Davide Cimolai

E anche Cimolai saluta. Un anno tosto, ma quanti progetti in testa

30.11.2025
8 min
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Sedici anni di carriera professionistica, al servizio di molti capitani, nove vittorie, 15 Grandi Giri e 27 classiche monumento disputate, sei squadre… sono i numeri di Davide Cimolai che ha deciso di lasciare le corse. E così ecco un altro ragazzo, dopo Gianluca Brambilla o Giacomo Nizzolo, che appende la bici al famoso chiodo.

Sarebbe però sbagliato sintetizzare la carriera di uno dei corridori più sensibili (e lasciateci aggiungere, educati) del gruppo solo con i numeri. “Cimo” è stato ed è molto, molto di più. Quando risponde al telefono il suo tono è squillante. «Sono felice»: è una delle prime frasi che ci dice. E si sente. Inizia subito a parlarci di progetti, di aver smesso per sua scelta e con serenità. E questo è un aspetto vitale.

Davide Cimolai
Febbraio 2010, Cimolai esordisce tra i pro’ al Tour de San Luis (a destra Chicchi in maglia di leader)
Davide Cimolai
Febbraio 2010, Cimolai esordisce tra i pro’ al Tour de San Luis (a destra Chicchi in maglia di leader)
Cimo, dunque, partiamo proprio da questi progetti che ci hai accennato. Ci sono due strade: un sogno a lungo termine e un’altra più concreta e a breve termine. Puoi spiegarci?

Uno è al di fuori del mondo sportivo, nel settore dell’agricoltura, un settore che mi è sempre piaciuto, ma per ora, poiché è davvero in alto mare, preferisco non parlarne.

E l’altro invece?

Mira a restare nel ciclismo. Non voglio abbandonare completamente il mondo delle due ruote. Sedici anni di esperienza professionale sono un bagaglio prezioso da non lasciare cadere nel vuoto e non lo voglio sprecare. L’obiettivo dunque è trasmettere la mia esperienza, in particolare ai giovani. Sto gettando le basi per aprire uno “studio” con il quale seguire ragazzi e atleti. Fargli vivere questo sport con professionalità ma anche con passione. L’annuncio arriverà quando tutto sarà pronto.

Parlaci un po’ delle ragioni del tuo ritiro. Quando hai cominciato a maturare l’idea nella tua testa?

Parto dall’inizio della stagione per dare un quadro completo e farvi capire bene. Avevo iniziato quest’anno con l’intenzione di correre un altro anno, quindi fino a tutto il 2026, ma la realtà è stata subito diversa dalle mie aspettative.

Davide Cimolai
Ottobre 2025, l’ultima gara al Tour de Guangxi. Dalla foto precedente a questa, per Cimolai ben 1.126 giorni di corsa
Davide Cimolai
Ottobre 2025, l’ultima gara al Tour de Guangxi. Dalla foto precedente a questa, per Cimolai ben 1.126 giorni di corsa
Si è rivelata una stagione difficile? Tu stesso ce ne parlasti a Trieste prima della partenza del campionato italiano…

In Oman ho avuto una brutta influenza che mi ha costretto a correre debilitato. Poi, anche se non avrei dovuto, ho continuato anche al UAE Tour visto che ero già lì. La squadra mi ha coinvolto all’ultimo e, credetemi, ho dato tutto e giocato di mestiere solo per finirlo. Idem con alcune corse dopo, tra cui la Strade Bianche e alcune classiche del Nord. Dovevo andare al Giro d’Italia, quindi sono andato al Romandia ed è successo il fatto più grave.

Quale?

Ho avuto una grave infezione al braccio, a seguito di una ferita che avevo trascurato. Vi dico solo che c’è stato bisogno del ricovero e ho rischiato l’amputazione del braccio stesso. Ma il problema maggiore, per assurdo, non è stato tanto il braccio, quanto le dosi massicce di antibiotici che ho dovuto fare.

Perché?

Mi hanno debilitato moltissimo. Per dire: io non avevo mai avuto un’otite in vita mia, in poche settimane ne ho avute tre. Questi problemi mi hanno impedito di raggiungere il 100 per cento della condizione, fatto essenziale per essere competitivo e divertirsi, specialmente a 36 anni.

Davide Cimolai
Il friulano (classe 1989) ha vinto la sua prima gara da pro’ nel 2015 a Laigueglia
Davide Cimolai
Il friulano (classe 1989) ha vinto la sua prima gara da pro’ nel 2015 a Laigueglia
E oggi, come dicono tutti i corridori, devi essere al top. Non puoi andare in corsa solo per costruire la condizione…

Esatto, proprio questo volevo dire. Di fatto sono stati tre mesi durissimi. Tre mesi in cui ho quasi smesso di correre. Sono andato a Livigno, sono riuscito a prepararmi bene e così ho affrontato discretamente alcune corse: Vallonia e Polonia. Ma in Polonia ho preso, come molti altri, il Covid in modo pesante. Alla fine questo accumulo di difficoltà fisiche e mentali soprattutto mi ha fatto capire che il percorso professionale era giunto al termine. E io avevo giurato fedeltà alla squadra un altro anno.

Però ti hanno spesso richiamato all’ultimo. Non credevamo saresti voluto restare in Movistar

Non ero così disposto a cercare altre opzioni. Tra l’altro io sono un gregario, un uomo squadra. Non un leader che decide di fare questa o quella corsa. E per me questo significa essere pronti e disponibili quando ti chiamano. Essere professionali.

Quanto ha inciso anche la questione Gaviria che non ha rinnovato? Ricordiamo che tu eri, o saresti dovuto essere, il suo ultimo uomo…

Ha inciso parecchio. Ha inciso nella valorizzazione del mio lavoro di supporto. Forse con una vittoria in più le cose anche per me sarebbero cambiate. Tuttavia sono orgoglioso del mio impegno e del nuovo ruolo che mi sono ritagliato: stare vicino ai giovani, aiutarli a crescere. Attenzione però, non vorrei che passasse il messaggio che smetto con rimpianti o scuse. No, semplicemente la realtà è stata questa.

Il progetto con Gaviria alla Movistar non è andato benissimo. Tante sfortune per entrambi
Il progetto con Gaviria alla Movistar non è andato benissimo. Tante sfortune per entrambi
E con realismo hai fatto una scelta. Davide, invece come ha reagito la tua famiglia a questa decisione?

Avevo già accennato ai familiari e agli amici l’eventualità del ritiro. La mia compagna, Alessia, in tutti questi anni è stata il mio più grande sostegno, il mio punto di riferimento. Mi ha sempre incoraggiato a continuare, anche nei momenti più difficili, come per esempio dopo l’esperienza con Cofidis. Lì ho rischiato parecchio. Ma lei era sicura che sarebbe arrivata una chiamata da parte di un’altra squadra. Ora anche lei è felice della mia decisione… anche perché mi vedrà più spesso a casa. Anzi, se posso dirlo, è un mese che sono a casa e per certi aspetti era più comoda la vita da atleta!

“Cimo”, cosa ricordi dalla prima gara con i professionisti?

