa bellissima parentesi che però è sempre tale. Sagan è stato per almeno una dozzina d’anni sulla cresta dell’onda, i campioni di oggi, i Van Aert e Van Der Poel li ha battuti. E’ attraverso di lui che il ciclismo ha vissuto un cambio generazionale. E’ un decorso naturale, che porta il fisico a non dare più le risposte di prima ma anche al venir meno delle motivazioni. Peter non si è mai tirato indietro, non ha mai smesso di onorare i contratti che firmava, l’impegno è sempre stato massimo, ma certamente non poteva più garantire i risultati di prima.
Fa un certo effetto vedere che nella sua ultima gara, il Tour de Vendée, abbia tirato la volata a Dujardin…
Io ci vedo qualcosa di romantico, è una bella immagine. Sagan si è sempre fatto in quattro per gli altri, il suo gesto è un po’ un passaggio di consegne verso le nuove generazioni, ma fa parte del suo essere. Non potrò mai dimenticare il mondiale del 2018, quando si presentò sul palco davanti a Valverde che aveva vinto per stringergli la mano: «Te la presto – riferendosi alla maglia – ricordati che la rivoglio indietro». E’ un personaggio sempre, che sa anche darsi alla gente. Non ricordo un posto dove siamo stati, nel mondo intero, dove qualcuno non sia venuto per un autografo, un selfie, un semplice saluto e lui non dice mai di no.
L’immagine del bellissimo post che l’Uci ha pubblicato per riassumere la lunga carriera di SaganL’immagine del bellissimo post che l’Uci ha pubblicato per riassumere la lunga carriera di Sagan
La vostra è un’amicizia che va al di là del ciclismo?
Sicuramente, conosco tutti i suoi fratelli, la famiglia. Abitiamo molto lontani, lui si divide fra Montecarlo e Zilina, la sua città. Poi sinceramente quando condividi una stagione intera, stesse strade, stesse camere d’hotel, quando stacchi vuoi stare con la tua famiglia. Ora magari avremo occasione per vederci fuori corsa, magari condividere qualche vacanza con le nostre famiglie. La nostra amicizia rimarrà al di fuori del ciclismo e magari neanche ne parleremo più.
Corridore, disegnatore di moda, consulente per il Tour of the Alps e ora nostro inviato alla Unbound Gravel. Daniel Oss racconta un'avventura inaspettata
Come Evenepoel e forse anche meglio, ma dieci anni prima, Peter Sagan è stato l’esempio della carriera di un giovane fenomenocresciuto con regole meno affrettate rispetto ad altri. Lo slovacco, che al Tour de Vendee di domenica scorsa ha disputato l’ultima gara da pro’, probabilmente non era consapevole di poter diventare così importante. Quando si è affacciato sul mondo del ciclismo professionistico, forse non sapeva neppure dove fosse.
Zanatta e Sagan, qui alla partenza del Tour 2013, hanno lavorato assieme sin dal passaggio di Peter nel 2010Zanatta e Sagan, qui alla partenza del Tour 2013, hanno lavorato assieme sin dal passaggio di Peter nel 2010
Parola a Zanatta
Ciascuno di noi abbia avuto la fortuna di vivere Peter da vicino può raccontare aneddoti a non finire. Ma se c’è uno che l’ha visto arrivare e crescere e si è stupito per il portento, quello è Stefano Zanatta, che di giovani se ne intende e della Liquigas di allora era il direttore sportivo. Il trevigiano è a casa con una punta di influenza, ma non si sottrae al racconto.
«Peter arrivò come un fulmine a ciel sereno – racconta – lo prendemmo perché aveva fatto bene nel cross e poi nel 2008 aveva vinto i mondiali juniores di mountain bike in Val di Sole. Su strada sembrava quasi che non corresse, però cominciai a prendere informazioni. Venti giorni dopo quel mondiale, andò al Lunigiana e vinse l’ultima tappa. Allora chiesi se per tornare vero la Slovacchia sarebbe passato di qui. Mi dissero che sarebbe andato a una corsa in Istria e lì vinse due tappe e la classifica. La settimana dopo, ai mondiali di Varese, mi incontrai con il suo manager. Gli proposi di venire con noi, inizialmente fra i dilettanti, perché era un bel corridorino, ma non sembrava che avesse tutte queste potenzialità…».
