Ben O’Connor è una delle belle conferme di questa stagione. L’australiano della Decathlon-Ag2R è stato autore di due ottimi grandi Giri, tanto da salire sul podio alla Vuelta. E un altro podio di quelli importanti lo ha conquistato al Mondiale in Svizzera.
Ora O’Connor è atteso a un grande salto: l’approdo nella Jayco-AlUla, team australiano come lui. Un team che, tra l’altro, si sta formando attorno a lui, con l’ingaggio di tanti ottimi corridori. Per questo ci chiediamo, anzi lo domandiamo al team manager Brent Copeland, se è già lecito parlare di “blocco O’Connor”.
Brent, insomma arriva O’Connor: un acquisto di peso per il suo team…
In realtà, O’Connor ci piaceva da tempo, già da quando era nel team sudafricano Dimension Data: si vedeva che aveva talento, specie per i grandi Giri.
Come è arrivato da voi? Come è andata la trattativa?
Quando Simon Yates ci ha comunicato che avrebbe cambiato squadra, abbiamo dovuto muoverci subito per sostituire un atleta così importante. Ben era libero, e l’ho contattato subito. Abbiamo iniziato a parlare, ci siamo scambiati idee, e anche lui aveva piacere di cambiare. Certo, la Decathlon-Ag2R non era contenta che andasse via, ma capiva il motivo di questa scelta. Io sono contento. O’Connor ha dimostrato di saper affrontare la pioggia al Giro d’Italia, il caldo alla Vuelta e il freddo al Mondiale. Gli ultimi risultati gli hanno dato molta fiducia.
È un leader?
Lo diventerà. Bisogna essere realistici: non è ancora allo stesso livello di un Pogacar o di un Vingegaard, e scontrarsi con questi campioni non è facile. Però può fare belle corse, dare spettacolo, ottenere risultati.
La sua squadra sta cambiando molto. Ha ormai un gruppo solido per le corse a tappe: possiamo parlare di un gruppo “grandi Giri” per O’Connor?
Ci stiamo lavorando. Già dopo il Lombardia ci siamo ritrovati per tracciare una prima bozza del programma. Di certo, accanto a lui ci saranno Gamper e Bouwman, gente di esperienza che ha lavorato con grandi capitani. E poi c’è Zana, che bisogna capire bene come “collocare”. Abbiamo Luke Plapp… Insomma, sì, abbiamo parecchi corridori validi per i grandi Giri e costruire una squadra solida.
Pensiamo anche a un altro nuovo arrivato, Double, o a Dunbar…
Sì, per loro vale lo stesso discorso di Zana. A metà novembre, in accordo con i preparatori, vedremo i percorsi, definiremo i programmi e, nel ritiro di dicembre, lo comunicheremo ai corridori.
In cosa O’Connor può migliorare con voi?
In molti aspetti. Sicuramente a crono. Con Marco Pinotti potrà fare grandi progressi, e Marco ha già iniziato a lavorare su questo. Poi credo che servano obiettivi chiari per i grandi Giri: sapere cosa si può davvero ottenere e farlo sentire leader.
Ecco, farlo sentire leader: un corridore australiano in un team australiano che, tra l’altro, lo ha voluto fortemente… questo può fare la differenza?
Può dargli “confidence” e potrà acquisirla non tanto per la nazionalità, ma per l’ambiente che troverà. Un inglese può trovarsi bene in un team italiano e viceversa… se l’ambiente è quello giusto per lui. Noi, per rendere l’ambiente ideale, dobbiamo metterlo nelle condizioni di svolgere al meglio il suo lavoro. Poi, certo, una certa mentalità e un linguaggio comune possono agevolare l’inserimento e rendere tutto un po’ più semplice.
Magari, se si sente più sicuro, anche i suoi alti e bassi e la fiducia in se stesso potranno migliorare. Quest’anno Ben ha fatto passi da gigante in questo senso…
Mentalmente è migliorato moltissimo e ha imparato tantissimo quest’anno. È stato l’unico al Giro a provare a tenere Pogacar. Era la tappa di Oropa, ricordate? Poi ha pagato lo sforzo, è vero, ma si è reso conto dell’impresa. Ha provato. E infatti poi non ha più commesso lo stesso errore. Alla Vuelta ha corso da leader. Ha tenuto la maglia rossa a lungo e ha gestito la squadra da primo in classifica. Forse anche lui pensava di cedere prima, e invece ha capito le sue qualità. Qualità che ha scoperto di avere anche nelle gare dure di un giorno.