Ricordo il mio debutto nel 2010 al Tour de San Luis in Argentina. Ero con la Liquigas. Da dilettante ero abituato a vincere e a prendere vento in faccia solo per fare la volata. Al San Luis il mio capitano per gli sprint era Francesco Chicchi. Così subito mi ritrovai a tirare per chiudere sulla fuga. E a tirare per portarlo davanti allo sprint. In squadra però c’era anche Vincenzo Nibali. Succede che Vincenzo vince la crono e va in maglia… Ancora peggio per me! Davanti sin da subito per difendere il primato.

Insomma hai capito subito l’antifona!

Esatto, ho subito capito la differenza. Però è stato anche bello vedere come con i premi potevi fare più soldi del tuo dispendio. All’epoca passai in quello che era uno squadrone come Liquigas, ma partii con il minimo. Prendevo davvero poco. I premi in quegli anni erano ancora in contanti e tornai a casa con un bel po’ di dollari. Anche questa fu una sorpresa, ma bella!

Davide, con la sua compagna Alessia e le sue figlie Mia e Nina (immagine Instagram)
Davide, con la sua compagna Alessia e le sue figlie Mia e Nina (immagine Instagram)
E invece dal San Luis 2010 al Tour de Guangxi 2025, quanto è cambiato il tuo fisico?

Sostanzialmente le mie caratteristiche fisiche sono rimaste simili, ma negli ultimi anni, grazie a un allenamento in palestra oggi molto più continuo rispetto al passato, ho aumentato la mia massa muscolare. Mediamente un chilo in più… Il contrario di quel che accadeva un tempo.

E Davide, come uomo com’è cambiato nel tempo?

E’ cambiato il ciclismo, forse in modo più interessante. E con la maturità che ho ora, con l’impegno che ci ho messo negli ultimi anni, soprattutto con la voglia di faticare, con la sopportazione alla fatica, mi sono reso conto che prima avrei potuto, tra virgolette, impegnarmi di più. Non sono qui a dire che avrei vinto di più. No, le cose sono andate così e ne sono contento. Dico solo che all’epoca le cose mi venivano più facili. Facevo il mio, con grande impegno, però stop. Invece col senno di poi avevo un altro step per arrivare al 100 per cento. Mi sono reso conto che mentalmente ero “fragile”.

C’è stato un cambiamento graduale nella tua resistenza alla fatica oppure hai vissuto un momento spartiacque netto?

E’ stato graduale, ma me lo ha fatto capire il preparatore che ho avuto in Movistar, Leonardo Piepoli. Lui mi è stato davvero d’aiuto, mi ha fatto maturare, mi ha fatto vedere le cose in un’altra prospettiva. Anche gli allenamenti stessi, insomma. Analizzando come mi ero allenato gli anni precedenti, mi ha detto chiaramente che potevo fare di più a livello numerico durante la preparazione.

Davide Cimolai
Davide è stato anche più volte in azzurro: ha corso tre mondiali e quattro europei
Davide Cimolai
Davide è stato anche più volte in azzurro: ha corso tre mondiali e quattro europei
Qual è stata la corsa, in tanti anni di professionismo, che ogni volta ti emozionava di più? Quella che sentivi davvero?

La Sanremo – replica secco Cimolai – perché l’ho sempre sognata. Sarà che sono italiano, boh. Ricordo che, prima del Covid quando era ancora aperta ai velocisti, partendo da Milano non vedevo l’ora di arrivare sul Poggio sapendo che il dilemma era se fare la volata o tirarla. Capite: davo per scontato che avrei superato il Poggio. Oggi è impossibile. E poi anche il Fiandre mi dava forti emozioni. Ho avuto la fortuna di correrlo diverse volte e l’atmosfera che si vive lassù, ragazzi, è incredibile. E poi un corridore non è un vero professionista se non prova a fare e a finire un Tour de France.

Interessante: perché?

Ricordo molto bene il mio primo Tour, anche perché è quello in cui ho sfiorato il podio in una tappa. Poi sarà che l’ho vissuto con spensieratezza e non sentivo lo stress che genera la Grande Boucle. L’ho fatto cinque volte (dal 2013 al 2017, ndr) e ogni volta sono arrivato a Parigi. L’emozione di entrare sugli Champs Elysées è rimasta la stessa ogni anno. Questo è il ricordo più bello del Tour.

Davide Cimolai
L’entrata ai Campi Elisi, emozioni sempre forti per Cimolai
Davide Cimolai
L’entrata ai Campi Elisi, emozioni sempre forti per Cimolai
Visto che vuoi lavorare con i giovani, lasciamo a te la parola: se potessi dare un messaggio a un allievo che oggi inizia il ciclismo, cosa diresti?

Parto con un esempio. Quando a luglio mi ritrovavo a Livigno tanti anni fa, e lassù incontravo un allievo o uno junior gli dicevo: «Ragazzi, ma cosa fate quassù alla vostra età? Andate a mangiarvi una pizza al mare. Pedalate sì, ma rilassatevi in un altro modo, non venite a fare i professionisti». Ero di quella filosofia.

E di quella scuola…

Esatto, ma adesso che piaccia o no, il ciclismo è cambiato. Perciò oggi dico che già l’allievo deve essere mentalizzato a fare ciò che io facevo magari da under 23, se non nei primi anni da professionista. E’ tutto anticipato. Questa non è una cosa che mi piace, ma è così. E se vuoi fare il professionista devi accettarla, adattarti. A 20-21 anni devi essere già al top della carriera. Prima certe cose e certe mentalità si facevano e si avevano a 20-22 anni, adesso le devi avere a 15. Devi avere già il tuo sogno nel cassetto: passare professionista. Io ce l’avevo in mente a 18-19 anni. A quell’età avevo l’idea fissa di correre e diventare pro’. Oggi bisogna anticipare un po’ i tempi.

Arnaud Demare, ritiro

Guarnieri saluta Demare: «Leader silenzioso, pro’ fino al midollo»

19.10.2025
7 min
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E’ questo il periodo degli addii. Finisce la stagione e tanti salutano. Quest’anno, più di altre volte, sembrano essere numerosi gli atleti, anche importanti, che lasciano il gruppo. Sembra quasi esserci un cambio generazionale netto. E tra questi c’è anche Arnaud Demare, classe 1991, originario di Beauvais, nel Nord della Francia.

Il francese è stato un velocista particolare: capace di alti e bassi, spesso discusso sia all’esterno sia all’interno del suo team – basti ricordare il “non idillio” con Thibaut Pinot – ma resta il fatto che è stato un grande. Ben 97 vittorie, tra cui una Milano-Sanremo, una Classica di Amburgo, due Parigi-Tours, tappe al Giro d’Italia, al Tour de France e alla Vuelta, oltre a tre titoli nazionali. E se è stato così grande, una parte importante del merito va a Jacopo Guarnieri, il suo ultimo uomo per gli sprint.
Proprio attraverso i ricordi di Jacopo salutiamo Demare.

Arnaud Demare e Jacopo Guarnieri: i due hanno corso insieme per sei stagioni dal 2017 al 2002
Demare, Guarnieri,
Arnaud Demare e Jacopo Guarnieri: i due hanno corso insieme per sei stagioni dal 2017 al 2002
Jacopo, tu con Demare ci hai corso un bel po’. Avete condiviso insieme una parte importante delle vostre carriere…

Sei anni che, se ci pensi, su una carriera di sedici non sono neanche tantissimi. Però, come dici tu, sono stati anni fondamentali. Arrivavo da due stagioni piene di soddisfazioni con Kristoff, perché avevamo vinto 35 gare in due anni. Con lui avevo vissuto solo momenti positivi, ma è nelle difficoltà che si crea il legame più forte. Con Arnaud abbiamo affrontato momenti complicati e proprio quelli ci hanno uniti ancora di più.

