Torna il Trofeo Baracchi, la grande storia riparte

18.05.2022
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C’era un tempo in cui esistevano eventi che erano qualcosa più di semplici corse, competizioni, gare. C’era un tempo in cui la gara era sì accesa, ambita, combattuta, sognata, ma era quasi una scusa per ritrovarsi, salutarsi, abbracciarsi, dirsi arrivederci, condividere passioni, gioie, dolori, professionali e personali. Tra queste c’era il Trofeo Baracchi, una cronometro a coppie che si disputava su una distanza di 100 chilometri e di fatto concludeva la stagione ciclistica (in apertura, Moser e Hinault nell’edizione del 1984). Un ultimo giorno di scuola prima dell’inverno, della lunga sosta, prima che la stessa combriccola si rivedesse in Riviera, per il Laigueglia e la Sanremo.

Fu Giacomo Baracchi, detto “Mino” a inventare e tracciare il percorso della cronocoppie
Fu Giacomo Baracchi, detto “Mino” a inventare e tracciare il percorso della cronocoppie

Le Capitali della Cultura

L’ultima edizione di questa corsa, inventata dal commerciante bergamasco Mino Baracchi nel 1949, si disputò nel 1991, ma nel 2023 finalmente tornerà. La competizione si disputerà con la stessa formula della crono a coppie, sarà riservata ai professionisti e alle donne su un percorso che unirà Bergamo a Brescia. Le due città, cugine e rivali, saranno unite dal fatto che l’anno prossimo saranno Capitali della Cultura.

Ecco, la gara diventa motivo per condividere, scambiare, fondere, unire, appassionare. I nostalgici, i vecchi amanti della bicicletta cresciuti con Coppi e Bartali torneranno ad assaporare il gusto dolce del ciclismo di un tempo. I giovani, quelli nati sotto la stella di Pantani, di Nibali o di Ganna potranno innamorarsi ancora un po’ di più del ciclismo e comprenderne le radici più profonde, poi fiorite fino ai giorni nostri.

Nel 1953 Fausto Coppi e iridato e vince il Baracchi assieme a Riccardo Filippi (foto Miroir du Cyclisme)
Nel 1953 Fausto Coppi e iridato e vince il Baracchi assieme a Riccardo Filippi (foto Miroir du Cyclisme)

Lo zampino di Stanga

A volere il ritorno del mitico “Baracchi” sono stati Gianluigi Stanga, presidente dell’Unione Ciclistica Bergamasca; Beppe Manenti, organizzatore della Granfondo Felice Gimondi e Mario Morotti che di Mino Baracchi fu una sorta di braccio destro.

Tanti i campioni che vinsero il trofeo come Coppi, Motta, Anquetil, Merckx, Gimondi Baldini. La corsa si disputava il 1° novembre o il 4 perché erano due giorni simbolici: Ognissanti o quella che un tempo era la festa dell’Unità Nazionale. Una “trovata” da vero commerciante quella di Baracchi che voleva i fari puntati sulla corsa e sulla sua Bergamo. E così era, ogni anno, sempre un po’ di più, nonostante qualche aggiustamento sull’organizzazione, il percorso, i partecipanti.

Bergamo era il cuore della corsa con l’arrivo al velodromo di Dalmine che fungeva da grande palcoscenico, ma al tramonto della sua epopea si svolse anche in Trentino e in Toscana.

Nel 1979 Moser vince il Baracchi con Saronni: Francesco vanta 5 successi
Nel 1979 Moser vince il Baracchi con Saronni: Francesco vanta 5 successi (foto Miroir du Cyclisme)

Moser e Saronni

Non si disputò nemmeno sempre a coppie, ad esempio l’ultima edizione fu individuale e vinse Tony Rominger. Migliaia di persone, complice proprio il giorno di festa, si riversavano sulle strade per applaudire i propri campioni, soprattutto nell’epoca in cui le televisioni non esistevano e le radio narravano le gesta al Giro o al Tour, con i tifosi che dovevano immaginare, sognare, disegnare, fantasticare il volto di Coppi, le gambe di Bartali, le smorfie di Magni. Una corsa matta, folle, folkloristica, dove non sempre vinceva il più forte nelle gambe, ma il più forte nella testa.

