C’è stato un periodo, tutta la fine del secolo scorso, nel quale Roberto Gaggioli è stato uno degli sportivi italiani più famosi al di là dell’Atlantico. L’Nba stava iniziando ad accogliere qualche cestista nostrano, vecchi campioni del calcio andavano a segnare i loro ultimi gol nel soccer, ma intanto questo toscano sempre effervescente raccoglieva successi a manciate, tanto che a fine carriera sono stati ben 207, un numero clamoroso.
Gaggioli ha vissuto per scelta un ciclismo diverso, lontano dalle classiche, dai grandi giri, ma non se ne è mai pentito, anche se è da tanto tempo che ormai non torna da quelle parti. Oggi è di nuovo nella sua Toscana, a seguire la crescita di suo figlio Luciano che, affascinato dalle sue imprese, si sta mettendo alla prova, correndo fra gli Esordienti 2° anno: «Ma c’è anche Emilia che vuole iniziare, comincerà dalle G1, è una forza della natura. Solo il figlio di mezzo, Charlie, ha scelto una strada sportiva diversa e si dedica al calcio».
Che ciclismo era quello nel quale vivevi?
Lontano da quello al quale siamo abituati. Lì era sinonimo di show. Si correvano autentiche kermesse, gare di 100 chilometri su circuiti che al massimo ne misuravano 2, in questo modo il pubblico ci aveva sempre davanti e di pubblico, ve lo assicuro, ce n’era tantissimo, senza contare tutto il contorno, fatto di luci, chiasso, merchandising e quant’altro, anche perché spesso le gare erano abbinate anche a concerti di grandi star. Qualcosa che si è andato perdendo.
Perché?
Perché col passare del tempo il ciclismo americano ha voluto europeizzarsi. Le gare sono entrate nel calendario Uci, in America sono arrivate le squadre del WorldTour, sono state allestite corse come il Giro della California o dello Utah esattamente uguali a quelle che si disputano nel nostro continente, ma in questo modo lo spirito si è perso e la gente ha cominciato a disinteressarsi, a guardare altrove. In America manco da molto ma ho lì molti amici che mi raccontano di quanta nostalgia ci sia per quei tempi, tanto è vero che Bobby Julich (ex corridore di Motorola e Telekom, terzo al Tour 1988 vinto da Pantani, ndr) si è candidato alla presidenza della federazione americana per ridare linfa al movimento attingendo a quelle esperienze.
E’ per questo che il ciclismo a stelle e strisce ha perso progressivamente peso e non produce più tanti campioni?
Non credo che il vivaio ne soffra. Ai miei tempi, salvo Lemond e Armstrong, non c’erano altri grandissimi nomi, oggi invece ci sono molti buoni corridori. Manca la stella, è vero, ma il livello medio è più alto perché i corridori giovani vogliono affermarsi per trovare un ingaggio in Europa e fare della propria passione una carriera.
Perché dopo tanti anni passati negli Usa non sei rimasto?
Per scelta e per caso. Mia moglie è americana e dovevamo avere il nostro primo figlio, se fosse nato in Italia avrebbe avuto la doppia cittadinanza. Così tornammo per il parto, ma mia moglie era così contenta della vita dalle nostre parti che non siamo più tornati oltreoceano.
Successo alla Valley the Sun Stage Race del 1995 Una delle tante vittorie in maglia Coors Light, dal 1990 al ’95 1994, Gaggioli milita nella Coors Light, qui con l’iridato Armstrong
Successo alla Valley the Sun Stage Race del 1995 Una delle tante vittorie in maglia Coors Light, dal 1990 al ’95 1994, Gaggioli milita nella Coors Light, qui con l’iridato Armstrong
Ti interessi ancora di ciclismo?
Non ne sono più coinvolto se non per seguire mio figlio, che fa strada e ciclocross. Anch’io praticavo la doppia disciplina, ho anche vinto un titolo italiano giovanile. E’ tifosissimo di Van Aert e Van Der Poel, ha iniziato a fare ciclocross quest’anno ed è entusiasta. Invece odia profondamente la Mtb, so che può sembrare strano per un toscano, ma proprio non la digerisce, anche se i suoi amici la praticano tutti. A me piaceva: nel 1990 avevo corso al sabato il Giro del Veneto, sapevo che all’indomani c’erano i Campionati Italiani e chiesi a una società una bici. Il giorno dopo vinsi io, avevo una gamba…
Quanto era diverso il tuo mondo da quello di oggi?
Non c’è paragone, è un modo completamente diverso di concepire questo sport. Noi per allenarci uscivamo e incameravamo chilometri, oggi ci sono tabelle, preparatori, nutrizionisti, è tutto studiato nei minimi particolari. Anche le gare sono cambiate, noi ci davamo battaglia negli ultimi 50 chilometri, oggi si va a tutta dall’inizio alla fine.
Gaggioli con sua moglie Whitney, anche lei ciclista Suo figlio Luciano, Esordiente 2° anno, tra i migliori ciclocrossisti toscani di categoria Il toscano con Charlie ed Emilia, gli altri suoi figli
Gaggioli con sua moglie Whitney, anche lei ciclista Suo figlio Luciano, Esordiente 2° anno, tra i migliori ciclocrossisti toscani di categoria Il toscano con Charlie ed Emilia, gli altri suoi figli
Che cosa ti auguri per tuo figlio, vorresti che seguisse le tue orme?
Io voglio che innanzitutto si diverta, poi vedremo come andranno le cose. Sa che per fare questo mestiere bisogna fare tanti sacrifici. Magari è più facile che segua questa strada mia figlia, visto quanto ha insistito…
Ti sei mai pentito della tua scelta americana?
Mai. Ho vissuto anni spettacolari, guadagnato anche bene, ho anche trovato famiglia. Anche a quei tempi c’erano gare in linea e piccole corse a tappe, fino a 5 giorni, non erano solo kermesse, ma era lo spirito che circondava ogni gara che era diverso. Io non rinnego nulla, è stata la scelta giusta, ma ora è parte del passato.