Demare era un grande velocista anche dal punto di vista fisico. Aveva bisogno di un treno solido, di cui tu eri il macchinista. Come avete costruito quel treno negli anni?

Abbiamo avuto un triennio molto buono, poi dopo il 2020 le cose sono un po’ cambiate. Ma tra il 2017 e il 2020 siamo stati davvero un punto di riferimento. Arnaud con me è sempre stato molto aperto: mi lasciava carta bianca nell’organizzazione. Ma soprattutto mi portava quasi su un piedistallo. Quando Madiot mi prese, io avevo firmato prima del Tour, non ci credava. Ricordo un episodio curioso…

Racconta…

Al Tour del 2016 una sera noi della Katusha capitammo in hotel insieme all’allora FDJ. Marc Madiot, il team manager della FDJ, mi chiese di incontrarlo. Eravamo io, lui e il fratello di Pinot, che lo aiutava con l’inglese. Madiot mi fece una foto e la mandò ad Arnaud, scrivendogli: “Vedi che non ti sto prendendo in giro. Ho preso Guarnieri”. Démare non ci credeva, pensava fosse impossibile che fossi davvero io ad arrivare nel team. All’epoca, per un corridore non francese entrare in una squadra francese non era affatto comune. Rimase sorpreso, ma mi stimava molto. Da lì nacque la fiducia: mi lasciò organizzare tutto. Il primo anno c’era anche Cimolai, che conoscevo da bambino, e questo rese tutto più semplice. Già in Katusha mi occupavo del treno, quindi portai lo stesso metodo nella nuova squadra. E la prima gara insieme fu… memorabile.

Demare, Guarnieri, treno
Demare diede carta bianca a Guarnieri circa l’organizzazione del treno. Dagli allenamenti alla gara
Demare, Guarnieri, treno
Demare diede carta bianca a Guarnieri circa l’organizzazione del treno. Dagli allenamenti alla gara
In che senso?

Prima tappa dell’Etoile de Bessèges 2017: primo Démare, secondo Kristoff. Avevo lasciato la Katusha perché c’erano dubbi sugli sponsor e mi avevano fatto un’offerta minima, quasi a dirmi “puoi andare”. Kristoff era un ragazzo semplice, anche troppo per certi aspetti, e non disse nulla. Io ero il suo ultimo uomo, quindi la situazione era un po’ assurda. Poteva metterci lui la differenza, come avviene in alcuni casi… Ma non andò così. Al tempo stesso l’idea di lavorare con Demare mi piaceva. Aveva già vinto la Sanremo, un titolo nazionale e corse importanti. Gli mancavano solo le tappe nei grandi Giri e un po’ di continuità.

Che è quella che fa davvero la differenza per uno sprinter…

E’ fondamentale. Anche vincere solo due o tre gare in più cambia la stagione. Nel 2017 il treno si mostrò subito competitivo e nel 2018, con Sinkeldam, facemmo un ulteriore salto di qualità. Poi arrivarono Konovalovas e Scottson, e diventammo praticamente perfetti. Ognuno compensava le caratteristiche dell’altro, e questo ci rendeva molto efficaci. Non vincevamo sempre, ma eravamo sempre lì. E quella consapevolezza ci dava una forza incredibile.

Demare, vince Sanremo 2016
Nel 2016 Demare vince la Sanremo tra le proteste. Dopo una caduta sui Capi, fu accusato da alcuni corridori di essere rientrato attaccato all’ammiraglia. Tuttavia non ci furono proteste ufficiali
Demare, vince Sanremo 2016
Nel 2016 Demare vince la Sanremo tra le proteste. Dopo una caduta sui Capi, fu accusato da alcuni corridori di essere rientrato attaccato all’ammiraglia. Tuttavia non ci furono proteste ufficiali
Qual è stata la vittoria più bella?

La tappa del Tour de France 2018. Arrivammo a quel Tour carichi e motivati. Avevamo vinto al Giro di Svizzera, stavamo bene… ma i primi giorni furono durissimi. Faticavamo più del previsto. Arnaud non riusciva d essere veloce. E la seconda settimana fu ancora peggio: un calvario. Molti sprinter andarono a casa: Greipel, Cavendish, Kittel, Groenewegen, Gaviria… Arnaud spesso arrivava appena dentro il tempo massimo, da solo, senza aiuti.

A dir poco insolito. Vai avanti…

Poi arrivò la tappa numero 18, l’ultima vera occasione prima di Parigi. Ci credemmo fino in fondo. Su un ultimo strappo attaccarono addirittura Simon Clarke e Daniel Martin, e chiudemmo il buco io e un giovanissimo Gaudu. Quel giorno avevo una condizione eccezionale. Konovalovas mi lasciò ai 3 chilometri e condussi lo sprint fino alla volata: lo portai in posizione perfetta. Poteva solo vincere. E vinse. Dopo tanta fatica, fu una liberazione. Quel giorno ero intoccabile, avevo una gamba e una fame…

Anche gli anni successivi furono importanti. Al Giro ha vinto molto, ben otto tappe. E anche due maglie ciclamino…

Il periodo migliore è stato il 2020, ma non solo per il Giro. Quell’anno vincevamo ovunque. Era l’anno del Covid, e noi italiani e francesi in particolare fummo tra i pochi costretti a fermarci davvero. Paradossalmente fu un vantaggio: quando la stagione riprese, eravamo più freschi e motivati rispetto a tanti altri che invece si erano “brasati” a forza di allenarsi a tutta. Avevamo più energie.

Demare, Tour 2018, Pau vittoria
La vittoria di Pau al Tour 2018 raccontata da Guarnieri (che già festeggiava). Demare precedette Laporte
E come persona? Che tipo di leader era Démare?

Quello che si percepiva da fuori corrispondeva alla realtà. Non era il classico leader rumoroso, ma un punto di riferimento silenzioso. Non aveva bisogno di alzare la voce per farsi rispettare. Anche se poi a volte si arrabbiava eccome. Quando serviva, sapeva farsi valere, ma la sua forza era l’esempio. Credeva nel lavoro e nella costanza. Era un professionista impeccabile, fino al midollo. Io scherzavo sempre con lui dicendogli: «Tu sei un atleta, io sono solo uno che va forte in bici». Perché lui lo era davvero, nel senso più completo del termine. Aveva talento, certo, ma anche una grande etica del lavoro. E questo gli ha dato tanto.

A livello tecnico invece? Oggi per i velocisti la ricerca del dettaglio conta sempre di più…

All’epoca eravamo direttamente coinvolti nello sviluppo con Lapierre, e Démare partecipava molto attivamente. La Groupama-FDJ però è sempre stata una squadra molto attenta agli sponsor: tutto doveva essere fatto con i materiali ufficiali, senza scorciatoie. Per esempio: un trattamento alla catena si poteva fare sì, ma solo con i prodotti ufficiali. Non si usciva mai dal seminato… ed era così per tutti. Erano molto rigidi su questo: tutti avevano lo stesso equipaggiamento. Al massimo c’era qualche colorazione speciale per Arnaud o Pinot.

