Il Tour Colombia dalla macchina fotografica di Ilario Biondi

15.02.2024
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«Per me andare in Colombia è stato come fare un tuffo nel passato. C’ero stato nel 1995 per i mondiali di Duitama, mondiali ai quali sono legatissimo. Per Pantani, per i campioni che emersero in quella gara, per il calore incredibile della gente. Ma era tutto diverso. Era la Colombia di Escobar. Ci dissero di stare attenti, che c’erano rischi e tensioni. Invece fu esattamente il contrario. Ci fu un’accoglienza unica. Quel calore non è cambiato». A raccontare tutto questo è Ilario Biondi, fotografo dell’agenzia Sprint Cycling, inviato all’ultimo Tour Colombia.

Da oltre 40 anni, Biondi fotografa il ciclismo in tutto il mondo. Dalle pellicole in bianco a nero alle più moderne camere digitali. Da Moser a Pogacar, dal più piccolo dei gregari al campione affermato… persino juniores e dilettanti sono finiti nel suo obiettivo. Ilario ci racconta quindi il suo Tour Colombia visto e vissuto dalla macchina fotografica.

Che tifo

Sei tappe nel cuore della Nazione andina. Sei tappe che hanno toccato le località simbolo del ciclismo e dei corridori colombiani. Duitama, appunto. Zipaquirà, casa di Bernal. Tunja quella di Quintana… La corsa mancava dal 2020, poi il Covid ci ha messo lo zampino. Ma senza più la gara in Argentina, San Juan, ecco che il Tour Colombia è divenuto il grande appuntamento del ciclismo sudamericano.

«Ho ritrovato un amore sconfinato per il ciclismo – racconta Biondi – specie nella zona di Boyaca. Lì, in tanti, ma veramente in tanti, vanno in bici… Magari alcune non sono super bici perché la situazione economica non è facile per tutti, ma la quantità di ciclisti che ho visto è qualcosa che mi ha colpito. Così come mi ha colpito il tifo: mi sento di dire che è ai livelli del calcio per calore ed intensità. E quanta gente a bordo strada: spesso sembrava di essere ad un tappone del Giro d’Italia o del Tour de France».

L’abbraccio della folla è sempre stato potente verso tutti, ma chiaramente gli idoli di casa erano i più osannati. E per questa gente, che certo non naviga nell’oro, dedicare delle ore al ciclismo, magari incide nella loro economia spicciola più che altrove. Ma si sa, alla passione non si comanda.

«Se dovessi stilare una classifica di popolarità – dice Biondi – il più acclamato mi è sembrato Nairo Quintana, poi Rigoberto Uran ed Egan Bernal. Anche Esteban Chaves aveva il suo bel seguito. Ma il fatto che Nairo fosse così sostenuto, nonostante la sua recente vicenda e non abbia corso nell’ultimo anno, non me lo aspettavo proprio. E’ considerato un Dio».

Caos e colori

Un bel caos dunque. E tanti colori. Sveglia all’alba per dirigersi alla corsa. Start verso le 10 e arrivi per le 13,30-14. Il tutto con un’organizzazione mossa e spinta da un grande entusiasmo.

«Per andare alle tappe – prosegue Biondi – c’era un bel traffico. La sveglia spesso era alle 6,30 e tra il fuso orario e anche la quota, visto che eravamo quasi sempre sul filo dei 2.500-2.600 metri, non era così facile. Non si riposava benissimo a 2.500 metri e qualche mal di testa da montagna non è mancato a noi europei. Un giorno ci siamo ritrovati a 3.100 metri e ammetto che muoversi a quelle quote con l’attrezzatura fotografica sulle spalle si faceva sentire».

Le stesse quote però secondo il fotografo romano incidevano anche sulle foto vere e proprie. Aspetti tecnici che solo un occhio esperto può cogliere a fondo.

«In effetti c’era un’altra luce e questo è fondamentale per i colori. Immagino dipendesse dall’alta quota. L’aria era più pulita e rarefatta, il cielo era limpido, di un azzurro intensissimo. Tutto ciò accendeva i colori. Ed emergevano forti: il giallo, il blu, il rosso della bandiera colombiana. Colori davvero brillanti».

«Non essendo un fotografo colombiano non cercavo per forza, o solo, la cronaca della corsa. Cercavo quelle cose caratterizzanti, che raccontassero di più. La faccia particolare, la frutta a bordo strada, gli indios».