Nei giorni scorsi Bergamo ha omaggiato Mino Baracchi in occasione dei 100 anni della sua nascita (l’ideatore è morto nel 2012, all’alba dei 90 anni) con Francesco Moser e Giuseppe Saronni ospiti d’onore. I due acerrimi rivali corsero insieme il trofeo nel 1979 e lo vinsero, anche in quel caso con qualche frecciatina in corsa. Baracchi che unì persino loro nonostante le iniziali perplessità, unirà anche Bergamo e Brescia per una nuova era, ci auspichiamo, ricca di altri aneddoti ed emozioni.

Stanga

Stanga, smettere presto è sempre colpa dei corridori?

18.01.2022
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Quella frase di Alex Carera continua a risuonare nella mente: «Coloro che smettono non sarebbero nemmeno dovuti passare». Ne avevamo parlato anche nell’editoriale della settimana scorsa, perché in essa è contenuto molto del malessere che vive attualmente il ciclismo italiano. Si parla tanto di passaggi precoci al professionismo, ma nella storia italiana periodi simili non sono una novità, lo ha raccontato anche un campione del secolo scorso come Silvano Contini. Allora dov’è la verità?

Per approfondire il discorso abbiamo voluto confrontarci con Gianluigi Stanga, marinaio di lungo corso che ha vissuto molteplici ruoli nel ciclismo professionistico (ha anche il patentino Uci come procuratore), per verificare innanzitutto se è davvero un problema nuovo con cui dobbiamo aver a che fare.

«Ci sono stati più periodi – dice – nei quali si passava pro’ appena scavallata la maggiore età. Non solo ai tempi di Saronni e Contini, non dimentichiamo ad esempio Pozzato, anche lui passò professionista sulla base dei risultati nelle categorie giovanili. Quando il talento emerge in maniera prepotente, è chiaro che si tende a massimizzare e a iniziare la carriera che conta quanto prima. Allora però le squadre erano composte al massimo da 14-15 corridori, oggi ne hanno il doppio e quindi si pesca con maggiore frequenza».

Carera 2021
Alex Carera, procuratore, ha messo sul piatto una prospettiva diversa sui passaggi precoci
Carera 2021
Alex Carera, procuratore, ha messo sul piatto una prospettiva diversa sui passaggi precoci
Venendo nello specifico, Carera ha ragione?

Per alcuni versi sì, ma è chiaro che i procuratori fanno di tutto per accelerare i tempi. Guardiamo il caso di Ayuso, appena ha iniziato a ottenere risultati è subito passato, io credo che rimanere ancora fra gli under 23 gli avrebbe fatto bene, anche per incassare meglio le giornate storte che ci sono state e ci saranno, come per ogni corridore. Poteva bastare anche terminare la stagione, poi affrontare il nuovo anno nella categoria maggiore con meno pressioni.

Perché il passaggio di categoria è così traumatico?

E’ un ciclismo diverso, con molta più pressione e pochi si adattano subito. Nelle categorie precedenti si è tutti coccolati, quando passi sei uno dei tanti e molti si sentono abbandonati. Alla fine emergono quelli che hanno più carattere, quindi è parzialmente vero che i corridori prima di passare dovrebbero pensarci bene, è pur vero però che poi hai il terrore che il treno non passi più e i procuratori, che nel tempo si sono moltiplicati, spingono per farli passare.

Saronni Moser 1980
Un giovanissimo Saronni in maglia tricolore, insieme al “nemico” Moser. Beppe passò a 19 anni, nel ’77
Saronni Moser 1980
Un giovanissimo Saronni in maglia tricolore, insieme al “nemico” Moser. Beppe passò a 19 anni, nel ’77
E’ giusto dire che vendono il loro prodotto?