Demare, Guarnieri
Demare lascia dopo 15 stagioni: 12 e mezzo nel gruppo di Madiot e due e mezzo all’Arkea
Demare, Guarnieri, treno
Demare lascia dopo 15 stagioni: 12 e mezzo nel gruppo di Madiot e due e mezzo all’Arkea
Sappiamo che Démare testava direttamente i nuovi telai, specie quelli aero. Confermi?

Esatto. Se usciva un nuovo telaio, Lapierre gli forniva tre versioni con differenti tipi di carbonio. Lui li provava e sceglieva quello che preferiva. Quella diventava poi la bici definitiva per il team. Era un approccio molto professionale e Arnaud lo prendeva davvero sul serio.

La prima volta che vi siete visti da nuovi compagni di squadra, in ritiro, come andò?

In realtà avvenne prima, ad agosto 2016. La prima volta l’ho incrociato all’Arctic Race, quando ero ancora in Katusha. Avevo appena iniziato a studiare francese, quindi non sapevo dire quasi nulla. E lui non parlava inglese. Si avvicinò ma fu molto imbarazzante. Eravamo entrambi a disagio. Quel giorno era anche il mio compleanno e la sera c’era una cena con tutta la corsa. Arriviamo per primi e vedo che i posti erano già assegnati, c’erano i nomi sui tavoli. Penso tra me e me: «Speriamo di non averlo vicino a tavola, non saprei cosa dirgli». Ci ritroviamo uno accanto all’altro! Per fortuna eravamo di spalle. All’inizio silenzio totale, poi grazie anche a un paio di brindisi la conversazione si è sciolta. Da lì è iniziata un’amicizia vera, oltre al rapporto professionale. Ho un bellissimo ricordo di quegli anni e l’onore di aver corso accanto a un campione come lui.

Gianluca Brambilla

Gianluca Brambilla saluta il gruppo. Dieci momenti scelti da lui

04.10.2025
9 min
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E quindi ci siamo… «Siamo ai titoli di coda!». Gianluca Brambilla, vicentino classe 1987, annuncia il ritiro dalle competizioni. Lo fa dopo 16 stagioni da pro’, tutte vissute alla grande. «Alla fine è stato un bel viaggio, una bella avventura. Il film di un ragazzino che inizia a pedalare guardando il Giro d’Italia al pomeriggio e poi per fortuna, capacità e altre mille variabili è riuscito a diventare corridore».

“Brambi” dice basta insomma. E lo fa per scelta sua e non per contrarietà. Cosa determinante a nostro, ma soprattutto a suo, avviso.
Per salutarlo abbiamo deciso di fare un’antologia: dieci foto, dieci momenti della sua carriera che lo stesso Gianluca ha estrapolato per noi e che ci racconta.

E’ il 19 giugno 2010′ Brambilla vince il GP Nobili, la sua seconda gara in assoluto da pro’
E’ il 19 giugno 2010′ Brambilla vince il GP Nobili, la sua seconda gara in assoluto da pro’

La prima vittoria

La prima foto è subito di una vittoria, la prima. Quella che non si scorda mai, ma anche le altre non si dimenticano. Solo che suona bene dire così!
«Avevo firmato il contratto a casa di Reverberi – inizia Brambilla – Loro già mi seguivano, ma dopo la mia vittoria da Under 23 al Palio del Recioto mi fecero firmare subito. E furono bravi, perché poi arrivarono altre squadre grandi, ma era tardi ormai. Di questa scelta sono contento, perché poi di campioncini che passano subito in squadroni e poi si perdono ce ne sono stati tanti. Io invece sono potuto crescere gradualmente».

«Venendo alla foto, quella è la vittoria al GP Nobili Rubinetterie e si può dire che in parte era anche la mia prima corsa da pro’. Era giugno più o meno. Avevo esordito a Lugano, ma non stavo bene. Già da dicembre avevo una fortissima tendinite, rischiavo l’operazione. Il mio viaggio stava per finire ancora prima di cominciare. Restai fermo per mesi, ripartii da zero e quel giorno tutta la sfortuna girò alla grande. Ero incredulo, perché comunque era una gara impegnativa. Mi ricordo benissimo: c’era fuori una fuga ed io ero riuscito a partire dal gruppo. Rientrai in discesa e sul San Carlone staccai tutti».

Il sogno realizzato. Gianluca indossa la maglia rosa al Giro 2016
Il sogno realizzato. Gianluca indossa la maglia rosa al Giro 2016

La maglia rosa

La seconda foto che ci ha inviato Gianluca è un giovane Brambilla in maglia rosa. Il sogno.
«Eh già – sospira Brambilla – quello è proprio il sogno da bambino. Presi la maglia rosa vincendo la tappa, il famoso “tappa e maglia”. Si arrivava ad Arezzo dopo aver scalato l’Alpe di Poti, salita sterrata. Ero già in fuga e rimasi da solo. Discesa a tutta, pancia a terra in pianura e riuscii a tenere a bada il gruppo che tirava per Valverde. La cosa bella è che il giorno dopo c’era la crono e riuscii a tenerla per pochi secondi».

Fu un momento toccante per Brambilla e per la sua famiglia, anche per la sua compagna Cristina che in qualche modo era cresciuta con lui. «Ci siamo conosciuti quando io ero all’ultimo anno da dilettante».

Alla Vuelta 2016, Brambilla precede Quintana nella 15ª tappa
Alla Vuelta 2016, Brambilla precede Quintana nella 15ª tappa

Big battuti

Per questo terzo momento, Brambilla ha scelto il podio della sua vittoria di tappa alla Vuelta 2016. Quel giorno riuscì a battere i grandissimi. C’erano davanti gente come Quintana e Contador, tanto per dirne due.

A questo punto viene da chiedersi che corridore era il miglior Gianluca Brambilla. «Direi un attaccante, un uomo da fuga che quando in forma sbagliava poco. Anche contro campioni, perché quel giorno in Spagna si andò fortissimo. Finirono in 90 fuori tempo massimo. Poi furono riammessi. In quell’attacco c’erano grandi atleti e anche dei loro compagni che tiravano a tutta per staccare il più possibile Froome, che infatti andò alla deriva».

La voglia d’azzurro. Brambilla ha corso due mondiali da pro’
La voglia d’azzurro. Brambilla ha corso due mondiali da pro’

Amore azzurro

Tra i momenti clou, Brambilla ha inserito anche la nazionale. Una foto che lo ritrae con Pellizotti ad Innsbruck.

«Fu il primo mondiale tra i pro’ – racconta Gianluca – ma non la prima maglia azzurra. Infatti avevo fatto gare con la nazionale maggiore, tipo la Tre Valli, il Pantani… E da under 23 corsi a Mendrisio. Quell’anno il cittì era Cassani, io ero stato uno degli ultimi ad essere inserito perché andai forte in quelle classiche gare premondiali. La volevo proprio quella maglia e me l’ero guadagnata. Ci tenevo tantissimo».

«Credo che qualche tempo fa la maglia azzurra fosse più prestigiosa, più ambita. Senza andare contro nessuno, ma soprattutto dopo il caso Gazprom iniziando a fare tante gare era diventata quasi come una squadra di club».