Carapaz brillante

Ma con 40 e passa anni di esperienza e tante, tante corse vissute da dentro, Biondi ha affinato anche un certo occhio tecnico-sportivo. Il fotografo, che spesso è in corsa sulla moto, a volte conosce i corridori meglio dei giornalisti. Tra loro si stabilisce un rapporto di fiducia, che verosimilmente parte dalla condivisione della strada o di un temporale strada facendo. 

«In generale – spiega Biondi – ho visto bene i corridori colombiani, sia perché era la loro corsa, sia perché molti sono più avanti nella preparazione (specie quelli locali che non sono negli squadroni del WorldTour e sfruttano questa vetrina mondiale per mettersi in mostra, ndr). E infatti ha vinto Rodrigo Contreras della Nu Colombia».

«Tra i big ho visto bene Carapaz. Tra l’altro il suo attacco sull’Alto del Vino è stato anche un bel momento da dietro la macchina fotografica: questo scatto tra due ali di folla. Un grande tifo e gran baccano».

«Ho visto un buon Bernal. Egan ha provato ad attaccare, specie quando si passava nelle sue terre. Una sua vittoria sarebbe stata una bella storia: il ritorno dopo l’incidente. Così come lo è stata quella di Mark Cavendish. L’ex iridato che torna al successo dopo l’addio è stata una bella vetrina per il Tour Colombia stesso».

Alfredo Martini, Ilario Biondi, Marco Pantani

Ilario Biondi, il mio Marco attraverso la reflex

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«La foto che in tanti anni mi ha dato più emozioni – dice Ilario – fu quella del podio di Parigi con Gimondi. La foto più facile che ci sia. Scattavo e pensavo: cavoli, questa è storia. L’Italia non vinceva il Tour dal 1965 e io ero lì ai piedi del podio, con Marco e Felice. Poi partì l’Inno di Mameli e… Ancora adesso a raccontarlo mi emoziono!».

Marco Pantani, Les Deux Alpes, Tour 1998
Sul Galibier nel 1998 la bordata decisiva a Jan Ullrich
Sul Galibier nel 1998 la bordata decisiva a Jan Ullrich
Sul Galibier nel 1998 la bordata a Jan Ullrich

Ilario Biondi ha 62 anni e dal 1983 fotografa ciclisti e corse. Somiglia a Robin Williams, tanto che quando lo incontrammo al Tour de France, anche l’attore americano ne rise. Il pizzetto e i capelli ingrigiti, giornalista fin nel profondo, per i primi trent’anni ha scattato foto per Bicisport, poi ha intrapreso una nuova strada assieme all’amico Roberto Bettini. A pochi altri Marco Pantani concesse le stesse aperture.

Quando sentisti parlare di Marco per la prima volta?

Nel 1990, al Giro d’Italia, l’anno che i dilettanti correvano sullo stesso finale dei professionisti. Sergio Neri, che è di Rimini, mi suggerì di fare un po’ di foto a questo ragazzino che poi sarebbe arrivato terzo. Ricordo la foto di Sacromonte, con lui, Belli e Gotti seduti su un gradino. Sembravano tre bambini. A pensare a quella foto, forse Belli è stato quello che ha vinto meno, ma se c’era qualcuno in gruppo con cui Marco parlava volentieri, quello era proprio Wladimir. Marco stava con i compagni, con Belli e Cipollini. Il primo contatto vero fu però nell’inverno del 1992, dopo la vittoria del Giro dei dilettanti, quando andammo insieme a Cesenatico. Sulla spiaggia, sulle barche dei pescatori, al ristorante da Franciosi fingendo di cucinare le tagliatelle…

Impossibile da dimenticare. Per non parlare di Agrigento…

Esatto, ai mondiali. Martini lo aveva messo in camera con Chiappucci, magari qualche anno dopo non lo avrebbe più fatto. Comunque entrai in camera che aveva appena finito di depilarsi le gambe con la lametta e siccome capì che sarebbe stata una foto simpatica, accettò si rimettersi addosso la schiuma e finse di radersi. Era davvero un altro modo di lavorare, adesso sarebbe quasi impossibile…

Com’era davanti all’obiettivo?

A suo agio, sin da subito. La timidezza spariva, perché Marco era timido. Ho sempre detto che soltanto due corridori trasformavano anche la foto più banale in un capolavoro. Lui e Armstrong. Gli altri, da Bugno a Nibali, non hanno mai avuto la stessa intensità nello sguardo.

Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998
Tour 1998, sul podio con Gimondi: ultimo italiano in maglia gialla nel 1965
Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998
Tour 1998, sul podio con Gimondi: ultimo italiano in maglia gialla nel 1965
Che tipo di rapporto c’era fra Marco e Ilario?

Privilegiato, forse per come mi sono sempre comportato o perché lo seguivamo da tanto. Mi ha permesso di fare foto che nessuno ha mai fatto. In camera. Sul camper durante il Tour. Mi bastava incrociare il suo sguardo per capire se potevo avvicinarmi e di quanto. Ti ricordi la sera del 1998 sul lago a Fois?

Aveva appena vinto a Plateau de Beille, serata tiepida fuori dall’hotel…

Quelle sono situazioni che abbiamo vissuto perché si fidava. Feci tre scatti senza rompere oltre e Marco capì. Se mi fossi messo a scattare in continuazione, sarei stato un fastidio. Invece ci mettemmo lì a parlare di pesca e altre cose, tranquilli, recuperando dopo una tappa dura.

Quali sono le foto che ricordi più volentieri?

Del podio di Parigi abbiamo già detto. Poi la foto in curva con l’acqua sull’Alpe d’Huez. Quindi i momenti in camera, quando ci divertivamo a inventare le pose. Dal cuscino infilato nella maglia rosa a quando scelse lui il modo di lanciarla a Garzelli nel 2000. Mi sono sentito un privilegiato. 

Cambiò qualcosa dopo la vittoria del Tour?

Nel 1999 era un Pantani diverso. Sembrava onnipotente, ma conoscendo il suo carattere si vedeva che lo faceva per difendersi. Era meno sciolto dell’anno prima, pensa a quante pressioni aveva. Sportivamente era Dio. Ma si allenava tanto. Nel giorno in cui lo seguimmo in allenamento a Terracina, si prestò per tutte le foto e poi quando i compagni rientrarono, lui fece altre due ore da solo. Al ritorno, in hotel trovò Pezzi e Gimondi.

Marco Pantani, Giro d'Italia 2003
La caduta nella discesa del Sampeyre fu un colpo davvero durissimo
Marco Pantani, Giro d'Italia 2003
La caduta nella discesa del Sampeyre fu un colpo davvero durissimo
Giro d’Italia 1999, tappa del Gran Sasso…

Ero accanto a lui sulla moto quando scattò. Mise le mani sotto, si alzò sui pedali e buona notte a tutti. Quando si trattò di scendere, era circondato da 2-3 carabinieri che dovevano scortarlo verso la funivia. Io intuii il movimento e mi infilai dietro e salii assieme a loro. Marco mi vide, non potevo starci, ma non disse nulla. C’era anche Fontanelli, che gli chiese: «Panta, ma come hai fatto?!». Lui lo guardò e mimò il gesto di dare gas alla moto.

A Campiglio, infine…

Fu drammatico. Andai su molto prima rispetto al solito, perché ci attendeva una tappa cruciale. E al centro del Villaggio vidi due signori in un angolo: Neri e Cannavò. «Pantani non parte», disse Neri. Mi misi a correre verso il Touring seguito da Claudio Di Benedetto. E per non fare il giro largo, mi misi a scavalcare muretti e aiuole. Arrivammo su e vedemmo gente che piangeva. Ricordo Veneziano, il meccanico. Aspettammo tantissimo, finché un giovanissimo Andrea Agostini gestì la famosa conferenza stampa.

Tutto il giorno sotto all’hotel, aspettando?

A un certo punto vidi Giannelli che si allontanava portando in mano i tesserini dei corridori. Gli chiesi: «Ale, dove vai?». Mi rispose che andava da Castellano. Lo seguii, andò a comunicare che la squadra non sarebbe ripartita. La cosa singolare è che a Campiglio tornammo quello stesso inverno per un ritiro e ricordo una serata con Magrini che cantava…

Molino Rosso di Imola, servizio fotografico da rifare…

Neri faceva dei servizi in cui metteva a tavola Martini con un altro personaggio e quella volta toccò a Marco, Campiglio era già successo. Si presentò tardissimo, ma fu disponibile. Il guaio fu che quando tornai a Roma, mi resi conto che le foto non erano venute. Si trattava di rifarle, di convincere Martini e portare Marco. Onestamente non credevo che sarebbe venuto, ma clamorosamente andò in porto. Forse fu il suo modo di darmi una mano.

