Capecchi saluta col sorriso. Le sue piante lo aspettano

25.10.2021
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Sembrava lontanissimo ma alla fine questo momento è arrivato: Eros Capecchi, 35 anni, appende la bici al chiodo e lo fa dopo 17 anni di elevato professionismo. Diciassette stagioni in cui il corridore della Bahrain-Victorious ha ottenuto grandi vittorie, specie con i suoi capitani, qualche sconfitta, si è sciroppato lunghe sgroppate sulle montagne, il caldo, il freddo, si è buttato in tante fughe…

Eros passò professionista nel 2006 alla Liquigas, ma fece già lo stagista l’anno prima, a soli 19 anni. Da lì andò alla Scott, poi Fuji-Servetto di Gianetti e Maxtin (che già aveva l’occhio lungo per quel che riguarda i giovani), quindi di nuovo alla Liquigas. Poi Movistar, Astana, Quick-Step, Bahrain: sempre squadre di primo ordine.

Insomma Eros, è tutto vero?

Sì, è tutto vero, era il momento giusto. Un po’ di anni li abbiamo fatti, no! È giusto lasciare spazio anche ai più giovani.

Ed è stato un momento che è arrivato in modo improvviso?

No, ci sono dei periodi in cui ti sembra che puoi proseguire normalmente, ma poi ti accorgi dai dettagli che è arrivato il momento di smettere. Ad inizio stagione mai avrei detto che avrei smesso…Poi però succede che gareggi un po’ meno, fai pause più lunghe… e qualcosa cambia. Quando ho annunciato il mio ritiro qualche giorno fa era un mese che non toccavo la bici e non avevo voglia di riprenderla.

Con la Bahrain poi non avevi rinnovato…

No, con loro no. Però una squadra l’avrei trovata. E in realtà c’era. Ne ho anche parlato con il mio procuratore. Gli ho detto di cercarla, ma senza tutta questa convinzione. Non me la sentivo di prendere un impegno sapendo che non avrei magari svolto il mio mestiere al 100%. Ci sarebbe stato il rischio di prendere in giro l’eventuale nuovo team e soprattutto me stesso.

Tu sei passato giovanissimo, non hai praticamente fatto i dilettanti, in un’era in cui tutto ciò non accadeva. Adesso invece sembra essere la normalità o quasi…

Oggi è molto diverso. In quell’epoca siamo stati io e Pozzato a non aver fatto i dilettanti. Solo che Pippo andò nella Mapei Giovani, che di fatto era una sorta di continental dell’epoca, mentre io iniziai direttamente con il WorldTour (all’epoca ProTour, ndr). E questa cosa fece scalpore. Oggi è più normale, magari non ancora tantissimo in Italia, ma all’estero succede di più.

Giro 2011: a San Pellegrino Terme vince Capecchi. La perla della sua lunga carriera
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Vero, si tende a buttare i ragazzi nella mischia. Quali difficoltà incontrasti?

Una volta c’era sempre un qualcosa da scoprire, da imparare nel corso degli anni. E la dovevi imparare da solo. Avevi i tuoi tempi: capivi come dovevi allenarti, come dovevi mangiare, come correre, l’osteopata lo vedevi una volta all’anno… Adesso invece tutti i team hanno: nutrizionista, preparatore, osteopata, psicologo… chi dimostra, dimostra subito. Non hai tempo, non fai la gavetta che secondo me non era sbagliata. Era una necessità. E inevitabilmente qualcosa nel tempo ti viene a mancare. Oggi sono molto più preparati sin dalle categorie minori. Lavorano con il potenziometro, sanno mangiare e tutto per loro è più facile al momento del passaggio.

Cosa gli viene a mancare?

Tante piccole cose. Ogni anno inserivi qualcosa di nuovo. Io alla mia prima stagione da pro’ ho fatto 40 corse e giusto un paio di corse a tappe di tre giorni. La stagione successiva ho fatto la prima classica. Quella dopo ancora la Parigi-Nizza. Poi un grande Giro. Già solo finirle certe gare era segno di crescita. Imparavi dagli errori che facevi. Oggi sbagliano meno, ma perché è il ciclismo che va più veloce. Se fai i primi due-tre anni male non trovi più squadra neanche se hai 24 anni. Io ai ragazzi in questi ultimi periodi davo sempre un consiglio: non fidatevi di chi vi dice che siete giovani. Se avete la possibilità, battete il ferro quando è caldo.

E tu col senno del poi passeresti di nuovo così giovane?

Io non ho rimpianti della mia carriera. La mia introduzione al mondo del professionismo fu graduale, adesso l’approccio è diverso. Faccio un esempio. Al Giro del Lussemburgo 15 anni fa c’erano 10 forse 15 corridori che andavano forte. Adesso ce ne sono 160. La gradualità che ho avuto io non esiste più… a meno che non vai a correre a Taiwan o giù di lì. Perché già in Australia, che addirittura è WorldTour, vanno fortissimo e in Argentina non è da meno. In generale il livello del gruppo è più alto. Ora passa chi va davvero forte. E quando passano sono preparati bene. Prima c’era sempre qualcosa che potevi non sapere. Magari ti allenavi bene, ma mangiavi male. Poi miglioravi anche quell’aspetto, ma intanto era passato un anno. Adesso sanno tutto.