I primi anni con Reverberi li ricorda con serenità. Eccolo con Nicoletti, suo primo procuratore
I primi anni con Reverberi li ricorda con serenità. Eccolo con Nicoletti, suo primo procuratore

Gli amici…

Brambilla ha scelto una foto semplice, quasi una scena di vita quotidiana: lui con Moreno Nicoletti, all’epoca suo procuratore.

«Moreno – racconta Brambilla – mi ha aiutato nel passaggio al professionismo. Quando firmai con Reverberi c’era lui. Tra l’altro eravamo vicini di casa e mi vedeva sgambettare sin da piccolo. Mi avvicinò che ero under 23. Sono rimasto con lui per quasi dieci anni, poi per altri 3-4 ho fatto da solo e adesso sono con i Carera».

Ma è chiaro che nella carriera di un atleta professionista le figure che ruotano attorno a lui, anche non per forza tecniche, sono diverse, anche per il morale.
Sicuramente la mia compagna è stata importante. E oltre a lei mi vengono in mente altri due personaggi. Uno è Gianni Faresin. Lui è stato un po’ quello che mi ha scoperto. Ero con lui ancora prima della Zalf, mi fece passare da juniores prima alla Breganze U23 e poi mi portò alla Zalf. Mi ha seguito anche nei primi anni da pro’. Era il mio confidente. Poi quando passai in Quick-Step, dove non si potevano più avere allenatori esterni, abbiamo interrotto. Ma un occhio me lo dava sempre!».

Altra figura centrale, anzi centralissima, è il mio amico Filippo Conte Bonin. «Lui mi ha aiutato tantissimo. Era stato massaggiatore in Bardiani, anche se non quando c’ero io. Mi faceva i massaggi a casa, il dietro moto, mi supportava negli spostamenti e persino nei traslochi! E c’è tuttora. Sono anche il suo compare di nozze. Oggi lavora presso una ditta di distribuzione bevande, però spesso e volentieri salta la sua pausa pranzo per farmi fare dietro motore. Io sono proprio un rompi c…i!».

Brambilla è stato con molti capitani. Uran (alla sua ruota) uno di quelli con cui ha più legato
Brambilla è stato con molti capitani. Uran (alla sua ruota) uno di quelli con cui ha più legato

E i grandi leader

La sesta foto l’abbiamo scelta noi ed è venuta in seguito alla chiacchierata. Stando in grandi squadre Brambilla è stato vicino a grandi campioni.

«Pidcock mi piace parecchio, è un bel leader, ma non lo conosco benissimo. Non ci sono poi stato così tanto a contatto. Che dire, ho corso con Uran, Cavendish, Boonen… difficile dire un nome. Boonen aveva la fama del festaiolo, però in ritiro la mattina alle otto era il primo a fare “core stability”. Era una macchina d’allenamento, aveva un fisico mostruoso. E tosto era tutto il gruppo belga o del Nord nei ritiri di dicembre e gennaio. Erano già in modalità classiche e mi uccidevano. Partivamo e appena sentivi il “clac” del pedale che si agganciava, eri già a 43 all’ora fisso. Ancora mi ricordo le curve per uscire da Calpe, quei su e giù a tutta. Una sofferenza. La prima volta rimasi al vento! Giuro… mi staccai subito. Poi lo sapevo. Dovevi mangiare poco, perché sennò vomitavi l’anima, partendo così forte con quei bestioni».

«E poi Cav… talento puro. Anche Uran e la sua simpatia. Eravamo sempre in camera assieme io e Rigo. Lui era veramente “tranquillo style”. Mai vista una persona così pacata. Gli hanno rubato un Giro d’Italia – perché secondo me quell’anno le staffette a scendere dallo Stelvio fecero un bel casotto – e lui in camera che diceva a me: “Tranquillo, non c’è problema».

Tappa e maglia al Tour des Alpes Maritimes, l’unica corsa a tappe in bacheca
Tappa e maglia al Tour des Alpes Maritimes, l’unica corsa a tappe in bacheca

La sua corsa a tappe

«Ho scelto questa foto – va avanti Brambilla – perché ritrae la vittoria di tappa e dell’unica corsa a tappe che ho vinto: il Tour des Alpes Maritimes. Ci tengo anche perché all’epoca abitavo a Monaco e quella salita dove vinsi era la salita di “casa”. Anche lì, feci tappa e maglia. Ve l’ho detto che quando riuscivo ad andare in fuga ero pericoloso!».

«Non ho vinto tanto, ma ho vinto di qualità e soprattutto ho vinto in tutte le squadre in cui sono stato… Devo ancora farlo con la Q36.5 Pro Cycling Team. Spero di riuscirci in queste ultime otto gare. Sarebbe il top, ma con il livello che c’è è difficilissimo».

Una foto amarcord per Brambilla…
Una foto amarcord per Brambilla…

Ecco la Q36.5

In qualche modo, Brambilla lancia il tema Q36.5, la squadra che lo ha accolto dopo l’uscita dalla Trek-Segafredo. Tra l’altro, una foto in cui si sta mettendo i gambali seduto sul portabagagli dell’ammiraglia.

«Questo scatto mi piace perché è un po’ amarcord e non ce ne sono più così. E’ una foto di vecchi tempi. L’ammiraglia oggi non si usa più. Ci sono il bus o il camper, siamo al chiuso… qui invece eravamo per strada, come una volta. Mi piace questo senso di semplicità».

Cosa significa stare in questa squadra? Che ciclismo rappresenta? «E’ il ciclismo di una squadra moderna – spiega Brambilla – sono tre anni che sto qui e l’ho vista crescere tantissimo, soprattutto nell’ultimo anno con l’innesto di Pidcock e del suo staff. E vedo come stanno impostando l’anno prossimo. Vogliono il salto di qualità. Si vede anche dagli innesti importanti: vuol dire che la squadra vuole essere protagonista. Vuole arrivare nel WorldTour e vuole farsi trovare pronta una volta lì».

Strade Bianche 2016, Sdnek Stybar, Fabian Cancellara, Gianluca Brambilla
Strade Bianche 2016, uno stratosferico Cancellara lo rintuzza portandosi dietro il compagno Stybar
Strade Bianche 2016, Sdnek Stybar, Fabian Cancellara, Gianluca Brambilla
Strade Bianche 2016, uno stratosferico Cancellara lo rintuzza portandosi dietro il compagno Stybar

Il “rimpianto”

La nona foto che ha scelto Brambilla è il podio della Strade Bianche 2016. Ne eravamo sicuri anche noi. Potremmo descrivere quel giorno, visto che eravamo a bordo strada poco prima che entrasse a Siena e Cancellara lo riacciuffasse. Fu a tanto così da una vera impresa. Ne riparlammo anche la sera stessa nel suo hotel…

«Questo – racconta Brambilla – è forse l’unico rammarico della mia carriera. Non aver vinto quella corsa mi è rimasto qui. Ma non perché fosse la Strade Bianche in quanto corsa prestigiosa, ma per come l’avevo affrontata sul piano fisico e tattico. Perfetto. A me non successe niente: niente crampi o nervosismo. Fu Cancellara che andava il doppio. Soprattutto quando nel finale dentro Siena iniziò il pavé. Io iniziai a rimbalzare e lui invece restava saldo a terra e faceva proprio un’altra velocità. E’ andata così… ma tra le tante questa è una corsa che mi piace tantissimo, bellissima. Una gara che andrò a vedere a bordo strada».