Nel ciclismo che cerca un nuovo sistema di business, le parole pronunciate qualche giorno fa da Brent Copeland hanno prodotto la reazione di Luca Guercilena, team manager della Lidl-Trek. Il ciclismo che si spinge verso vertici prestazionali clamorosi vive di contraddizioni commerciali e strutturali da mani nei capelli. In questo quadro così… arabo, mettersi a ragionare di salary cap, budget cup o di un sistema che limiti i punteggi delle squadre può suonare da un lato necessario dall’altro probabilmente poco utile per sciogliere i tanti nodi.
Luca, proviamo a capire cosa sia oggi il ciclismo?
Uno sport legato ai controsensi. Prima di pensare di introdurre cap e limitazioni, bisognerebbe mettere mano al modello di gestione in generale. Se analizziamo quali sono gli sport che hanno un cap, vediamo che sono riconducibili a delle leghe professionistiche. Significa che le parti sono all’interno di un’unica società che produce profitto per tutti. Un sistema in cui i proventi dei diritti – televisivi, commerciali, merchandising e quant’altro – vengono suddivisi secondo dei criteri ragionati tra tutte le parti del movimento. Nel nostro caso sappiamo benissimo che non è così, quindi il discorso di introdurre dei cap per favorire o sfavorire qualcuno non porta nessun bilanciamento, ma soprattutto non porta beneficio alle casse delle squadre. Se limitiamo la prima squadra WorldTour, secondo voi l’ultima ne ha un beneficio reale in termini economici? Può solo sperare di acquisire un atleta di livello superiore a quello che potrebbe permettersi un prezzo probabilmente nemmeno calmierato.
Quindi pensi che sarebbe logico o comunque funzionale al discorso creare una sorta di lega in cui tutti partecipano con diritti e doveri proporzionali alla loro dimensione?
Assolutamente, anche perché quello che noi tanto osanniamo come sistema aperto in realtà è già un sistema chiuso. Basti pensare che se uno vuole entrare nel WorldTour, può comprarsi una licenza esistente oppure, partendo dalla categoria professional, non ci arriverà prima di sei anni. A questo punto mi chiedo perché non abbia senso fare la valutazione di un modello di business molto più simile alla Formula 1 o agli sport americani, dove la suddivisione degli introiti è gestita da un ente unico.
L’unico ente che mette le mani nelle tasche di tutto è proprio l’UCI…
Penso che lo stesso problema che viviamo noi come squadre lo vivano le federazioni. Ho letto recentemente di polemiche abbastanza accese sulle spese che le nazionali hanno sostenuto in Australia e quelle che sosterranno in Rwanda. Di conseguenza, se abbiamo costantemente questa divisione, far crescere il movimento è complicato. E far crescere non significa avere manager capaci di far innamorare gli sponsor del nostro sport, ma di creare un sistema di investimenti che abbiano un ritorno che non sia esclusivamente la visibilità.
Secondo te c’è la volontà da parte di tutti che il sistema cresca?
Mi sembra evidente che ognuno difenda il proprio orticello. Gli stessi benefici e gli svantaggi che potrebbero derivare da un sistema dei cap vengono spiegati sommariamente. Basti pensare che tutti parlano di budget cap e raramente si è parlato di budget floor, che è un’altra delle componenti fondamentali quando si parla di budget cap. Quindi una quota di ingresso che normalmente non è inferiore al 90% del budget cap. Questo vuol dire che se si fa un’ipotesi di 100 come budget cap, vuol dire che una squadra che voglia fare parte del sistema minimo debba mettere 90. Si fa così proprio per assicurare la competitività, per cui la differenza tra il massimo e il minimo sarebbe veramente ridotta. Se invece le differenze sono enormi, il sistema sarà sempre in crisi. E renderà possibile che una squadra spenda una fortuna per prendere un corridore e dopo due anni sia costretta quasi a chiudere.
Su quale ipotesi si sta ragionando?
