Le vie della preparazione sono infinite. Spesso particolari, insolite, delicate. Altre volte sono molto più semplici e lineari. Di certo non fu semplice, né lineare quella che nel 2016 riguardò Vincenzo Nibali e il suo coach Paolo Slongo.
Il tecnico veneto giocò le sue carte in modo impeccabile. E solo quella scivolata dello Squalo, che tutti noi ancora abbiamo negli occhi (purtroppo), pose la parola fine ad un’impresa storica.
Far regredire la forma
«Bisogna fare un preambolo – racconta Slongo – che spiega perché si decise di utilizzare il Tour de France per preparare le Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016. Quell’inverno l’Astana, la squadra di Vincenzo all’epoca, aveva deciso di puntare su Nibali al Giro e su Aru al Tour. A quel punto nacque subito l’idea che la gara francese potesse essere l’avvicinamento ideale. Percorso consueto per arrivare al Giro (che Nibali vinse, ndr) e poi il Tour per trovare la condizione per Rio e dare una mano ad Aru.
«Subito dopo il Giro dovevamo far regredire la forma. Come? La settimana successiva Vincenzo uscì pochissimo, forse un paio di volte: due ore molto blande. Se non ricordo male, fece anche qualche giorno di vacanza con la famiglia, ma con la bici dietro. Poi iniziò a fare più ore, ma sempre in tranquillità. E lo stesso fece al San Pellegrino, nessun lavoro specifico. Giusto un po’ di medio. Quindi arrivò al Tour indietro, ma con il pieno di energie».
Quanta fatica
Una volta in Francia la stampa si aspettava, o forse sarebbe meglio dire voleva, un super Nibali. Era la maglia rosa, tutti lo volevano ancora sugli scudi, ma le cose chiaramente non andarono bene in corsa. Le critiche non mancarono e le certezze di Nibali vacillarono.
«Fu subito un Tour difficile – dice Slongo – A volte sul lettino dei massaggi di Pallini, Vincenzo diceva che voleva tornare a casa. “Faccio troppa fatica”, ripeteva. Non ci stava. Nella mia mente invece sapevo che uno come lui se usciva bene dal Giro avrebbe avuto la capacità di ritrovare la forma. Ma certo gli seccava restare indietro».
Ci fu più di qualche battibecco, ma il buon colpo di pedale dell’ultima settimana calmò gli animi. Negli ultimi arrivi in salita lo Squalo teneva le ruote dei migliori. Vide la luce in fondo al tunnel, si tranquillizzò, riprese umore. «E tornò a sorridere», racconta Slongo.
La stampa contro
«Le critiche non furono poche – continua il tecnico – la stampa ci attaccò e Vincenzo ci restò male. Fu soprattutto Martinello a criticarci e qualcuno lo seguì. Silvio disse che un campione come Nibali non poteva andare al Tour per allenarsi, che era meglio se avesse fatto il Polonia e scelto altre vie. Eppure noi i nostri programmi li avevamo dichiarati già a fine novembre. L’Astana aveva deciso di puntare maggiormente su Aru, che era più giovane, ma in molti non ci credevano. E comunque tante critiche arrivarono perché oltre a Nibali l’Italia non aveva molto altro, quindi le attenzioni erano tutte su di noi.
«E poi c’è un’altra cosa che alimentò le tensioni. Un conto è stilare, ed accettare, un programma a novembre magari davanti ad un caffé, un conto è portarlo avanti nel bel mezzo della stagione, con altre pressioni ed altri stress. Quell’anno feci un grande lavoro di supporto mentale. Ho sempre filtrato molto a Vincenzo per proteggerlo».
La gestione del Tour
Al Tour gli uomini di classifica volano. Nibali arranca. Non è facile in questa situazione. Slongo ha detto che tra Giro e Tour non programmò nessun allenamento specifico, ma allora come si sfruttò la gara, che accorgimenti vennero presi? Per esempio, come si può fare la forza in corsa? Non ti metti certo a fare le Sfr con numero sulla schiena (a parte Ullrich al Giro dell’Emilia!). Non è facile allenarsi in gara nel ciclismo di oggi.
«Paolo Bettini è stato un maestro in questo – riprende Slongo – Prendi la salita dietro, diceva, e rimonti il gruppo se vuoi allenarti in gara. Vincenzo in quel Tour venne spesso a prendere le borracce all’ammiraglia e vide, credo per l’unica volta in carriera, cosa succedeva in coda al gruppo, faceva appositamente fatica. Poi va considerata una cosa. Se tu sei davanti certe salite le fai ad una determinata cadenza, ma se sei dietro arranchi a 60 rpm. Fai una forza naturale. Insomma è la corsa che ti porta in forma, ma questo potevo farlo in un Tour con Nibali, che ha un certo motore, un altro lo avrei “ucciso”. Se fossimo andati al Polonia quella settimana centrale di buco non avrebbe poi portato alla condizione che Nibali aveva a Rio. Ha faticato tremendamente nelle prime dieci tappe, ma poi piano piano è migliorato. Ricordo che nel primo giorno di riposo neanche fece la sgambata, che solitamente si fa».
Ciò nonostante non era facile dire a Nibali di staccarsi. Accumulare distacco gli avrebbe consentito di prendere una fuga più facilmente. «Lui però si staccava e poi restava a 3′. Ma prendine 20′ dico io. Sei Nibali, con 3′ non ti lasciano spazio!».
E a Rio?
Questa storia merita una piccola appendice. Il Nibali di Rio era stellare. Slongo seguì Vincenzo a sue spese in Brasile. Prese un agriturismo giusto ai piedi della fatidica discesa. Voleva vedere da vicino come andavano le cose e dare supporto allo Squalo.
«Cassani agevolò molto la mia presenza. Addirittura un giorno sulla salita del circuito feci anche un test del lattato a tutti quanti. E sì che erano, o erano stati, quasi tutti miei atleti. C’erano Caruso, De Marchi, Agnoli, Rosa, Aru e Nibali. Stavano tutti molto bene, solo Aru aveva addosso ancora un po’ di fatica del Tour.
«Il giorno della gara facevo la spola tra la tv e il circuito per vederli passare. Così vidi l’attacco di Nibali in salita alla tv, poi scesi in strada. Ma passò Majka. Eppure mi sembrava il più stanco, pensai. Vincenzo invece continuava a non passare. Risalii in camera e lì capii tutto. Fu davvero un peccato. Sarebbe stata la ciliegina sulla torta, per l’Italia, per lui e per me. Anche perché poi Fuglsang che era con me sul San Pellegrino fece secondo ed Aru e Zeits (in Astana anche lui) entrarono nei dieci»