Giro d'Italia 1998, Marco Pantani, Ilario Biondi
Fine Giro 1998, Pantani in rosa si presta per le foto di rito. Qui con Ilario Biondi e il motociclista Volterra
Marco Pantani, Ilario Biondi, Carlo Volterra
Fine Giro 1998, Pantani e le foto di rito. Qui con Ilario Biondi
Nel frattempo lo sguardo cambiò?

Non direi. L’unica volta che lo vidi quasi perso, con le lacrime agli occhi, fu nella caduta del Sampeyre. Mi fece male vederlo cadere e stare lì fermo con quell’asciugamano sulle spalle, mentre Amadori lo pregava di non ritirarsi. Era come se fosse crollato tutto, era nei 10 e finì fuori classifica. Gli era costato tanto arrivare sin lì…

Ilario, ti ricordi del funerale?

Una situazione che non avrei voluto vivere. Entrai in chiesa e mi trovai davanti Tonina che urlava, una scena che mi ha straziato, quello che ricordo di più e che mi ha segnato. C’era una marea di gente e anche quel residence… Non mi capacitavo che potesse essere finito così.

Ti ricordi che bello quando rideva?

A proposito di ridere… Arrivo delle Deux Alpes, Marco si stava prendendo il Tour. Era buio pesto e avevo soltanto una pellicola Fuji 100 asa, scattavamo in diapositiva al tempo. Quella foto sarebbe entrata nella storia. E così per evitare che venisse completamente buia, decisi di tirare la pellicola di 2 stop e mezzo. Non lo avevo mai fatto in vita mia, praticamente scattai a 640 asa. Feci tre foto. Quando tornammo a Roma, andai da Ernesto al laboratorio e gli chiesi se avesse mai sviluppato una pellicola tirata a quel modo. Lui disse di sì e che comunque sarebbe stato attento. Vennero tre foto perfette. Marco non era uno che faceva tanti festeggiamenti sul podio, ma quella volta urlò come un pazzo.

Roberto Bettini, Giro d'Italia 2020

I 60 anni di Bettini nel Giro del Covid

22.10.2020
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Roberto Bettini oggi compie 60 anni. E dall’alto delle tante candeline e degli anni a fotografare le corse di mezzo mondo, il suo punto di vista sulla stagione del Covid dall’altro lato dell’obiettivo è un modo interessante per fargli gli auguri di buon compleanno e raccontare le giornate di lavoro degli inviati.

«Eravamo appena tornati dall’Argentina – sorride Roberto al tavolo della sala stampa – quando abbiamo cominciato a sentire strani discorsi. Non si sapeva ad esempio se la Parigi-Nizza sarebbe arrivata in fondo e a quel punto, dovendo mandare mio figlio Luca e Dario Belingheri, abbiamo preferito restare a casa, cercando di capire se e dove si sarebbe corso».

Jan Tratnik, San Daniele, Giro d'Italia 2020
Jan Tratnik, a San Daniele, accolto dal plotone dei fotografi
Jan Tratnik, San Daniele, Giro d'Italia 2020
Tratnik accolto dai fotografi San Daniele

Il lockdown è arrivato di colpo il 9 marzo e il ciclismo si è fermato. C’è voluto un po’ per capire cosa fare. Si parlava con le squadre per capire quali programmi avessero finché, di fronte alla chiusura totale, anche gli uomini del team BettiniPhoto si sono rassegnati all’immobilità, dedicandosi come il resto degli italiani ai lavori domestici, pedalando (alcuni) sui rulli e cercando di far passare il tempo nel miglior modo possibile.

Finché un bel giorno è nato il nuovo calendario…

Ne sono nati diversi, ma quando finalmente è stato ufficializzato quello definitivo, era da mettersi le mani nei capelli. Le sovrapposizioni erano incredibili, ci sono state domeniche con cinque corse. Un po’ era impossibile seguirle tutte e un po’ viaggiare sembrava rischioso.

Quindi?

Abbiamo sfruttato al meglio le collaborazioni in Spagna e Belgio. Ci siamo detti che ognuno sarebbe rimasto nel suo Paese condividendo poi le foto con gli altri. A parte il Tour, tante corse sono saltate e mano a mano che si riprendeva, abbiamo cercato nuove collaborazioni per corse che, in assoluto, dicevano poco. C’era una tale richiesta di immagini, che anche il Giro di Slovacchia è diventata una corsa da seguire.

