Alberto Dainese è stato avvertito in extremis che avrebbe fatto il Giro. Così si è ritirato dal Romandia e ha cominciato a riempire la valigia. Quando una corsa di tre settimane ce l’hai nel programma da inizio anno, sai di seguire un avvicinamento preciso, che include l’altura. Quando te lo dicono pochi giorni prima, speri sia sufficiente quello che hai.
«La cosa importante è che faccio il Giro – dice con calma e saggezza – mentre per il resto della stagione mi sono attenuto alle decisioni della squadra. Non ho iniziato come punta, però magari non ho dato le certezze che al Team DSM si aspettavano. Non ho ottenuto risultati al livello degli anni scorsi, potrebbe essere una componente».
Il 2022 a due facce
Il 2022 di Alberto Dainese si è chiuso il primo settembre contro un’auto e poi all’ospedale di Lugano, da cui è uscito dopo qualche ora con un taglio nel braccio e qualche dente rotto. Fino a quel momento la stagione era stata più che positiva, con 81 giorni di corsa, fra cui spiccavano il Giro e il Tour. Nel primo, la vittoria di tappa a Reggio Emilia lo ha proiettato fra coloro che possono fare grandi cose. Nel secondo, il terzo posto nella 19ª tappa dietro Laporte e Philipsen ha evidenziato che il recupero non gli manca. Inutile dire che da quel doppio impegno, con il Giro del Belgio nel mezzo, il padovano sia uscito stanco morto. Per cui il mese di stop forzato per la caduta, volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, lo ha costretto a recuperare.
Lo intercettiamo mentre finisce di preparare le ultime cose: domattina si parte. Il Giro comincerà sabato con la crono di Ortona, la prima volata è annunciata per l’indomani nella Teramo-San Salvo.
Torniamo al 2022: ti aspettavi di vincere la tappa di Reggio Emillia?
No, non me l’aspettavo. In realtà prima del Giro ero sempre ammalato, non andavo mai, non riuscivo a trovare la quadra, quindi la vittoria è stata una sorpresa. Invece nel giorno di riposo a Pescara ho sentito di stare finalmente bene. L’indomani c’è stata la tappa che ha vinto Girmay e mi sono staccato proprio a 500 metri dalla cima dello strappo. Così ho capito di avere la gamba per fare qualcosa. E a Reggio Emilia ho vinto io.
Hai battuto Gaviria, Consonni, Demare, Ewan e Cavendish. Che effetto fa?
Ti dà un po’ di consapevolezza, ma anche no. Sai che puoi farlo, ma anche che puoi non rifarlo più. Devi sperare che vada tutto bene un’altra volta. La cosa principale è partire per fare le volate, quella è la cosa principale. Ad esempio alla Tirreno, ero convinto di poter vincere l’ultima tappa, ma anche quel giorno non ero io l’incaricato dello sprint. L’ho saputo negli ultimi chilometri, l’ho fatto e ci sono andato vicino. Però fra vincere e fare lo sprint dalla ventesima posizione arrivando terzo, c’è una bella differenza. Le volate sono così. Può andarti di fortuna e vinci anche se non sei il più forte o magari puoi avere la giornata super e non vincere perché non ti va di fortuna.
Fare la volata dalla ventesima posizione significa non aver avuto la squadra?
C’è stata una concomitanza di eventi, che mi ha portato a fare gli ultimi chilometri da solo, ma non è stata colpa di nessuno. Era un arrivo un po’ strano che conoscevo. Ho preso come riferimento Girmay, che nelle volate precedenti aveva avuto il treno migliore, invece quel giorno ha fatto diciottesimo. Ho puntato su quello sbagliato (ride, ndr).
Com’è andare alla partenza del Giro senza averlo preparato nei dettagli?
Paradossalmente, con la chiamata all’ultimo momento, magari vado meglio. Sono stato riserva al Tour of the Alps e al Romandia, però non mi sono ammalato e magari ho fatto la preparazione migliore. Sono riuscito a fare allenamenti costanti per mesi, senza interruzioni per la febbre, come invece era stato l’anno scorso. Poi è chiaro che se fossi stato un corridore da classifica, avrei fatto l’altura e poi il Romandia. Per fare bene al Giro un velocista deve essere parecchio resistente, perché c’è una sola tappa piatta, ma non può neanche perdere la componente esplosiva. Quindi c’è da lavorare su entrambe le cose ed è quello che ho fatto. Insomma, anche se non sapevo di fare il Giro, ci arrivo abbastanza preparato.
Quali tappe hai cerchiato di rosso?
E’ una bella domanda, perché dipende molto da come si fanno le salite, da chi controlla e se c’è controllo. Ci sono volate sporche, diciamo così, da fatica, che devi guadagnarti. Però ci sono anche corridori adatti per quelle giornate, come Magnus Cort che sta andando fortissimo in salita, oppure Pedersen. Può essere che si infilino in prima persona in una fuga, come ha fatto Pedersen quando ha vinto la tappa al Tour del 2022. Penso alla quinta, che sembra facile, ma non lo è. Anche la terza è impegnativa, idem quella di Napoli. Quella che sembra scontata è la tappa di Caorle, se non altro perché è tutta in discesa. Sarebbe stupido perdere un’occasione del genere però l’anno scorso una tappa identica, quella di Treviso, siamo riusciti a perderla lasciando arrivare la fuga.
La tappa di Cassano Magnago ha il Sempione in partenza, cosa si può fare?
C’era una tappa simile l’anno scorso a Messina, mi sembra (in mezzo c’era da scalare la salita di Portella Mandrazzi, vittoria di Demare, ndr). Il Sempione ha la pendenza media del 6 per cento, devi tenere botta nella parte iniziale perché c’è un tratto parecchio pendente, poi si riesce a salire. Dalla cima ci sono quasi 140 chilometri all’arrivo, quindi ci sta che ti organizzi e rientri. Se invece uno come Pedersen sta bene e si infila nella fuga, diventa un massacro, col gruppo dietro che tira e quelli davanti che non mollano.
Si parte per vincerne un’altra?
Sarebbe stupido non pensare di farlo. Poi bisogna vedere se faccio io le volate, perché ci divideremo i compiti con Marius Mayrhofer che ha vinto a inizio anno in Australia (Cadel Evans Great Ocean Road Race, ndr). Anche quella era una corsa impegnativa con il finale in volata, quindi potrebbe fare bene a sua volta in certi arrivi. Per me l’obiettivo è vincere, non lo nego. Anche per me stesso, per dire che la vittoria dell’anno scorso non è stata per un colpo di fortuna.