Gianluca è alla Q36.5 da tre stagioni. Chiuderà la carriera in casa, con il “suo” Giro del Veneto e Veneto Classic
Gianluca è alla Q36.5 da tre stagioni. Chiuderà la carriera in casa, con il “suo” Giro del Veneto e Veneto Classic

Il presente e il futuro

Questa ultima è il presente. Quello che è adesso Brambilla. Un corridore a tutti gli effetti fino alla Veneto Classic. Anche questa è una foto di vita quotidiana per un pro’.

«Lì ero al Tour de l’Ain, quest’estate. Una gara in cui sono andato bene. Ho finito settimo nella generale e c’erano bei nomi, gente che era uscita dal Tour de France. Questa foto, che può sembrare banale, in qualche modo per me rappresenta il mio presente. Un atleta professionista fino alla fine».

E qui va detta una cosa fondamentale. Brambilla smette per sua scelta, non perché non avesse un contratto. Detta fuori dai denti, la Q36.5 lo avrebbe tenuto, proprio per chi è, per il dietro le quinte e anche per i risultati (giusto qualche giorno fa è arrivato quinto al Romagna).

«Non volevo trascinarmi e smettere perché non avevo alternative. Questo mi rende tranquillo, sereno. Non dico “voglio smettere”, mi risulta difficile. Sembra quasi che uno rifiuti il proprio lavoro o denigri quello che ha fatto fino adesso. Ma è piuttosto: voglio finire perché magari inizio altro, perché lo scelgo io e non gli eventi».

E allora caro Gianluca buon viaggio e che la grande festa abbia inizio. Prima però sotto con le altre corse, a partire dal Giro dell’Emilia di oggi. Fino al 19 ottobre sei ancora un pro’!

Alessio Nieri (a 23 anni) saluta le gare, ma non il ciclismo

24.04.2024
6 min
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Un post qualche giorno fa in cui annunciava l’addio al ciclismo, poi un grande silenzio. Un post scritto con sapienza e lucidità, passione e consapevolezza. Così a soli 23 anni Alessio Nieri ha detto basta. O meglio, è stato costretto a dire basta.

Il corridore della Work Service-Vitalcare-Cavaliere era stato vittima di una bruttissima caduta al Giro di Turchia, sul finire della passata stagione. Era finito in ospedale e lasciato solo lì, in attesa di un medico dell’assicurazione che non arrivava mai. E’ stata poi un’amica di famiglia a riportarlo in Italia. 

Alessio Nieri (il primo corridore in basso a sinistra) da questo inverno era con la Work Service
Alessio Nieri (il primo corridore in basso a sinistra) da questo inverno era con la Work Service

Lo stop

Ma se quelle erano state le botte del momento, poi sono emerse quelle a freddo. Anzi a freddissimo.

«Ci si era concentrati soprattutto sui problemi al polmone e alle costole – racconta Nieri – quindi nella zona toracica, ma poi c’era dell’altro. La volta scorsa vi avevo detto che ero risalito in bici, ma avevo ancora qualche doloretto. Andando avanti con gli allenamenti questi dolori si sono fatti sempre più intensi e forti. Così ho fatto altre analisi, altri approfondimenti ed è emerso che in pratica nella schiena, dove appunto erano concentrati questi dolori, ci sono le vertebre lombardi schiacciate ed è uscita anche un’ernia».

Fare 4-5 ore così non era certo il massimo. Anche perché parliamo di un atleta e non di un ciclista che va in bici per stare bene, per non mettere la pancia o per svago.

Dopo la caduta in Turchia, Alessio Nieri ha iniziato il calvario che lo ha portato a dire basta col ciclismo agonistico
Dopo la caduta in Turchia, Alessio Nieri ha iniziato il calvario che lo ha portato a dire basta col ciclismo agonistico

Decisione inevitabile

Va da sé che allenarsi così diventava impossibile per il giovane Nieri. Tra palestra, fisioterapia e quant’altro le cose non miglioravano. Anzi… Alessio faceva un allenamento in bici e poi doveva stare fermo per tre giorni. Non si può essere atleti in questo modo.

«Avevo anche ripreso a correre – spiega – per cercare di tornare pro’. Avevo fatto la Firenze-Empoli, ma poi proprio mentre iniziavo ad intensificare il tutto, le cose sono peggiorate di pari passo. Allenarsi così era impossibile e così un giorno, tornando a casa, ho detto basta. Quel che più o meno avevo capito dentro di me già da un po’ era diventato ufficiale».

Non è facile dire addio ai proprio sogni. Certo, non parliamo di un campione assoluto, ma pur sempre di un ragazzo, di uno scalatore di belle speranze.

Alessio Nieri era salito in bici piuttosto tardi. Era il 2018, allievo di secondo anno. Iniziare a correre su strada a quell’età non sarebbe stato facile. E infatti pochi gli hanno dato dato fiducia, anche perché l’anno successivo sarebbe diventato junior. Chi investirebbe su un ragazzo partito da zero o quasi in questa categoria sempre più importante?

«La Cicli Taddei mi ha dato una possibilità di correre – racconta – ma era in mtb. Ho iniziato con loro. Poi dopo qualche tempo, andavo alle corse da solo. Mi ci portava il “babbo”, Alessandro. Nei primi approcci da junior andavo benino. Ero sempre davanti, ma non ho mai vinto. La vittoria è arrivata da dilettante. Mi prese la Mastromarco-Sensi-Nibali e vinsi una cronoscalata. Poi da lì l’approdo alla Bardiani-Csf Faizanè».

Nieri pedalava anche da bambino, ma le prime vere gare le ha fatte nel 2018 in mtb con la Cicli Taddei
Nieri pedalava anche da bambino, ma le prime vere gare le ha fatte nel 2018 in mtb con la Cicli Taddei

Oltre il ciclismo

Chiaramente la vita di Alessio è cambiata. E lo ha fatto da un giorno all’altro. Quella che era una routine, bella e piacevole, all’improvviso è svanita. Proprio in questi giorni il toscano sta scoprendo una nuova dimensione, una nuova gestione delle sue giornate.

«In effetti è strano. Prima ti svegliavi: colazione, un’occhiata al tempo e via in bici. Tornavi che era pomeriggio. Mangiavi, seguiva un po’ di riposo ed era sera. Adesso è tutto diverso. Anche col mangiare. Sto riscoprendo tante cose».

E tra le tante cose inevitabilmente ci sono anche le idee per il futuro. Nieri ha un sogno: diventare direttore sportivo. E si sta muovendo per trovare lavoro.

«La Federazione – spiega – adesso ha allungato parecchio i tempi per diventare un direttore sportivo per i pro’. Ci vorrà un po’ di tempo, ma quello sarebbe un obiettivo. Vorrei comunque restare nell’ambiente delle corse, che continuano a piacermi molto. Per adesso sto cercando qualcosa come massaggiatore. Mi è sempre piaciuto e ho anche fatto il corso».

Il toscano aveva caratteristiche da scalatore puro
Il toscano aveva caratteristiche da scalatore puro

Nuova vita

Cambiare dimensione significa anche guardare le corse sotto un’altro punto di vista. Anche se resta il giudizio critico e ficcante di chi ha corso fino a poche settimane fa e di quel gruppo faceva parte. L’occhio è ancora quello del corridore.