La proposta attuale è di mettere il budget cap a 50 milioni, quindi credo che la squadra che ne abbia di più attualmente sia la Red Bull con 52. Nel corso di 5-6 anni, tenendo sempre fissa la soglia dei 50 milioni, il beneficio dell’ultima squadra WorldTour, che in questo momento ha un budget di 12 milioni, arriva a 15. Mi spiegate, quando questi arrivano a 15 milioni e quelli ne hanno ancora 50, cioè tre volte e mezzo, che equità hai creato? Non dovrebbero neanche essere nel WorldTour. Se infatti applichi il cap a 50 milioni come in tutte le altre leghe, vuol dire che devi avere almeno 25 milioni per essere nel World Tour, se no non ci stai. E’ la legge di mercato. Anche se gli organizzatori ne sono fuori…
Fuori dal sistema?
Perché a loro queste cose non vengono mai chieste? Non devono presentare un bilancio, non devono presentare niente. Basta che facciano l’iscrizione al calendario e rispettino il fatto che ti danno l’albergo o anche niente e sono a posto. Per lo stesso concetto dovresti dire che i ragazzi del Tour de France non possono spendere più di 100 milioni e con gli altri creiamo un sistema di condivisione per cui traggano benefici. L’UCI dice che sono due lavori diversi, mi sta bene. Allora però trovo illogico che facciano una commissione in cui ci sono anche loro e siano chiamati a decidere come io devo spendere i miei soldi. Io non ho potere di decidere come loro spendono le loro risorse e loro entrano nella mia economia? Se io dimostro di avere più capacità di un collega o più fortuna, perché un organizzatore deve venirmi a dire a me come devo spendere i miei soldi?
Avrebbe senso ragionare sin da subito di una regolamentazione per l’ingaggio di nuovi talenti, come nel draft del basket americano?
Certo, il concetto è che a lungo termine, se ci fosse un modello di business rivisto completamente, l’ideale sarebbe avere un sistema di drafting all’interno delle squadre continental. Dovrebbe essere un ranking individuale e di squadra e il livello superiore dovrebbe autotassarsi attraverso gli sponsor di un sistema Lega, per dare dei benefici alle squadre inferiori da cui provengono i giovani talenti. Quindi l’atleta individuale farebbe parte di un ranking e le squadre che producono talenti a quel punto devono essere rimborsate per quello che è il loro valore effettivo. Se ci fossero le clausole di uscita chiare e definite dall’UCI, se il valore dell’atleta fosse realmente vincolato al sistema di punteggio e se per questo avesse un valore reale economico, sicuramente si potrebbe già applicare adesso. Ma se tutto dipende dalle mie capacità di trovare gli sponsor, il sistema parte già con delle fondamenta molto sbagliate.
Nelle leghe professionistiche qual è l’impatto degli sponsor?
Al massimo nel bilancio del team rappresentano il 15%, noi invece siamo al 95%. Quindi mi chiedo perché vuoi limitare la mia capacità di creare profitto? Al momento tutto dipende esclusivamente dai soldi che io riesco a trovare all’interno del mercato e come io riesco a renderli redditizi attraverso il risultato.
Forse più che limitare i budget e la capacità di trovare risorse si potrebbe intervenire tecnicamente per evitare che una squadra abbia un accumulo di corridori con tanti punti?
La realtà dei fatti è che in questo momento tutto nasce dal fatto che abbiamo un fenomeno. Se togliessimo alla UAE Emirates il punteggio di Pogacar, alla fine tutte le classifiche e anche il numero delle vittorie sarebbero uguali, né più né meno che prima. C’è la balzana idea che la UAE stia ammazzando il ciclismo, io ho sempre ragionato in modo diverso, anche quando non avevamo un budget consistente. Noi dobbiamo dimostrare di essere capaci di fare, perché così quando arriverà il supporto economico, avremo tutte le basi per fare passi ulteriori. Credo che questo sia lo spirito con cui si debba affrontare il ciclismo attuale, perché lamentarsi degli altri che hanno più soldi è sempre comunque relativo. E poi forse occorre distinguere bene fra ciclismo professionistico e resto del movimento.
In che senso?