Solo in parte. Un procuratore non finisce il suo lavoro quando il corridore ha firmato il contratto, ma deve continuare a seguirlo, deve aiutarlo a emergere perché solo così anche lui potrà guadagnare. Nel calcio è più semplice, i giocatori hanno tempo per emergere, ci sono le squadre Primavera, qui invece si consuma tutto più in fretta, da junior puoi essere un vincente, ma da pro’ non è detto che sia la stessa cosa.

Non sarebbe il caso di porre un freno, imporre una militanza nella categoria, se non per tutta la sua durata almeno per parte?

Le regole ci sono in Italia, ma si aggirano facilmente con la residenza estera, perché il problema è a monte, nel regolamento internazionale che è cambiato con le Olimpiadi. Mi spiego meglio: prima del 1992 c’erano due federazioni distinte, quella per professionisti e per dilettanti, che comunicavano ma gestivano autonomamente l’attività. Poi con l’avvento dei professionisti alle Olimpiadi in ogni sport, si è proceduto all’unificazione e venendo ai giorni nostri, all’estero il problema non è così sentito come da noi e nessuno ha interesse a rimettere mano al regolamento. Quel che dovrebbe vigere è il buon senso: d’altronde come fai a impedire a un maggiorenne di firmare un contratto proposto? Si rivolgerebbe subito a un tribunale del lavoro vincendo la causa…

Pozzato 2013
Anche Filippo Pozzato passò professionista a 19 anni saltando di categoria
Pozzato 2013
Anche Filippo Pozzato passò professionista a 19 anni saltando di categoria
Sei d’accordo sul fatto che il precoce passaggio di Evenepoel ha provocato danni nell’ambiente?

Tutte le squadre cercano il Remco o il Pogacar della situazione e quindi appena uno vince, anche da allievo, subito si grida al campione. Se hai una squadra di 30 corridori, 10 saranno per le vittorie, 10 per lavorare, fra gli altri puoi anche permetterti di scommettere…

Quale potrebbe essere allora la soluzione?

L’ho detto, il buon senso. Ricollegandosi al ciclismo di una volta, mettendo un limite al numero di ciclisti tesserabili nelle varie squadre, limitando l’attività come giorni di gara, tanto le prove che contano veramente, che cambiano la vita di un corridore e fanno la fortuna di un team sono sempre quelle: una Liegi non potrà mai essere paragonata a un Uae Tour… Manager e diesse, procuratori e corridori, io dico che bisogna lavorare tutti di comune accordo avendo a mente il bene generale e non del singolo, se serve tenere i giovani un po’ di più a bagnomaria, facciamolo, se ne gioveranno più avanti. Ma mi rendo conto che sto parlando di un’utopia, vista la società nella quale viviamo…

Procuratori nel ciclismo, utili o necessari?

01.03.2021
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In questo periodo si parla molto della figura dei procuratori nel ciclismo, anche un tecnico storico come Beppe Martinelli li ha chiamati in causa come componente che fa parte di questo mondo ma deve dare di più e non essere legata solamente al contratto di questo o quel corridore. Quando si parla di procuratori è facile andare con la mente al calcio, dove ognuno ha il suo e anzi se non ce l’hai, una squadra non la trovi più. Nel ciclismo il loro approdo è molto più recente.

Parla Quinziato

«Io ho iniziato a correre fra i professionisti nel 2002 – racconta Manuel Quinziato, noto non solo per le sue grandi qualità di cronoman, ma anche per riuscire a conciliare la professione sportiva con gli studi e la conseguente laurea in legge – ma di procuratori si parlava già da una decina d’anni. Una cosa che ritengo sia alla base della mia professione è che l’impegno non si esaurisce con il mettere sotto contratto un atleta e trovargli una squadra, il rapporto deve continuare tutto l’anno, consolidarsi e per questo credo che sia bene avere un numero limitato di corridori nella propria agenda».