In pista a Montichiari per lavorare sulla posizione. Sembra un bimbo al luna parkIn pista a Montichiari per lavorare sulla posizione. Sembra un bimbo al luna park
Invece?
Arrivò al primo ritiro con gli under 23, eravamo a Cecina alla Buca del Gatto. Li seguiva Biagio Conte e Peter in teoria a casa non aveva la bici da strada. Gliela avevamo data tre giorni prima e dopo i primi due giorni andarono a fare distanza. C’erano Viviani e Cimolai, entrambi neoprofessionisti, che dovevano partire forte. Era gente che da noi vinceva le corse e tornarono dicendo che questo qui a un certo punto aveva accelerato e li aveva lasciati lì. Biagio era convinto che a casa si fosse allenato, così andai a chiederglielo, ma lui confermò di aver fatto solo un po’ di cross e di mountain bike e tante camminate in montagna. Così ci rendemmo conto che fosse uno fuori dal comune.
Basso raccontò che la sua molla erano le difficoltà economiche della famiglia.
Lui era forte, ma sicuramente viveva in un paese dove la situazione familiare era un po’ incerta. Aveva quattro fratelli e questi ragazzini si divertivano ad andare fuori in bicicletta. Quel primo anno, ero al Giro di Polonia e un giorno me lo vidi arrivare in hotel. Era a casa e si presentò la sera alle sei avendo fatto 100 chilometri per arrivare e altri 100 ne avrebbe fatti per tornare. Era venuto con suo fratello e due amici per vedere la tappa. Non conosceva il ciclismo, quello era uno dei primi contatti.
Prima vittoria da pro’ nel 2010: 3ª tappa della Parigi-Nizza ad Aurillac. Batte Rodriguez e RochePrima vittoria da pro’ nel 2010: 3ª tappa della Parigi-Nizza ad Aurillac. Batte Rodriguez e Roche
In che senso non lo conosceva?
A parte il Tour e la Parigi-Roubaix, perché la nazionale l’aveva portato a fare la Roubaix juniores e lui era arrivato secondo, non sapeva nulla. Le altre corse gliele abbiamo insegnate noi. L’episodio al Tour Down Under del 2010 la dice lunga sul personaggio, anche se io non c’ero e il racconto di Dario Mariuzzo (uno dei tecnici della Liquigas, ndr) è da sbellicarsi dalle risate.
Cosa successe?
Il secondo giorno finì a terra e si fece male a un gomito, con un grosso taglio provocato da una corona, per cui gli misero 20 punti. Non era il Peter brillante di adesso, quando parlava alzava appena gli occhi. Il dottor Magni lo portò in ospedale e rimase con lui per tre ore. E quando ne uscirono, Peter gli disse: «Domani, io start». Magni cercava di farlo ragionare, dicendogli di dormirci sopra e il giorno dopo avrebbero valutato. Ma lui fu irremovibile: «Dottore, io domani start». E infatti ripartì e dopo tre giorni andò in fuga con Armstrong, Valverde e Cadel Evans. Tirò alla pari per tutto il tempo. E quando gli chiedemmo perché mai lo avesse fatto, visto il livello degli avversari, rispose: «Perché ero in fuga e chi va in fuga deve tirare». Era tutto da costruire, anche quando cominciammo a spiegargli che la Parigi-Nizza non era la Coppi e Bartali e ci sembrava strano dirglielo…
L’amicizia con Oss non si discute: qui dominano il Giro del Veneto 2010 e vince il trentinoL’amicizia con Oss non si discute: qui dominano il Giro del Veneto 2010 e vince il trentino
Però intanto alla Parigi-Nizza lo portaste e lui vinse la prima corsa da pro’…
In Francia ci andavamo tutti gli anni dal 2005 e avevamo vinto una sola tappa con Pellizotti,arriva questo e ne vince due: capite perché eravamo sorpresi? A quel punto cominciammo a tutelarci perché non ce lo portassero via e insieme pensammo a come fare per farlo crescere gradualmente. Ci eravamo resi conto che poteva veramente andare tanto in alto: la fortuna di avere una squadra forte alle spalle, gli avrebbe permesso di lavorare con calma. Altrimenti già quell’anno avremmo avuto la tentazione di portarlo alla Sanremo. Invece avevamo la squadra fatta per Bennati e a lui dicemmo che semmai l’avrebbe corsa l’anno dopo.