A mio parere la riforma andrebbe fatta a 360 gradi. Il ciclismo professionistico dovrebbe essere regolamentato attraverso un sistema molto simile alle leghe professionistiche, non possiamo essere sempre vincolati a regolamenti che poi devono andare bene per gli juniores, gli allievi e gli esordienti. Se si vuole definire uno sport professionistico, bisogna rifarsi ai parametri delle leggi del lavoro.
Credi sia possibile?
Quando nel 2005 è partito il ProTour, un minimo di forma strutturata era stata creata. Adesso si tratta di continuare a seguire quella linea, però come sempre tutto dipende dalle persone. Nel momento in cui ci sono le persone e ruoli di potere che hanno una visione di questo tipo, allora la cosa potrebbe anche nascere in tempi relativamente brevi. Nel momento in cui la visione è sempre vincolata al fatto che siamo lo sport del passaggio della borraccia, allora resteremo sempre al palo rispetto alla Formula 1, rispetto al tennis, rispetto all’NBA e alle altre leghe, nonostante abbiamo dei numeri di partecipazione elevatissimi.
Secondo Luca Guercilena un modello così ridisegnato rende più attrattivo il ciclismo anche per sponsor che dovessero entrare o darebbe più stabilità alle società?
Entrambe le cose. Ci sarebbe un modello che prevede un senso comune della creazione di profitto. Alla fine sarebbe un beneficio di tutti, per cui l’UCI potrebbe andare da grossi sponsor come Apple oppure Visa, proponendo di sponsorizzare il suo calendario, mettendo sul piatto l’unicità del gruppo e della sua narrativa. Ma siccome l’UCI prende i voti da tanti organismi diversi, federazioni e atleti, la sensazione è che gli interessi mantenere questa suddivisione e lotta interna tra organizzatori e squadre. Divide et impera, è sempre andata così.
Pensi che la Superlega auspicata da alcuni manager sia una soluzione possibile?
Secondo me ci sarebbero i margini di operare all’interno del frame dell’UCI, con dei regolamenti adeguati e accettabili, senza nessuna Superlega. Con un modello di business nuovo dove, ripeto, non si devono rubare i diritti agli organizzatori, ma creare nuovi sistemi perché tutti abbiamo profitto. Questo sarebbe lo sforzo reale e probabilmente tramite investitori esterni ci sarebbero anche i margini per poterlo fare. Però ripeto: se si vuole operare negli ambiti istituzionali, lo sforzo deve venire dall’istituzione. Dovrebbero capire loro per primi la portata della riforma.
Bagioli è tornato dal ritiro americano della Lidl-Trek. Il nuovo team gli piace. Si sente trattato da leader. E se la fiducia cresce, arrivano le vittorie
In questo periodo si parla molto anche di “riassetti” dal punto di vista di salari budget, ma anche di punti e sponsor. Il circus del pedale cerca sempre di evolversi, di adattarsi alle nuove situazioni. I team manager si sono riuniti prima del Giro di Lombardia, per parlare del salary cap. Una mossa secondo la quale ci sarebbe un contenimento dei costi e al tempo stesso una ridistribuzione degli atleti più forti nei vari team. Questo garantirebbe più spettacolo: più corridori forti in più squadre.
Oggi ci sono pochissime squadre WorldTour che detengono la maggior parte dei punti, i budget più alti, gli atleti più forti… Questo alla lunga può essere un rischio per il ciclismo, qualora venisse meno il suo appeal, con gare di cui salvo imprevisti si sa l’esito sin dall’inizio e con pochissimi protagonisti.
Fortissimi o debolissimi
Un esempio concreto? UAE Emirates (escluso Pogacar) e Visma-Lease a Bike solo con i loro primi cinque corridori si collocherebbero al nono posto della classifica a squadre. Ripetiamo: solo cinque corridori. E per il team emiratino non abbiamo incluso Pogacar, che è una particolarità, sarebbe nono da solo!
Di fronte a queste sfide a cui è chiamato il ciclismo abbiamo interpellato Brent Copeland, team manager della Jayco AlUla, ma in questo caso e lo ribadiamo con forza, presidente dell’AIGCP, l’associazione che riunisce le formazioni professionistiche.
