Gaggioli 2021

La favola di Gaggioli, testimone dell’epopea americana

05.01.2022
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C’è stato un periodo, tutta la fine del secolo scorso, nel quale Roberto Gaggioli è stato uno degli sportivi italiani più famosi al di là dell’Atlantico. L’Nba stava iniziando ad accogliere qualche cestista nostrano, vecchi campioni del calcio andavano a segnare i loro ultimi gol nel soccer, ma intanto questo toscano sempre effervescente raccoglieva successi a manciate, tanto che a fine carriera sono stati ben 207, un numero clamoroso.

Gaggioli ha vissuto per scelta un ciclismo diverso, lontano dalle classiche, dai grandi giri, ma non se ne è mai pentito, anche se è da tanto tempo che ormai non torna da quelle parti. Oggi è di nuovo nella sua Toscana, a seguire la crescita di suo figlio Luciano che, affascinato dalle sue imprese, si sta mettendo alla prova, correndo fra gli Esordienti 2° anno: «Ma c’è anche Emilia che vuole iniziare, comincerà dalle G1, è una forza della natura. Solo il figlio di mezzo, Charlie, ha scelto una strada sportiva diversa e si dedica al calcio».

Gaggioli Saronni
Con Giuseppe Saronni, avversario di tante volate sul finire degli anni Ottanta
Gaggioli Saronni
Con Giuseppe Saronni, avversario di tante volate sul finire degli anni Ottanta
Che ciclismo era quello nel quale vivevi?

Lontano da quello al quale siamo abituati. Lì era sinonimo di show. Si correvano autentiche kermesse, gare di 100 chilometri su circuiti che al massimo ne misuravano 2, in questo modo il pubblico ci aveva sempre davanti e di pubblico, ve lo assicuro, ce n’era tantissimo, senza contare tutto il contorno, fatto di luci, chiasso, merchandising e quant’altro, anche perché spesso le gare erano abbinate anche a concerti di grandi star. Qualcosa che si è andato perdendo.

Perché?

Perché col passare del tempo il ciclismo americano ha voluto europeizzarsi. Le gare sono entrate nel calendario Uci, in America sono arrivate le squadre del WorldTour, sono state allestite corse come il Giro della California o dello Utah esattamente uguali a quelle che si disputano nel nostro continente, ma in questo modo lo spirito si è perso e la gente ha cominciato a disinteressarsi, a guardare altrove. In America manco da molto ma ho lì molti amici che mi raccontano di quanta nostalgia ci sia per quei tempi, tanto è vero che Bobby Julich (ex corridore di Motorola e Telekom, terzo al Tour 1988 vinto da Pantani, ndr) si è candidato alla presidenza della federazione americana per ridare linfa al movimento attingendo a quelle esperienze.

Gaggioli Bernocchi 1986
La sua vittoria alla Coppa Bernocchi 1986, battendo in volata Claudio Corti e Marcello Bergamo
Gaggioli Bernocchi 1986
La sua vittoria alla Coppa Bernocchi 1986, battendo in volata Claudio Corti e Marcello Bergamo
E’ per questo che il ciclismo a stelle e strisce ha perso progressivamente peso e non produce più tanti campioni?

Non credo che il vivaio ne soffra. Ai miei tempi, salvo Lemond e Armstrong, non c’erano altri grandissimi nomi, oggi invece ci sono molti buoni corridori. Manca la stella, è vero, ma il livello medio è più alto perché i corridori giovani vogliono affermarsi per trovare un ingaggio in Europa e fare della propria passione una carriera.

Perché dopo tanti anni passati negli Usa non sei rimasto?

Per scelta e per caso. Mia moglie è americana e dovevamo avere il nostro primo figlio, se fosse nato in Italia avrebbe avuto la doppia cittadinanza. Così tornammo per il parto, ma mia moglie era così contenta della vita dalle nostre parti che non siamo più tornati oltreoceano.

Ti interessi ancora di ciclismo?

Non ne sono più coinvolto se non per seguire mio figlio, che fa strada e ciclocross. Anch’io praticavo la doppia disciplina, ho anche vinto un titolo italiano giovanile. E’ tifosissimo di Van Aert e Van Der Poel, ha iniziato a fare ciclocross quest’anno ed è entusiasta. Invece odia profondamente la Mtb, so che può sembrare strano per un toscano, ma proprio non la digerisce, anche se i suoi amici la praticano tutti. A me piaceva: nel 1990 avevo corso al sabato il Giro del Veneto, sapevo che all’indomani c’erano i Campionati Italiani e chiesi a una società una bici. Il giorno dopo vinsi io, avevo una gamba…

Quanto era diverso il tuo mondo da quello di oggi?

Non c’è paragone, è un modo completamente diverso di concepire questo sport. Noi per allenarci uscivamo e incameravamo chilometri, oggi ci sono tabelle, preparatori, nutrizionisti, è tutto studiato nei minimi particolari. Anche le gare sono cambiate, noi ci davamo battaglia negli ultimi 50 chilometri, oggi si va a tutta dall’inizio alla fine.

Che cosa ti auguri per tuo figlio, vorresti che seguisse le tue orme?

Io voglio che innanzitutto si diverta, poi vedremo come andranno le cose. Sa che per fare questo mestiere bisogna fare tanti sacrifici. Magari è più facile che segua questa strada mia figlia, visto quanto ha insistito…

Ti sei mai pentito della tua scelta americana?

Mai. Ho vissuto anni spettacolari, guadagnato anche bene, ho anche trovato famiglia. Anche a quei tempi c’erano gare in linea e piccole corse a tappe, fino a 5 giorni, non erano solo kermesse, ma era lo spirito che circondava ogni gara che era diverso. Io non rinnego nulla, è stata la scelta giusta, ma ora è parte del passato.

