Con la Vuelta ormai alle spalle il sole inizia a tramontare anche su questa stagione agonistica. Non prima, però, di illuminare gli ultimi impegni, tra cui mondiale e Giro di Lombardia, ultima classica monumento del calendario. In terra iberica è stato definitivamente consacrato il talento cristallino di Evenepoel. Il giovane belga ha indossato la maglia rossa alla sesta tappa e l’ha portata fino a Madrid. Tra i giovani in corsa si è messo in luce anche Edoardo Zambanini, migliore italiano in classifica generale: 36° a un’ora e mezza da Evenepoel.
Il trentino di Riva del Garda era alla sua prima esperienza in un grande Giro. Si è messo a disposizione della squadra, portando a casa una bella prestazione ed un terzo posto alla nona tappa, che regala tanta motivazione e la voglia di tornare alla Vuelta e riprovarci.
Cosa fa un corridore quando torna dalla Vuelta?
Dopo tre settimane di corsa ininterrotta mi sono goduto la famiglia. Stare lontano da casa per così tanto tempo è strano, perché quando corri tutto scorre veloce, ma appena ti fermi realizzi che sei stato via un mese. Quindi, in questi giorni poca bici e tanto tempo con amici e parenti, mancavano.
Qual è la cosa che ti ha colpito maggiormente?
Direi tante, ma quella che mi ha lasciato senza parole è il livello che si trova in corsa. Andavamo fortissimo tutti i giorni, praticamente sono state 21 corse di un giorno raggruppate tutte insieme.
Prima di partire che hai pensato?
Inizialmente ero abbastanza agitato, quando è arrivata la chiamata dalla squadra ero davvero nervoso. I miei diesse: Pellizotti e Florencio, mi hanno tranquillizzato dicendomi di pensare giorno dopo giorno. Così ho fatto, anche se, devo ammettere, che certi giorni pensavo «abbiamo ancora tante tappe davanti e tutte dure» poi mi ricomponevo e cercavo di non pensarci.
Quando hai scoperto che saresti andato alla Vuelta?
Pochi giorni prima dell’inizio, da un certo punto di vista è stato un bene, anche perché non ho avuto tanto tempo per tempestarmi di domande e agitarmi ancora di più (dice ridendo, ndr). Uscivo dal Giro di Polonia dove ho lavorato bene con il mio preparatore: Paolo Artuso. Abbiamo trovato un bel modo di fare e grazie a lui sono riuscito ad essere costante per tutta la stagione.
I giorni prima della partenza come li hai vissuti?
Ho realizzato di partire per la Vuelta solamente quando mi sono trovato la valigia vuota davanti. Lì, in quel preciso momento la tensione è schizzata ai massimi livelli.
Immaginiamo allora in aereo, seduto davanti al finestrino…
Il viaggio l’ho fatto da Venezia, insieme a Franco (Pellizotti, ndr) e Roman Kreuziger, e direi per fortuna. Li ho tartassati di domande e dubbi, loro mi hanno tranquillizzato, mi hanno davvero aiutato molto.
Qual è stata l’emozione più grande, la prima tappa o l’ultima?
Sono state due emozioni differenti: quella di Utrecht era un mix di agitazione e tensione, la partenza di un grande Giro. Prima lo avevo solamente sognato. Quella di Madrid è stata da pelle d’oca, c’era un mare di gente ad aspettarci nel circuito finale, in quel momento ho realizzato che avevo portato a termine una bellissima esperienza ed una grande corsa.
Ti sei anche goduto la passerella finale di Nibali e Valverde.
Sì, che roba. Indescrivibile. Nel corso della tappa finale ho avuto anche modo di parlare con Vincenzo. Abbiamo avuto modo di confrontarci: sulle tappe, l’emozione di quel saluto calorosissimo… E’ un momento che ricorderò per sempre. E’ un corridore che ho sempre ammirato, ho il ricordo di me da bambino che lo guardavo vincere queste corse in televisione. Essere presente alla sua ultima è stato davvero particolare.
Con chi eri in stanza?
Con Luis Leon (Sanchez, ndr). Mi ha aiutato molto, soprattutto nella fase iniziale. Anche lui aveva capito che i primi giorni ero agitato, mi ha rassicurato dicendomi che sarebbe stata dura ma che facendo tutto per bene ce l’avrei fatta.
Correre con Landa come capitano che sensazione ti ha lasciato?
Avevamo già corso insieme, al Tour of the Alps. Lui dietro lo schermo sembra sempre serio ma in squadra è molto gentile e simpatico. E’ un corridore che mi piace davvero molto, un esempio per tutti, soprattutto per me, anche come tipologia di atleta. E’ serio quando deve, insegna sempre qualcosa, e sa cogliere i momenti giusti per una battuta o uno scherzo.
Tappa preferita?
Mi è piaciuta molto quella di Sierra Nevada. Eravamo ben coperti in fuga con Gino Mader. Prima della salita finale ne dovevamo affrontare un’altra di 8-9 chilometri dove il gruppo si è frazionato. Sono riuscito a rimanere insieme ai primi, stare con loro mi ha dato una grande carica. Sulla salita finale sono rimasto fino a quando ho potuto con Landa, poi ho continuato con il mio passo. Avevo anche il tifo da casa, sono venuti a trovarmi i miei genitori e mia sorella, è stata una sorpresa, non ne sapevo nulla. Averli così vicini mi ha dato una carica in più.
Il giorno più difficile?
La 19ª tappa. Mi sono venuti i crampi in cima all’ultima salita, mi sono idratato poco e l’ho pagata. Ero riuscito a rimanere nel gruppo principale e in discesa ero pronto a lavorare per Landa. Ma appena passato lo striscione del Gpm ho sentito le gambe bloccate, ad un certo punto mi sono dovuto fermare a bordo strada dal dolore. E’ la tappa che mi è rimasta più indigesta, avevo praticamente terminato, mancavano solo la discesa e l’arrivo, invece i crampi mi hanno fermato.
Insieme a Tiberi eri uno dei più giovani in gruppo.
Era strano, soprattutto i primi giorni. Essere accanto a persone con così tanta esperienza, che sanno gestire queste corse mi ha messo un po’ in difficoltà mentalmente. Tiberi ed io siamo molto amici, negli anni abbiamo condiviso tante esperienze, anche in nazionale. Ci siamo sostenuti a vicenda, dicendoci che in futuro ci riproveremo, anzi magari ci daremo battaglia proprio noi due su queste strade (dice con voce allegra Zambanini, ndr).