«Io – spiega Copeland – chiaramente ho la mia idea ma in questo caso rappresento i 35 team della Aigcp. Non decido io insomma».
Brent, partiamo dal salary cap.
Premesso che è tutto in divenire, proprio perché è un argomento delicato, non posso scendere troppo nel dettaglio. Abbiamo un buon gruppo di lavoro, con tante idee e ne stiamo parlando già da un po’.
Perché c’è questa esigenza di un salary cap, che qualcuno ha già criticato, o di uno strumento simile?
Perché bisogna creare quello che in inglese è chiamato level playing field, cioè creare un sistema che ponga i suoi attori su un livello più egualitario possibile affinché il ciclismo sia uguale per tutti. Sappiamo che non è facile, che ci sono team più ricchi e altri meno, team più capaci e altri meno, ma non dovrebbe esserci troppa differenza di base ed economica. Non andiamo contro le squadre più grandi o più numerose, sia chiaro.
Da chi nasce l’idea di appianare certe differenze?
Dall’UCI e dal suo board. Quando l’UCI vede che una, due squadre fanno una netta differenza, che riescono a prendere tutti i corridori più forti e a vincere le corse, scatta un campanello d’allarme e ne risente lo spettacolo.
Si tratta di sopravvivenza del ciclismo, anche se forse sopravvivenza è un termine un po’ forte?
Si cerca di equilibrare il livello senza rovinare la crescita del ciclismo. Questo è un aspetto molto importante. La prima cosa che noi vogliamo è quella di non spaventare gli sponsor che investono o vogliono investire nel ciclismo. Per questo prima dicevo che si tratta di un argomento delicato.
Quindi i vostri colloqui trattano anche di sponsor: li volete tranquillizzare con un riassetto di budget e magari di punti UCI?
Certamente, ma questo è il secondo punto. Il primo è quello dello spettacolo che può offrire il ciclismo, per far sì che le tattiche non ruotino intorno a una o due squadre, che ci possa essere più incertezza nell’esito delle gare. Il secondo punto riguarda gli sponsor. Noi dobbiamo stare attenti che gli altri sport non ci passino avanti e ce li portino via.
Spiegaci meglio…
In Formula 1 per esempio, ma anche nel calcio, sono stati introdotti dei budget cap e se investire per uno spazio su una maglia di calcio o su una vettura di Formula 1 non è più costoso come un tempo e nel frattempo da noi i costi continuano ad aumentare, per il ciclismo può essere un problema. Un altro aspetto poi non riguarda solo il salary cap fine a se stesso. Formula 1 e calcio, dobbiamo essere realisti, hanno un altro ritorno per i loro investitori e noi dobbiamo dare una garanzia a questi sponsor che investono sul ciclismo. Faccio un esempio.
Vai…
Se uno sponsor investe mille euro per 4-5 anni deve essere certo che quell’investimento mantenga il suo valore. Ma se poi l’anno dopo arriva uno sponsor che offre di più, i mille euro del primo non valgono più allo stesso modo. Perdono valore. Per questo servono dei cap. Chissà, magari anche in Italia in questo modo si muoverà qualcosa e le grandi aziende torneranno ad investire nel ciclismo.
Discorso afferrato: servono regole più chiare e che garantiscano stabilità e certezza d’investimento. Passando ad aspetti più tecnici si è parlato anche di un tetto dei punti, di una ridistribuzione dei corridori nei team. Cioè una squadra non può avere più di un “tot” di corridori con “X” punti…
Onestamente abbiamo un gruppo di lavoro molto buono ed esperto e non ne abbiamo ancora parlato fino in fondo. C’è stato qualche scambio di messaggi tra i direttori sportivi e direi potrebbe essere una buona idea. Ma come ho detto prima: l’importante è che ci sia più equità tra le varie squadre.
Urge una mossa
Certamente c’è da fare qualcosa, al netto di chi è pro o contro Pogacar, che ha cannibalizzato la stagione. Perché poi, inutile negarlo, questo tema che sì vige da tempo si è acuito quest’anno. C’è da fare qualcosa soprattutto sul fronte tecnico, dal nostro punto di vista, ed economico da quello dei manager che devono imbastire le squadre. Anche se poi a ben pensare le due cose vanno (e molto) a braccetto.
