Serge Parsani, Paolo Bettini 2006

Stanno schiacciando il direttore sportivo

01.01.2021
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A Bergamo fa freddo, Parsani si ripara dietro alla barba bianca da direttore sportivo in pensione e torna a casa dopo la visita a mamma Rosetta, che ha da poco compiuto 99 anni.

«Le dico sempre di arrivare alla tripla cifra – sorride – poi potrà andare dove vuole. A volte molla un po’, come un velocista in salita. Poi però rientra. Quando giochiamo a scopa, non la faccio vincere perché così reagisce. Non le piace perdere. E’ la mia vita da pensionato. Non mi annoio, a casa trovo sempre qualcosa da fare. In più ho un nipotino che si chiama Leonardo e ha stravolto la mia vita, ma mi distoglie da tutti i problemi. Vado a prenderlo all’asilo e passo ogni giorno due ore con lui. E non penso ad altro…».

Serge Parsani, bergamasco nato in Francia, classe 1952. Nella foto di apertura è con Bettini dopo il mondiale di Salisburgo 2006. Da professionista ha corso dal 1974 al 1983 alla Bianchi-Piaggio, accompagnando Felice Gimondi negli ultimi 6 anni di carriera. Poi è salito in ammiraglia, guidando alcune fra le squadre più importanti degli anni 90: Gewiss-Bianchi e Mg-Gb, l’Ascis-Cga, la Mapei, la Quick Step e la Katusha, chiudendo poi la carriera con Scinto.

Nelle ultime settimane abbiamo parlato con qualche team manager e parecchi direttori sportivi, rendendoci conto di quanto sia cambiato il mondo. C’è chi li considera il cuore della squadra. Chi (a microfoni spenti) ti dice che la loro unica funzione è impedire che i corridori rompano le scatole. Chi li mette al centro del progetto e chi si accontenta che guidino l’ammiraglia. Rispetto al resto del mondo, l’Italia è ferma a un retaggio antico, ma il nuovo non è sempre garanzia di qualità. Per questo abbiamo chiamato lui. Perché è nato nelle squadre del primo Ferretti. Ha visto nascere la Mapei, antesignana degli squadroni di oggi. Ha vissuto le ingerenze straniere alla Katusha. E alla fine ha fatto i conti con i mezzi limitati della Farnese.

Mapei, Coppa del mondo 2002
Bettini conquista la Coppa del mondo 2002 e la Mapei si scioglie. Sul palco del Lombardia anche i compianti coniugi Squinzi e Aldo Sassi
Mapei, Coppa del mondo 2002
Lombardia 2002, Bettini festeggia la Coppa e la Mapei si scioglie
Dicci Serge, come la vedi oggi la figura del direttore sportivo?

Partiamo da com’era. I miei inizi sono stati un po’ in sordina alla Gewiss-Bianchi, alle spalle di Ferretti, dato che ero ancora dipendente Bianchi. Oggi uno come Giancarlo non c’è più, direi purtroppo, pur rendendomi conto che sarebbe impossibile. Giancarlo era manager, direttore sportivo, responsabile del marketing. Faceva tutto lui. Oggi nelle squadre si sono differenziati i ruoli, probabilmente è necessario, ma in tanti casi manca il collante fra gli stessi.

In Italia siamo ancora fermi alla figura che accentra…

In Italia purtroppo ci sono soltanto quattro squadre professional. Se il ciclismo mondiale fosse solo questo, allora sarebbe uno sport molto povero, perché parliamo di manager incapaci di restituire allo sponsor tutto quello che il ciclismo riesce a dare. Del resto non si spiega perché non abbiamo più squadre WorldTour, visto che prima i campioni erano tutti qua. Bisognerebbe che tanti si facessero un esame di coscienza.

All’estero è diverso?

Ci sono manager all’altezza, che non vogliono essere dentro in tutto. Magari informati, ma lasciano le decisioni ai responsabili delle singole aree. Il modello Ferretti poteva funzionare in quegli anni, con lo sponsor che sceglieva la persona e gli dava carta bianca. Il ciclismo di oggi si è allargato, quello italiano no. E lo stesso mi viene da applaudire chi riesce a mettere insieme queste piccole squadre, perché pur senza grosse sostanze offre la possibilità a qualche giovane di farsi vedere.

Senza grosse sostanze, il tecnico riesce ancora a progettare o ha poco margine?

Quello che fa il tecnico è da capire, anche quando ci sono tanti soldi. Quando vedo che una squadra WorldTour ha 10-12 direttori, la figura perde di centralità e importanza. Non sei più il punto di riferimento per i corridori. Fai pochi giorni con ognuno, non riesci nemmeno a capire che carattere abbiano. Il corridore di 20 anni fa ti diceva che il tale direttore sportivo era stato o non era stato importante per la sua crescita e i suoi risultati, oggi fanno fatica a ricordarseli.

Qualcuno bravo però si distingue ancora…

Vedo Martinelli, che è un bravo diesse e non deve più fare le veci del manager, ma spesso è schiacciato dall’entourage kazako. Puoi programmare quello che vuoi, formare il gruppo, ma se i capi decidono che vogliono tre dei loro nella squadra del Tour, devi portarli. A me è successo in Katusha, quando bisognava dare spazio ai russi, perché a loro fa più comodo un russo che fa decimo, di uno spagnolo che vince. Come fai a conquistarti la fiducia dei corridori, se all’ultimo momento devi lasciarli fuori per queste imposizioni? E poi ci sono tutti gli altri…

Serge Parsani 2020
Così oggi Parsani con la sua barba. Il bergamasco ha compiuto 68 anni ad agosto
Serge Parsani 2020
Serge Parsani e la sua barba bianca
Di chi parli?

Allenatore. Nutrizionista. Osteopata. Mental coach. Il direttore sportivo deve mettersi in fila e non vengano a raccontarmi che basta una videoconferenza. Il rapporto con i corridori sanno tenerlo in pochi. Alla Mapei, ciascuno col suo gruppo, si riusciva ancora.

Ecco bravo, la Mapei. E’ stata la prima squadra di un certo tipo.

La Mapei è stata il moderno senza tralasciare l’antico. C’erano tutte le strutture, di preparazione e tecniche, ma riuscimmo a mantenere il ruolo delle persone. La squadra era nata dalla visione di Aldo Sassi. Squinzi magari entrava nel merito dei risultati, ma non ha mai interferito sulla gestione degli atleti, pur volendo sapere tutto. Quando eravamo in Australia, face il conto del fuso orario e mi chiamava per sapere come stessero i ragazzi.

Ora lo sponsor è lontano, in effetti.

Sono meno coinvolti. Non so se per loro disinteresse o per scelta. Il ciclismo ha sempre dato una visibilità esagerata. L’inverno dopo la chiusura della Mapei, fummo invitati alla festa di fine anno dell’azienda. E Squinzi disse che per l’assenza della squadra il fatturato era calato del 15 per cento. Non so se Segafredo sia più appassionato al basket o al ciclismo, ma è strano che un’azienda così faccia il secondo nome in una squadra americana.

Perché strano?

Perché nonostante l’allargamento dei confini, i grandi Giri e le classiche più importanti le abbiamo noi, la Francia e la Spagna. L’Italia merita di avere 3 squadre WorldTour, altro che storie…

Ammettilo, ti manca la vita del direttore sportivo?

Adesso non più tanto. All’inizio, quando cominciai a vedere che arrivavano le corse giuste, un po’ mi pesò essere fuori. Poi capisci che il momento è finito e te ne fai una ragione…