Anni ed anni di allenamento. Chilometri, ripetute, altura, ritiri… Il fisico può assuefarsi per davvero? Si può abituare? Può succedere che una seduta da 200 chilometri e 3.000 metri di dislivello non porti più benefici o miglioramenti?
Ne parliamo con Andrea Morelli, uno degli storici preparatori del Centro Mapei Sport. «Se si applicano sempre gli stessi metodi il corpo non migliora più – dice – smette di rispondere agli stimoli. Si parla infatti di “minor stimolo allenante”, cioè quanto devo fare per migliorare. Non è detto che per migliorare 10 devo fare 100, posso anche fare 50. Ma con il tempo questa soglia di assottiglia sono costretto a fare di più di quel 50 e non è facile cambiare le cose».
Gli stimoli giusti
«Spesso – dice Morelli – accade che per continuare a migliorare ci si allena troppo e si creano due condizioni: over reaching e over training. Il primo è uno stato di affaticamento del fisico che dopo 4-7 giorni di recupero o riposo non solo passa, ma può anche portare dei miglioramenti. Il secondo è invece uno stato più complesso: il corpo non riesce più a perfomare, sei sempre stanco ed è uno stato che si protrae per periodi molto lunghi, anche mesi. Subentrano aspetti psicologici, ormonali… e non solo fisiologici.
«Ci sono dei modelli matematici (Performance Modeling) nei quali vedi che se per 20-30 giorni applichi lo stesso stimolo non migliori più, si chiama stagnazione. Ma attenzione, la realtà poi è diversa. Variano il clima, la temperatura, l’aspetto psicologico… E poi ogni anno è diverso dall’altro».
Margini al limite
Sulla base di questo argomento, ci viene da pensare a Nibali. Si è staccato dal suo storico preparatore, Paolo Slongo. Sembra che il siciliano abbia sentito l’esigenza di cambiare metodo di lavoro, probabilmente di sentire e provare altri stimoli. Ma certo a 36 e passa anni, non è facile intraprendere un nuovo cammino. Di certo è lodevole, perché ci dice della voglia dello Squalo di mordere ancora.
«In generale – riprende Morelli – i professionisti hanno margini di miglioramento che diminuiscono con gli anni. Si è costretti a fare carichi crescenti a fronte di miglioramenti piccolissimi, specie per gli atleti fortissimi. Con gli anni tutti i meccanismi si ottimizzano. L’atleta impara ad utilizzare gli zuccheri, a consumare di meno, arriva al top dal punto di vista tecnico, la sua pedalata è efficiente. Si chiamano “marginal gains” e serve una grandissima motivazione per continuare su quella strada, per limare qualcosa».
In poche parole è un po’ come un imbuto che si restringe sempre di più. Servono più sacrifici, si può migliorare poco e tutto deve essere sempre al top. In più c’è l’aggravante che magari il soggetto sia arrivato al suo massimo. In questo caso può solo mantenere.
La testa conta
«Quindi l’assuefazione esiste – riprende Morelli – ci sono esempi di atleti molto longevi che continuano a performare, ma magari nel corso degli anni hanno optato per gestioni diverse, con lunghi stacchi durante le stagioni. A 35 anni non si può più pensare di fare quel che si faceva a 25 anni, già solo il recupero cambia. Magari prima quell’atleta riusciva ad andare forte in tutte la gare, adesso invece deve selezionare dei periodi.
«Io poi sono rimasto molto colpito da questi giovani di oggi nei grandi Giri. Di solito la terza settimana era favorevole a coloro che avevano una certa esperienza e abitudine a certi sforzi, invece lo scorso anno non è stato così. E neanche possiamo dire perché gli altri sono andati piano. No, sono loro che hanno fatto prestazioni particolari. Pertanto questa cosa la dobbiamo considerare. Ha risvolti psicologici non secondari sugli altri».
Morelli parla spesso dell’importanza della testa. L’aspetto psicologico è primario per lui. In tal senso ricorda come Basso ed Evans, pur sapendo di fare una cosa sbagliata, chiedevano a lui e al professor Aldo Sassi di eseguire un super allenamento prima di un grande appuntamento.
«Ivan in particolar modo voleva fare una seduta distruttiva di 8 ore, 8 ore e mezza. Ne nascevano anche accese discussioni. Però se lui usciva bene da questa seduta sapeva che era pronto per il Giro o l’appuntamento a cui puntava. Si sentiva forte e pronto. A quel punto si cercava solo di fargliela fare in un momento che non fosse troppo deleterio, cosicché avesse il tempo di recuperare».
In corsa per vincere, sempre
Certo, pensare che Nibali a Prati di Tivo, nell’ultima Tirreno, sia andato più forte di un minuto rispetto al 2013 e che a sua volta si sia staccato fa riflettere noi ed è una potenziale “botta” per l’atleta.
«Sicuramente dall’anno scorso stiamo assistendo a delle prestazioni straordinarie, però occhio a fidarsi solo dei numeri. Oggi si sbandierano i dati della potenza, soprattutto quella normalizzata che è un po’ più alta, perché “fa molto figo” e fa audience… Dal punto di vista dell’atleta dico che può essere soddisfatto perché ha visto che è migliorato, dall’altra lui stesso dice: okay sono migliorato, ma ho anche preso più di un minuto. Bisogna vedere quanto siano reali tutti quei dati».
Infine c’è un punto di vista che espone Morelli molto interessante. Riguarda Nibali, ma non solo lui sia chiaro.
«Una volta – conclude Morelli – si andava alle gare anche per allenarsi. In alcune corse, soprattutto se eri forte, potevi non essere al top e fare quel lavoro che in allenamento evidentemente non riesci a fare. Lo stimolo psicologico non può essere lo stesso se devi fare delle ripetute forti, certi livelli di fatica non li raggiungi in allenamento. Dopo un po’ stacchi. In corsa invece puoi tenere duro e andare oltre. Adesso tutto ciò non è più possibile. Nel caso di Nibali, pensando a Prati di Tivo, magari otto anni fa lui non era a tutta».
Tutto ciò combacia perfettamente con quel che ci ha detto Pino Toni pochi giorni fa: gli atleti della nuova generazione sono più portati a fare allenamenti ad alta intensità in vista delle gare. E chi sfruttava appunto le gare non ha più questa possibilità.