E’ stato difficile gestirlo così? Oggi si tende a buttarli subito dentro…
A noi sembrava logico fare così, perché la scuola che ho avuto era questa. Farli crescere un po’ alla volta, mentre adesso le teorie sono un po’ cambiate e quindi magari qualcuno preferisce avere tutto subito. Non so se sia meglio o peggio, dico che quella era la logica del momento: seguimmo lo stesso metodo di lavoro usato con Vincenzo (Nibali, ndr). Cioè portare i giovani a fare corse buone dove potessero esprimersi. Che senso aveva portarlo alla Sanremo perché tirasse per il Benna?
Al Giro di Svizzera del 2011 iniziano le vittorie prepotenti. Qui vince a Shaffausen su Goss e SwiftNel 2011 debutta alla Vuelta e vince tre tappe: qui la 6ª a Cordoba, su Lastras, Agoli e NibaliAl Giro di Svizzera del 2011 iniziano le vittorie prepotenti. Qui vince a Shaffausen su Goss e SwiftNel 2011 debutta alla Vuelta e vince tre tappe: qui la 6ª a Cordoba, su Lastras, Agoli e Nibali
Nel 2010 aveva 20 anni tondi, ma non ha mai avuto le dichiarazioni altisonanti di Evenepoel…
Peter non ha mai avuto la mania, tra virgolette, di pensare di essere il più forte. Però ha sempre corso per vincere e il suo fisico gli permetteva di farlo, anche se gli allenamenti non erano perfetti e mangiava di tutto. Bastava che buttasse dentro, secondo lui il cibo era cibo. Poi ha cominciato a capire che ci sono delle regole, ma in quegli anni mi diceva che poteva vincere anche se mangiava solo una brioche. Era vero, ma non si potevano riscrivere le regole dell’allenamento perché lui era un’eccezione.
Si rendeva conto di essere così forte?
Secondo me nei primi anni no. Almeno fino al 2014, quando è andato via e ha cominciato a capire la gestione delle corse per spendere meno energie. Lui andava. Gli bastava salire in bici, pedalare, stare davanti e fare bagarre quando c’era da lottare. Non ti chiedeva mai quale fosse il punto giusto per attaccare, anche se ascoltava molto quello che gli consigliavamo.
Nel primo Tour nel 2012, Sagan comincia vincendo a SeraingA Metz, sesta tappa del Tour 2012, questa volta Sagan vince imitando HulkNel primo Tour nel 2012, Sagan comincia vincendo a SeraingA Metz, sesta tappa del Tour 2012, la vittoria imitando Hulk
Giocava anche nelle famose tappe del Tour vinte con un pizzico di… arroganza?
Quell’anno, era il 2012, si divertiva tanto. Andava veramente forte, ma è un fatto che dopo quella prima Parigi-Nizza ci dicemmo con gli altri tecnici che non avremmo più dovuto pensare di andare alle corse come facevamo prima. Bisognava cambiare modo di approccio alle gare e la disposizione in corsa. Perché Sagan ha portato la possibilità di fare nel ciclismo quello che nessuno aveva immaginato. Peter era avanti a tutti per il suo modo di pensare e di fare. Lo dicevamo nelle riunioni con Scirea, Volpi e Mariuzzo: «Ragazzi, non pensate di ragionare con Peter come per gli altri». Non aveva limiti. Per come andava in salita, avrebbe potuto vincere anche le corse a tappe più leggere, però mentalmente non riusciva a stare troppi giorni concentrato.
Peter ha sempre voluto attorno un gruppo solido di amici, da Oss a Viviani, Da Dalto e gli altri di quella Liquigas.