«Mi sono gustato le classiche – racconta Nieri – e devo dire che Van der Poel mi è proprio piaciuto. E’ lui l’uomo della primavera. Anzi, per me lui è “il” ciclista. Ricordo anche quando correvo di essergli stato vicino in gruppo più di qualche volta. E che dire: è bello in bici. Perfetto stilisticamente. Dà spettacolo quando attacca. Ha una grande squadra per le corse di un giorno e poi è pure grosso. Uno così mica lo sposti facilmente».

Va anche detto che Nieri era uno scalatore da 55 chili o poco più, l’opposto di Mathieu! Ciò non toglie che l’iridato sia una sfinge in sella.

Nieri con Marcellusi, i due sono amici. Ma Alessio ha un ottimo rapporto anche con altri ex colleghi come Colnaghi, Lucca…
Nieri con Marcellusi, i due sono amici. Ma Alessio ha un ottimo rapporto anche con altri ex colleghi come Colnaghi, Lucca…

Marcellusi e non solo

E mentre si godeva le classiche, Alessio è stato travolto dai messaggi di saluto dei suoi ex colleghi.

 «In tanti mi hanno scritto – racconta con un certo orgoglio Nieri – anche gente che non sentivo da tempo e questo mi ha fatto molto, molto piacere. Significa che mi volevano bene. Poi con qualcuno, vedi Marcellusi ci siamo proprio sentiti. Martin, oltre che ex compagno sia alla Mastromarco che alla Bardiani, è un amico vero. Lui sapeva del mio ritiro un po’ prima che dessi la notizia.

«Però, dai… si va avanti. Se guardo il bicchiere mezzo vuoto, fa male il pensiero di dire non poter più seguire il sogno di essere un corridore e che sia successo tutto così all’improvviso. Ma se guardo il bicchiere mezzo pieno, magari in Turchia quel giorno anziché restare sul ciglio del burrone ci sarei potuto fine dentro.

«Per ora so che con della fisioterapia e del lavoro specifico recupererò la parte della mobilità della schiena, cosa che mi serve anche per la vita normale». E questo è quel che conta caro Alessio.

Edoardo Zardini saluta. Ma prima la sua storia

21.12.2022
5 min
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Edoardo Zardini ha appeso la bici al chiodo dopo dieci stagioni da professionista e tutto sommato lo ha fatto che è ancora giovane. Il veronese infatti ha solo 33 anni.

Ma i progetti e il da fare non mancano a Zardini. Lo aspetta infatti l’azienda di famiglia, un etichettificio tra i più importanti del Nord Est. La passione per la bici resta, anche quella per lo sci che faceva da bambino, tanta grinta, ma era arrivato il momento di dire basta.

Edoardo Zardini (classe 1989) ha esordito tra i pro’ nel 2013. Ora eccolo nell’azienda di famiglia
Edoardo Zardini (classe 1989) ha esordito tra i pro’ nel 2013. Ora eccolo nell’azienda di famiglia

Dalla bici alla scrivania

Con Edoardo si parte dalla fine, vale a dire dal suo ritiro. Ritiro che è stato incentivato anche dal fatto che la Drone Hopper-Androni ha chiuso i battenti. Ma tutto sommato, come ci ha detto anche Capecchi, quando si ha già il “piano B”, smettere è più facile.

«L’idea di smettere – ha detto Zardini – ce l’avevo già. E poi il fatto che ha chiuso la squadra un po’ ha influito. Qui c’era un’azienda ben avviata che mi ha fatto prendere questa decisione. Però ammetto che ci avevo già pensato.

«Sapere che quando smetterai hai un’alternativa ti dà tranquillità durante la carriera. Il lavoro è molto importante. Poi non è che durante la carriera, pensavo: “Vado a lavorare nell’azienda di famiglia”. No, facevo il corridore al meglio. Ma ultimamente sapevo che questa opzione era sempre più prossima. Ho cominciato a pensare che forse sarebbe stato meglio capire come funziona l’azienda. Sì, avrei potuto fare qualche altro anno, ma sapevo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato».

Le giornate di Zardini all’improvviso sono più cadenzate come dice lui. Non c’è lo sforzo fisico, ma gli orari sono più precisi. Prima non cambiava niente se usciva in bici alle 9 o alle 11. L’importante era fare il programma.

Ottimo dilettante Zardini ha corso con la Colpack. Sin da giovane andava forte in salita
Ottimo dilettante Zardini ha corso con la Colpack. Sin da giovane andava forte in salita

Dieci anni pro’

Zardini è passato pro’ nel 2013 con l’allora Bardiani-CSF. Di quella squadra facevano parte giovani rampanti come lui, Colbrelli, Pasqualon, BattaglinRagazzi figli di un altro ciclismo, un ciclismo che di lì a poco sarebbe cambiato.

«Eh sì – va avanti Zardini – è cambiato parecchio e per tanti punti di vista. Secondo me le squadre World Tour hanno impresso la svolta, un gap netto tra queste e le professional, almeno quelle italiane. Vedo che però adesso stanno cercando di adattarsi altrimenti è impossibile competere con le World Tour.

«Lo scalino c’è stato dopo lockdown. Lì c’è stato un cambio di marcia. Il gap è aumentato sempre di più. Nel 2014 con la Bardiani abbiamo vinto tre tappe al Giro, oggi è impensabile».

Nel 2014 due vittorie, tra cui quella al Giro del Trentino. «La mia vittoria più bella, quasi a casa»
Nel 2014 due vittorie, tra cui quella al Giro del Trentino. «La mia vittoria più bella, quasi a casa»

Sliding doors?

Due vittorie nel 2014, la convocazione in nazionale nel 2014 a Ponferrada, Edoardo sembrava in rampa di lancio. Un corridore giovane, attaccante, buon scalatore… è destinato a traguardi più importanti. Ma ecco che il destino ci mette lo zampino.

A febbraio 2016, un bruttissimo incidente al Gp Lugano. Tempo da lupi, Zardini finisce in un dirupo e batte violentemente la schiena. Passa diversi giorni in ospedale. E da quel giorno qualcosa si inceppa. Senza quell’incidente avremmo visto un altro ragazzo?

«Di certo – dice Zardini – da lì è cambiato un po’ tutto. Mi dissero che era meglio rompersi una gamba piuttosto che danneggiare le vertebre in quel modo. Si andava oltre l’aspetto meccanico e tanti nervi passano lì, erano coinvolti anche gli organi del corpo. Si inceppa un po’ tutto il meccanismo ed è difficile ritornare a una prestazione come in precedenza.

«Una volta ripresomi, non è che sentissi dolori o avessi impedimenti, però mi sono reso conto che qualcosa nel fisico era cambiato. Non ho più raggiunto certe prestazioni. Mancava sempre qualcosa, magari vai a prendere il 3-4% e quello ti portava alla vittoria».