Sagan vince la Roubaix del 2018, l’abbraccio con Lombardi parla di condivisione
Sagan vince la Roubaix del 2018, l’abbraccio con Lombardi parla di condivisione

Scuola Lombardi

Nell’intraprendere questa strada, Quinziato ha avuto un maestro d’eccezione in Giovanni Lombardi, l’olimpionico di Barcellona ’92 oggi considerato, in una recente classifica pubblicata da Forbes, tra i 50 personaggi più influenti nel mondo del ciclismo.

«Abbiamo corso insieme – dice – e mi ha instillato questa passione come modo per poter restituire al ciclismo un po’ di quel tanto che mi ha dato, aiutando i ragazzi a districarsi in questo mondo».

Presenza alle corse

Quinziato, che tra gli altri cura gli interessi fra gli altri di Matteo Trentin (nella foto di apertura, i due sono insieme alla Vuelta del 2018), Jonathan Milan, i fratelli Bagioli, tiene molto all’aspetto umano della sua figura.

«Non so se ricordate il film Jerry Maguire con Tom Cruise – spiega – che seguiva la carriera di un campione del football americano, accompagnandolo in quasi tutte le sue trasferte, facendo da confidente oltre che curatore dei suoi interessi. Il nostro lavoro deve per forza essere così. Io seguo tantissime corse, sono presente con i corridori, ma naturalmente anche con le loro squadre. E se ci sono problemi da affrontare, ad esempio infortuni e conseguenti controlli medici, mi impegno in prima persona. Quando poi si tratta di strategie e di allenamenti, è mio dovere fare un passo indietro, lì contano soprattutto la squadra, il corridore e il rapporto che c’è fra loro».

Lo scouting

A differenza di quanto avviene nel calcio, dove ormai ogni team sa che deve passare attraverso i procuratori e la loro presenza è costante e certe volte anche invadente, nel ciclismo il rapporto con i team è ancora in divenire. Molti direttori sportivi, soprattutto di vecchia guardia, mal sopportano la loro figura, intesa come un semplice intermediario che porta ostacoli e perdite di tempo.

Gianluigi Stanga, tecnico di lunga milizia e che tra l’altro è fra i pochi ad avere anche il patentino Uci di procuratore, a tal proposito ha le idee abbastanza chiare.

Stanga oggi si è defilato, dall’attività. L’ultimo grande team fu la Milram di Petacchi. Qui con Capello il cui figlio è procuratore
Stanga, qui con Capello, ha il patentino da procuratore

«La figura del procuratore nel ciclismo – dice – solo da poco è diventata così importante, perché si vanno a cercare i talenti già nelle categorie giovanili per metterli sotto contratto. Io dico che se questa professione è fatta in maniera corretta, è un bene per il movimento, ma non guardando al proprio tornaconto. Pensare solo a trovare ai corridori residenze all’estero in paradisi fiscali… Avere un procuratore per un corridore non è un obbligo, se sa trattare direttamente i suoi interessi: io presi Fignon e Moser, ad esempio e vi posso assicurare che i loro interessi sapevano curarli molto bene…».

Non da solo

Stanga punta molto sulla professionalità della figura: «Un procuratore non può far tutto, io mi fido più di quelli che hanno insieme a loro commercialisti e avvocati, fanno parte di agenzie ben strutturate in tal senso. L’importante però è che il procuratore abbia sempre a cuore il suo assistito non solo economicamente. Non basta curare i suoi contratti di assunzione e di sponsorizzazione, deve essere una presenza costante, dare un supporto anche alla squadra in questo senso, svolgendo il ruolo di referente, anche e anzi soprattutto quando le cose per l’atleta non vanno. Allora anche i più renitenti alla fine accetteranno di parlare con lui».