Quando è arrivato, non parlava tanto, magari per la lingua. Era più riservato, più cupo, ti guardava un po’ così. Invece dopo un po’ ha scoperto di far parte di un bel gruppo. Ha avuto un ottimo rapporto anche con Da Dalto, che nei primi anni lo andava a prendere, lo aiutava a fargli trovare i posti dove fare la spesa. L’ha fatto vivere come uno del posto. Poi con ragazzi come Oss e Viviani ha tirato fuori il suo spirito goliardico ed è nato il Peter che tutti conosciamo. Uno che in allenamento non stava mai fermo, era sempre fuori dalla sella anche quando facevamo 150 chilometri ed era sempre lì a fare scherzi e toccarli. Forse all’inizio si è sentito un po’ isolato in una squadra di italiani, quando poi è arrivato anche suo fratello, si è sciolto.
La Liquigas è una famiglia. Sagan, Oss e Viviani sono quasi coetanei e formano una banda impertinente e forteL’UCI fiuta il personaggio e lo invita al Galà di Curacao nel 2011. In stagione, Sagan ha vinto 15 corseLa Liquigas è una famiglia. Sagan e Oss sono quasi coetanei e formano una banda impertinente e forteL’UCI fiuta il personaggio e lo invita al Galà di Curacao nel 2011. In stagione, Sagan ha vinto 15 corse
Ti è dispiaciuto che quel gruppo si sia sciolto?
Quando decise di andare via, mi aveva chiesto da gennaio se avessi piacere di andare con loro, seguendo il suo gruppo. Io però non me la sentii, perché comunque era la Liquigas e avevo un ottimo rapporto Roberto Amadio. Insomma, a gennaio non avrei mai pensato che ci lasciassero per strada, per cui ci siamo salutati come si fece con Vincenzo e con tanti altri. Peter ha fatto la sua strada e la mia indole non è mai stata quella di seguire un atleta, anche se a lui ero molto legato. E’ il corridore che sono andato a prendere quando aveva 18 anni e che è diventato grande davvero. Però è rimasto un ottimo rapporto. Se c’è qualcosa, risponde subito.
Quando ti sei accorto che la sua stella si stava offuscando, fermo restando che ha fatto 13 anni da pro’?
Non pensavo che avrebbe fatto una carriera così lunga. Uno che corre come lui anche per divertirsi, a un certo punto non trova più gli stimoli. Invece lui è stato bravo a tener ancora bene, a parte questi ultimi due anni. Il suo modo di correre è stato dispendioso, bisogna fare sempre più sacrifici e intanto arrivano i giovani. Dopo dieci anni di carriera, ti ritrovi in una situazione che non riconosci più. Secondo me, Peter ha smesso di divertirsi dopo il terzo mondiale consecutivo, quando arrivava uno e gli chiedeva una cosa, arrivava un altro e gliene chiedeva un’altra. E a quel punto ha un po’ mollato. Fisicamente ne aveva ancora far bene, però non era più Peter con la cattiveria di prima.
Cosa accomuna Sagan e Van der Poel? Lo abbiamo chiesto a Bartoli. Hanno la stessa potenza devastante. Al momento Mathieu ha più fame, ma Peter può tornare
La stagione del ciclocross è in rampa di lancio, anzi già qualcosa si è mosso sia in Italia che in Svizzera, ma Daniele Pontoni in questo momento è concentrato sul gravel. Non bastasse il mondiale dell’8 ottobre nella Marca Trevigiana, l’UEC ha inserito anche il neonato europeo esattamente una settimana prima, in Belgio, ma con i calendari strada e marathon di mtb ancora in pieno svolgimento. Far quadrare il cerchio è davvero difficile, molto più di quanto lo fu lo scorso anno.
Daniel Oss al centro fra i cittì Celestino e Pontoni. Il trentino vuole tornare sul podio mondialeDaniel Oss al centro fra i cittì Celestino e Pontoni. Il trentino vuole tornare sul podio mondiale
Pontoni non nasconde le difficoltà, ma parte da un concetto base: «Saremo presenti ad entrambe le manifestazioni, questo è certo. Non so ancora con chi, ma saranno due squadre diverse anche se ci saranno corridori che doppieranno e questo perché i due tracciati di gara avranno caratteristiche differenti. Il mondiale è stato disegnato su un tracciato impegnativo, che sono sicuro farà selezione, con strappi brevi e duri che alla lunga si faranno sentire».