Nel 2014 Cassani lo porta a Ponferrada. Eccolo in testa al gruppo con Formolo e, appena dietro, c’è Nibali
Nel 2014 Cassani lo porta a Ponferrada. Eccolo in testa con Formolo, appena dietro Nibali

Cambio generazionale

«Il discorso della chioccia vale ancora? Oggi – va avanti Zardini – ai ragazzini non gliene frega niente. Sanno molto. Vanno forte, alcuni sono già pronti, quindi dicono: “Ma cosa vuoi da me? Vado più forte di te, non devo ascoltarti”. La gavetta non c’è più, magari sull’atteggiamento fuori dalla bici puoi dirgli qualcosa. Ma poi conta quanto si va forte.

«Io ricordo che al primo giorno da professionista, ero… spaventato perché non sapevo cosa mi aspettasse. Io poi non avevo fatto degli stage. Né avevo corso con i pro’ come capita oggi ai ragazzi delle continental.

«Il ciclismo è cambiato, ma le difficoltà nel fare questo mestiere sono sempre le stesse. Oggi i corridori sono robot, però è così… Anche l’estro è più controllato. Oggi se non ti pesi un giorno, ti vengono subito a chiedere perché non lo hai caricato sulla piattaforma. Insomma ti senti trattato come uno junior, anche se hai 30 anni. Ma è così, magari loro che ci sono cresciuti lo percepiscono in altro modo. Però tutto è livellato verso l’alto, si va sempre più forte e magari è giusto così».

Questa estate dopo il Giro, Zardini si è sposato con Serena (foto Instagram)
Questa estate dopo il Giro, Zardini si è sposato con Serena (foto Instagram)

Campioni educati

L’estro è più domato, okay, ma quelli forti ci hanno regalato grandi emozioni. Certo, Zardini era abituato ad altri corridori. Corridori come Contador.

«Ne ho visti tanti – racconta Zardini – ma Contador… Bello da vedere in corsa, in tv, attaccante… Lo ricordo al Giro 2015, quando lo attaccarono prima del Mortirolo dopo la foratura. Io ero in fuga e mi riprese nella prima parte della salita. Andava ad una velocità pazzesca.

«Ma la cosa bella di quei campioni, quelli forti, forti, intendo è che sono tutti super educati. In gruppo non fanno mai i fenomeni. Evans, Valverde, il povero Rebellin… mai una parola fuori posto. Mai un atteggiamento da gradasso».

Neanche 21 anni e Trainini dice stop. Ecco la sua storia

12.04.2022
4 min
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Solo 13 mesi fa scrivevamo: “La favola di Trainini, pro’ all’improvviso”. Era un scommessa. Una scommessa ponderata quella di far passare Tomas Trainini tra i pro’ da parte della Bardiani Csf Faizanè e una scommessa del ragazzo stesso. Purtroppo non è andata bene.

Alla fine non si può parlare di una storia triste, né tantomeno di drammi. Ad un certo punto a Tomas si è spenta quella lucina interna che ti spinge a fare i sacrifici e il “gioco” è finito lì. A neanche 21 anni, il bresciano ha una vita davanti. Ed ha già ripreso a costruirla.

Da sinistra: Bruno Reverberi, Trainini e Lorenzo Carera. Poco più di un anno fa si parlava di questo ragazzo preso dagli juniores
Da sinistra: Bruno Reverberi, Trainini e Lorenzo Carera. Poco più di un anno fa si parlava di questo ragazzo preso dagli juniores

Motivazioni sparite

«Non sentivo più la motivazione – racconta con onestà Trainini – quella giusta per continuare a fare il ciclista al massimo. E visto che il team si è sempre comportato super bene con me, non mi sembrava il caso di andare avanti in questo modo. Quindi ho deciso d’interrompere il contratto».

«Chiaramente non è stato facile. Non è stata una decisione presa dalla sera alla mattina. Ci ho pensato a lungo, ma se non avevo lo spirito giusto per ritrovarmi in ciò che stavo facendo sarebbe stato inutile continuare. Per cosa? Alle fine è giusto così: per me, per la Bardiani e perché magari lascio il posto a qualche altro ragazzo».

Anche quest’anno la Bardiani Csf Faizanè lo aveva portato in Turchia per il ritiro (foto Instagram)
Anche quest’anno la Bardiani Csf Faizanè lo aveva portato in Turchia per il ritiro (foto Instagram)

Rossato, la sua coscienza

Tomas parla con serenità della sua situazione. Non sembra avere rimpianti e questa è la cosa più importante.

Stando lui nel gruppo dei giovani della Bardiani Csf Faizanè, era a stretto contatto con il diesse Mirko Rossato. I due hanno parlato molto. E sì che aveva svolto regolarmente la preparazione invernale. Era andato nei ritiri…

«In effetti con Rossato ho parlato parecchio. Mi ha detto tante cose. Mi ha detto di pensarci bene prima di mollare tutto. Perché non capita spesso questa opportunità di essere un professionista e poter fare al tempo stesso l’attività under 23, di crescere senza fretta, specie se si è così giovani come me. Non ci sono molti team che coltivano così il vivaio».

Trainini spiega anche di aver dialogato a lungo con Roberto Reverberi, e persino con Alessandro Donati, l’altro diesse. «Un po’ meno – aggiunge – con Luca Amoriello, ma solo perché fisicamente ci siamo visti poco».

Trainini aveva svolto regolarmente la preparazione invernale (foto Instagram)
Trainini aveva svolto regolarmente la preparazione invernale (foto Instagram)

Sguardo al futuro

A 21 anni, da compiere a settembre, non si sta certo fermi. La vita ricomincia, ma forse semplicemente basterebbe dire che va avanti. E Tomas si è già rimboccato le maniche.

«Per adesso – racconta Trainini – sto guardando all’università meccanica. Io ho fatto una scuola motoristica e si tratta di un tipo di università molto pratica. Per ora però i concorsi e gli accessi sono chiusi. Vediamo…».

«Intanto ho trovato un impiego. Lavoro già in questo settore, presso una fabbrica importante del bresciano che produce pompe idrauliche per i camion. Sono nella catena di montaggio, ma magari non sarà impossibile col tempo passare a reparti superiori».

Junior di belle speranze, la Bardiani si era mossa in anticipo per Trainini che è stato anche azzurro agli europei 2019
Junior di belle speranze, la Bardiani si era mossa in anticipo per Trainini che è stato anche azzurro agli europei 2019

E la bici?

Forse è passato troppo poco tempo per sentire la mancanza della bici e perché la stessa specialissima possa suscitargli chissà quali emozioni, ma è un qualcosa che gli abbiamo chiesto lo stesso. Spesso quando ci si ritira, nei primi periodi, si ha una fase di rigetto.

«Per adesso – spiega Trainini – sono più concentrato su altro, alla bici non penso molto. C’è un mio amico, che anche lui ha corso in passato, con il quale ci siamo ritrovati. Abbiamo la passione per le moto e per esempio domenica scorsa lo ho accompagnato ad una gara in pista a Cremona. Anche questo è un ambiente che mi piace».

«Per quanto riguarda la bici, al momento ho solo la vecchia Canyon con la quale correvo da ragazzo. L’altra, così come il vestiario che non avevo ancora mai utilizzato, l’ho riconsegnata alla squadra. La bici da strada non mi manca per ora, ma esco in Mtb.

«Mi è sempre piaciuta molto, spesso la utilizzavo anche nella preparazione invernale. Appena ho smesso ci andavo tutti i giorni. Facevo il mio giretto con parenti e amici. Mi divertivo così».