Bartalini Usa

Bartalini, un artista innamorato della bici

16.05.2021
4 min
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Se da una parte Marco Giovannetti ed Eros Poli sono comunque rimasti vicini al ciclismo, seppur con modalità molto diverse e lontane dalle luci della ribalta professionistica, Marcello Bartalini la sua bici ormai l’ha riposta in cantina, troppi i suoi impegni quotidiani che l’hanno portato lontano dalle due ruote, complice anche un forte sentimento di disillusione, che traspare dalle sue parole.

L’empolese, olimpionico a Los Angeles 1984 con la 100 Chilometri a squadre e per due stagioni professionista sul finire degli anni Ottanta, si occupa a tempo pieno di sistemistica e televendite, curando produzioni televisive quotidiane che lo portano nelle case di tutti gli italiani. La televisione è il suo mondo, per un certo periodo ha lavorato anche come autore di testi per personaggi come Fiorello, ora però tutto gira intorno ad algoritmi e sistemi per 10 e Lotto e Superenalotto: «Me ne occupo ormai da 34 anni e ho imparato che bisogna stare sempre sul pezzo, perché il mercato è come il virus…».

In che senso?

Nel senso che muta sempre, i prodotti passano di moda con enorme velocità. Guardate ad esempio i prodotti per la ginnastica in casa: tutti pensavano che con il lockdown ci sarebbe stato un boom, invece il mercato si è saturato presto e oggi non ha sbocchi.

Bartalini Olimpiadi 1984
Il gruppo olimpico ’84: da sx Poli, Bartalini, la riserva Manenti, Giovannetti e Vandelli
Bartalini Olimpiadi 1984
Parte del gruppo olimpico ’84: da sx Bartalini, la riserva Manenti, Giovannetti e Vandelli
Il tuo nome però è legato all’arte…

Quella è passione pura, che vorrei tanto diventasse la mia attività principale. Ho sempre dipinto, ma la svolta è arrivata quando correvo in America, alla Pepsi Cola-Fanini-Fnt tirando le volate a Roberto Gaggioli. Allora conobbi Sam Francis, un vero nume dell’espressionismo, con cui nacque una profonda amicizia, ero l’unico che poteva entrare nel suo atelier. Non posso però dire che sia un mio maestro: anch’io sono un astrattista, ma seguo altre strade, lui è più vicino alla visione di Pollock.

I tuoi quadri hanno più mercato di qua o di là dell’Atlantico?

Lo avrebbero da entrambe le parti, il problema sono i dazi. Il mio sogno, se riuscirò a dedicarmi all’arte, è trasferirmi negli Usa per almeno 6 mesi l’anno e poter curare lì i miei interessi artistici, sarebbe molto più semplice.

Bartalini oggi con uno dei suoi quadri, chiara la matrice espressionista
Bartalini oggi con uno dei suoi quadri, chiara la matrice espressionista
Perché ti sei allontanato dal ciclismo?

Quando correvo era un ambiente più vero, più rispettoso verso il campione. Non sopporto ad esempio di vedere uno come Nibali osannato finché vinceva e da molti considerato finito solo perché ora è più difficile emergere. Troppi corridori sono poco umili, personaggi da social più che da strada, molta apparenza e poco altro.

Perché la tua carriera professionistica è durata solo due anni?

Non mi piacque quel che vidi. Ebbi la ventura di passare con Fanini, un appassionato che aveva l’abitudine di parlar chiaro: «Soldi ce ne sono pochi, se vuoi correre devi portarmi uno sponsor…». Era una sua regola, necessaria per andare avanti, potevi accettare o meno, ma in tanti lo hanno denigrato per questo e non era giusto. Poi c’è anche altro…

Ossia?

Ho trovato un mondo diverso da quello che mi aspettavo: credevo che regnasse una grande professionalità, invece mi trovai in un ambiente ricco di personaggi squallidi, meccanici poco capaci, tanti profittatori, gente pronta solo a nascondere i propri sbagli e soprattutto la propria imperizia. Chi meritava davvero non trovava spazio. Io ho sempre pensato che nello sport dovessero emergere i più forti, i più bravi, ma ho capito che non sempre è così.

Bartalini Pepsi 1988
Due anni da pro’ per Bartalini: nel 1988 alla Pepsi Cola-Fanini e nell’89 alla Polli-Mobiexport
Bartalini Pepsi 1988
Due anni da pro’, nel 1988 alla Pepsi Cola-Fanini, nel 1989 alla Polli-Mobiexport
Che corridore eri?

Non certo un campione, ma sapevo correre, tanto che mi avevano soprannominato “Scienza” perché ero bravissimo nell’organizzare le strategie di corsa. La gara che però non potrò mai dimenticare è una prova da junior, la Coppa Adriana, la vinsi quando avevo appena lasciato il lavoro di fornaio: fu lì che imparai la parola sacrificio. Il fatto che nulla arriva se non t’impegni con tutto te stesso.

La medaglia olimpica ce l’hai ancora?

Certo, è un riferimento. Ancora oggi mi chiamano nelle scuole per spiegare che cosa significa vincere un’Olimpiade, quanto lavoro c’è dietro e vedo negli occhi dei ragazzi quella scintilla, quel sogno che avevamo noi. Questo non è cambiato, per fortuna…

E in bici ci vai?

Non quanto vorrei, anche perché alcuni anni fa subii un incidente di macchina andando a Lugano per una trasmissione Tv, che mi ha lasciato strascichi alla schiena e a una gamba. Pian piano però voglio riprovarci, perché la bici è il migliore dei farmaci…