Mentre l’europeo?
E’ un percorso più scorrevole, dove i passisti potranno avere buon gioco. Nella scelta mi baserò sulle caratteristiche dei singoli e sulla strategia da adottare per ognuna delle due gare. Non nascondo che dobbiamo puntare al podio, soprattutto per la gara iridata che corriamo in casa, come abbiamo già fatto lo scorso anno.
L’europeo sarà nelle foreste del Brabante, a Oud-Heverlee: 159 chilometri (131 per le donne)Il percorso del mondiale gravel dell’8 ottobre, oltre 160 chilometri per 2.000 metri di dislivelloL’europeo sarà nelle foreste del Brabante, a Oud-Heverlee: 159 chilometri (131 per le donne)Il percorso del mondiale gravel dell’8 ottobre, oltre 160 chilometri per 2.000 metri di dislivello
L’europeo a una settimana di distanza dal mondiale è secondo te un vantaggio o uno svantaggio?
Dipende da come lo si guarda. Io voglio prenderlo come una prova generale e non mi riferisco solamente agli atleti che gareggeranno, ma anche allo staff, a noi che saremo fuori gara. Sarà un modo per prendere sempre più confidenza con la specialità e la tipologia del mezzo, ben diverso sia da una bici da strada che da una mountain bike. Il gravel sta correndo nel suo cammino di affermazione, è difficile tenere il passo, ogni occasione va sfruttata al massimo.
Ma il progresso sta procedendo geograficamente di pari passo?
No e questo mi dispiace. Da noi, in Europa ma ancor più in Italia, c’è ancora un po’ di scetticismo, anche se vedo che cominciano a nascere team specifici e questo è un passo basilare per l’affermazione della specialità. In America sono molto più avanti, si sta affermando una cultura, esattamente com’era avvenuto nella mountain bike.
Il ceko Petr Vakoc quest’anno primo a Swieradow-Zdroj e alla Monsterrato, tappe delle World SeriesIl ceko Petr Vakoc quest’anno primo a Swieradow-Zdroj e alla Monsterrato, tappe delle World Series
Lo scorso mondiale aveva visto gli stradisti avere vita facile, chiaramente con una preponderanza per quelli abituati alla multidisciplina. Pensi che quest’anno ci saranno più specialisti puri nelle parti alte della classifica?
Io credo di sì, ma credo anche che, se l’europeo si presta a una soluzione simile, il mondiale vedrà contendersi il titolo ancora gente che viene dalla strada. Chi viene dal WorldTour ha un colpo di pedale superiore anche a chi frequenta la mountain bike, c’è una disparità di forze e ne dovrò tenere conto nelle convocazioni. Credo però che ci sarà qualche inserimento in più da parte di chi frequenta unicamente le corse di gravel.
Ti sei fatto un’idea di chi saranno i favoriti?
Difficile dirlo non sapendo chi sarà al via, credo comunque che Belgio e Olanda presenteranno in entrambi gli eventi formazioni molto qualitative perché so che ci tengono molto. C’è poi l’incognita legata a Van Aert, se sarà al via l’8 ottobre al mondiale, il favorito d’obbligo sarà lui, anche per la voglia di mettere fine alla collezione di secondi posti…
Van Aert ha vinto l’Houffa Gravel con grande facilità. Il mondiale sarebbe un riscatto in un anno difficileVan Aert ha vinto l’Houffa Gravel con grande facilità. Il mondiale sarebbe un riscatto in un anno difficile
Hai già in mente chi schierare?
Qualche nome ce l’ho già, ma non sarebbe giusto farli prima di ufficializzare le squadre, anche se è chiaro che Oss, vicecampione mondiale in carica, non potrà non esserci. Quel che posso garantire è che presenteremo squadre popolate di gente con la voglia di far bene, perché correre un mondiale in casa ha un valore particolare in qualsiasi specialità. Il problema sono le concomitanze, considerando che ci sarà la Tre Valli che coinvolge molti team del WorldTour al maschile e al femminile e c’è la Coppa del mondo di mountain bike negli Usa. Noi comunque ci sapremo far valere, non ho dubbi.