Al Tour però i Bettini c’erano…

Prima di tutto perché è la corsa importante che sappiamo. E poi perché Cor Vos, agenzia olandese con cui collaboriamo, ci ha detto che non sarebbe andato e c’era tanto da fare. Diciamo che ci siamo dati una mano per ridurre i costi. Anche perché le squadre ci hanno messo davanti al fatto che avrebbero pagato il 30 per cento in meno. Per fortuna, saltando le corse, sono diminuite anche le spese.

Che effetti ha avuto questo calendario così rimaneggiato sulle foto?

Di sicuro abbiamo fatto foto che non rifaremo mai più. Il Giro con le foglie morte. La Tirreno con tanta gente sul lungomare, perché si è corsa nel periodo delle vacanze. Chissà che in futuro qualche cambio di data non lo valutino nuovamente…

Vuelta Espana, 2020, sanificazione
Alla Vuelta si sanifica la zona di arrivo
Vuelta Espana, 2020, sanificazione
Alla Vuelta si sanifica la zona di arrivo
Alle corse noi giornalisti siamo limitati nei movimenti.

Noi fotografi lo stesso. Non possiamo muoverci liberamente e si rischia di fare tutte foto uguali. Ai bus non puoi avvicinarti e allora scatti da lontano. I corridori non indossano la mascherina alla firma, ma ce l’hanno sul podio. Ai mondiali siamo riusciti a far cambiare la regola…

Cioè?

Cioè ci rispondono che devono indossarla al podio per ordine dell’Uci. Ma a Imola abbiamo spiegato che non ci sarebbero state belle foto e allora, dopo il protocollo, i corridori potevano toglierla e facevano il podio a tre. Ma se sono nella bolla, che problema hanno a fare una foto vicini? In corsa hanno la mascherina?

Le squadre cui date le foto come reagiscono a queste limitazioni?

Hanno capito e sono meno pressanti, anche perché tante hanno il fotografo al seguito e coprono da sé la quotidianità. Il problema è che questi colleghi sono nella bolla e poi vengono a fotografare il podio in mezzo a noi…

Quindi la bolla è bucata?

La bolla ha delle falle. Perché non farne parte anche noi? Perché saremmo fuori da tutto e non potremmo muoverci liberamente.

Agli arrivi però siete già a contatto con gli atleti, no?

Ma siamo meno e non possiamo muoverci. Non possiamo seguirli e fare quelle belle foto di fatica dopo la corsa. C’è un fotografo di LaPresse che fa qualche scatto per tutti e poco più. Lui fa i tamponi e quindi può stare a contatto con i corridori. Ma secondo me alcune delle cose cui ora siete costretti potreste ritrovarvele anche dopo.

Ad esempio?

La conferenza stampa del vincitore e della maglia fatta in videoconferenza, piuttosto che portarli in sala stampa. Al Tour è così da un pezzo, il Giro ha appena iniziato ed è più gestibile.

Joao Almeida, Madonna di Campiglio, Giro d'Italia 2020
Almeida, a Campiglio, brindisi con la mascherina
Joao Almeida, Madonna di Campiglio, Giro d'Italia 2020
Almeida a Campiglio, brindisi con mascherina
Al Tour c’erano gli stessi controlli del Giro?

Più o meno gli stessi, qua controllano badge e temperatura a ogni accesso, in Francia no.

Come sono organizzati i Bettini per la Vuelta?

Abbiamo là gli amici di Photo Gomez Sport che ci coprono tutta la Spagna, quindi anche la Vuelta.

Cosa si annuncia per l’inverno, pronto il piano dei ritiri?

Anche quello andrà capito, così come i piani per il 2021. I primi ritiri li coprono i fotografi interni, anche perché i corridori devono usare materiale 2020 e non si fanno foto ufficiali. Quindi per ora non c’è nulla. Invece per le prime corse, sarebbe il momento di prenotare per Australia, Argentina e Colombia, ma non si sa se si faranno. Allora stiamo cercando una collaborazione con un fotografo australiano, ad esempio, per essere coperti.

E in Italia?

Se tutto funziona, si riparte con Giro di Sardegna e Laigueglia, ma andrà tutto aggiornato con l’evolversi del Covid. Secondo me fino al Giro, sarà tutto così. Più avanti, se ci sarà o meno un vaccino, lo capiremo.

E allora buon compleanno, Roberto. Giorno migliore non poteva esserci. Quanti possono festeggiare i 60 anni raccontando una giornata che promette di essere indimenticabile al Giro d’Italia?