Diciassette anni da professionista, cosa ti resta addosso di questo lungo viaggio?

Tutto. Giusto qualche giorno fa mi hanno chiesto quale fosse il ricordo più bello della mia carriera: sarebbe riduttivo dire la tappa del Giro d’Italia, che comunque è la più importante. Ma io davvero dico tutto, anche le sconfitte… che sono state più delle vittorie. Ho imparato due lingue (spagnolo e inglese, ndr), ho vissuto etnie e razze differenti. C’è gente che paga per girare il mondo, a me hanno pagato.

In tanti anni sei stato vicino a tanti campioni, chi ti ha colpito di più?

Mi verrebbe da dire Vincenzo Nibali. Spesso si dà poco peso a quello che ha fatto e che ha vinto. Io sono cresciuto nel mito di Pantani che vinse un Giro e un Tour, ma Vincenzo ha due Giri, un Tour, una Vuelta, senza contare classiche e tante altre corse importanti. Però la classe di Valverde La classe di quel corridore lì… E’ uno dei più vincenti di sempre e in Spagna uno così non lo ritroveranno presto. Lo vedi in bici: è stilisticamente perfetto. Vinceva a crono, in salita, in volata. Tu andavi alla Ruta del Sol, corsa piccola, lavoravi tutto il giorno ma eri sicuro di vincere. Un po’ come il Sagan degli anni migliori. Certo, lui adesso è un po’ calato ma ha fatto dieci anni fuori dal mondo. Ecco, Peter è uno di quelli che mi ha impressionato.

E com’era Valverde fuori dalle corse?

Un compagnone. Simpatico, sempre con la battuta pronta. Una brava persona. Quando sono arrivato alla Movistar è stato il primo a venirmi a salutare. E poi è un vincente. E’ spettacolare nel modo di correre. Dove lo trovi uno che vince gli arrivi con 100 corridori e i grandi Giri?

Quando sei passato cosa sognavi?

Beh, quando parti punti sempre in alto. Io sognavo due corse: il Tour de France e la Sanremo. Non le ho vinte ma le ho fatte. Qualche giorno fa parlavo con una persona e gli dicevo che spesso si dà poco valore ai corridori professionisti. Quanti siamo nel mondo, 500? Pensiamo ai calciatori: sono 25 per squadra, per categoria e per ogni nazione. Molti di più quindi rispetto al ciclismo. Pensate cosa significa essere un pro’ ed esserlo per tanti anni. Mi dicono: tu non hai reso come si sperava. Allora gli riporto l’esempio di Guti, il biondino che giocava nel Real Madrid nel quale mi rivedo. A lui dicevano sempre: con la classe che hai dovresti rendere di più. E lui rispondeva: ho fatto per dieci anni il centrocampista titolare nel Real, ho giocato con Ronaldo, con Zidane…  Arrivavano altri giocatori ma io giocavo sempre. Pensate se avessi reso tanto! Per quel che mi riguarda, a parte quest’anno e un’altra volta in cui però fui io a chiamarmi fuori, ho sempre fatto almeno un grande Giro a stagione.

Ma noi non volevamo arrivare qua Eros, massima stima per i corridori come te, gregari anche vincenti. Se per tanti anni militi in una squadra WorldTour un motivo deve esserci…

Non è facile. O ti leghi ad un campione e sei il suo gregario, o è molto difficile. E’ difficile  anche quando le cose vanno bene. Ricordo l’anno in cui Lefevere mi fece firmare il 21 dicembre, nonostante in quella stagione fossi andato bene e avessi dato una grossa mano (in modo palese) in molte vittorie.

Hai girato il mondo, o meglio le migliori squadre europee, però alla Liquigas eravate una forza…

Alla Liquigas siamo stati bene. Davvero un bel gruppo, personale fantastico. Ma anche alla Movistar e alla Quick Step non sono stato male. E lo stesso vale per l’Astana dove il gruppo italiano è molto grande. C’era anche Scarponi e si facevano tante risate. Poi io riesco a ridere anche col mio nemico, figuriamoci. Però se penso alla Liquigas… il mio cuore è verde, bianco, blu.

E adesso cosa farà Eros Capecchi?

Beh, ho la mia attività. Ho il vivaio che ho messo su con mia sorella e la mia famiglia. Quella delle piante era una mia passione. Mi porta via parecchio tempo, si estende su 45 ettari di terreno. Molte piante le produciamo noi, dal seme o dalle talee. E poi c’è in ballo anche un’altra cosa, ma per quella vedremo.

In bocca al lupo caro Eros, consentiteci questo finale. Consentiteci un saluto per un ragazzo che in tanti anni di professionismo si è sempre mostrato disponibile ed educato come pochissimi altri. E’ stato un corridore vero. Perché non lo è solo chi vince, ma chi sa fare e conosce il suo mestiere. Senza contare che in più di qualche occasione ci ha fatto divertire con le sue azioni.