L’idea di trovare la maggior equità di cui parla Copeland, attraverso una regolamentazione dei punti UCI potrebbe non essere male e potrebbe al tempo stesso superare i limiti del tetto salariale, che in qualche modo sarebbe aggirato. Ma questa è solo una nostra supposizione.
Per sapere ufficialmente come proseguiranno i lavori, sarà necessario attendere la fine del prossimo novembre, quando l’AIGCP si riunirà di nuovo su questo tema.
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TORINO – Il peso di una Nazione sulle spalle, ma Ben O’Connor non è uno che si lasci influenzare dal giudizio altrui né dalle pressioni. L’ha dimostrato con un finale di stagione da applausi, andandosi a prendere il tanto agognato podio in un Grande Giro alla Vuelta, riscattandosi così di quello sfuggitogli all’ultimo Giro d’Italia e in precedenza al Tour del 2021. Non contento, ha sfoderato un’altra piazza d’onore di prestigio nella rassegna iridata in quel di Zurigo.
Mentre lo guarda svolgere i test all’Istituto delle Riabilitazioni Riba di Torino, Brent Copeland si frega le mani pensando al gioiellino che sarà il farò della Jayco-AlUla per il 2025. L’aspetto che lo stuzzica di più è proprio il fatto che i due secondi posti ottenuti dal ventottenne di Perth siano arrivati in corse così diverse sia come tipologia sia per le condizioni ambientali e metereologiche. Ora il manager della squadra australiana è ancora più convinto nell’avergli affidato il compito di raccogliere l’eredità di Simon Yates.
Ben, che effetto ti fa il pensiero di indossare dal 1° gennaio 2025 la maglia di una squadra australiana?
I quattro anni con la Decathlon hanno rappresentato un’esperienza completamente nuova, ma sarà speciale far parte di una squadra del mio Paese. Mi conforta molto perché, pur vivendo a migliaia di chilometri dalla nostra Australia, in effetti mi sentirò un po’ a casa. Sono contento di ritrovare un amico come Luke Durbridge e uno staff di connazionali. Essere il capitano della Jayco-AlUla in un Grande Giro poi, sarà una motivazione enorme ad alzare ancora l’asticella per portare in alto la nostra bandiera comune. Spero di ripetere quanto fatto quest’anno.
Sei cresciuto in una Nazione esplosa con i successi di campioni come Cadel Evans e Simon Gerrans: hai sempre pensato di fare il ciclista?
In realtà, no. Ho provato moltissimi sport, come ad esempio il cricket, il calcio e anche la corsa. Il Tour de France era sempre in tv da noi, ma il ciclismo non è mai stata un’ossessione, semmai un’opportunità che si è creata. Ci ho provato e, con il supporto dei miei genitori che mi hanno comprato la prima bici da corsa, è cominciato tutto. E’ successo tutto in fretta e in maniera inaspettata. In poco tempo mi sono trovato da correre nelle gare nazionali in Australia a gareggiare col primo team Continental in Asia. Fino ad arrivare in Europa l’anno dopo, nel 2017, e cominciare a vivere come un ciclista professionista.
Sei passato da essere spettatore alla tv a esserne protagonista, visto che negli ultimi anni ti abbiamo visto parecchio anche nella serie sul Tour de France trasmessa da Netflix. Ti sei divertito?
Forse sono stato in onda pure troppo e chiedo scusa a tutti gli utenti che mi hanno guardato. Dai, almeno non ci sono nella prossima stagione, per cui vi do un po’ di sollievo. E’ stato interessante, ma direi che preferisco vedere le corse piuttosto che la serie di Netflix.
Beh, il tuo 2024 è stato un film avvincente, sei d’accordo?
Direi proprio di sì, penso di aver finalmente espresso il mio potenziale. Al Giro mi è spiaciuto stare male l’ultima settimana. In quel momento pensavo soltanto al podio perso nella generale e non sapevo se e quando mi sarebbe ricapitata un’altra occasione del genere. Poi, quando mi sono trovato in testa alla Vuelta per due settimane, è stato folle.
Com’è stato per la prima volta trovarsi al comando di un Grande Giro?
E’ stato pazzesco indossare una maglia iconica come quella rossa. Vedi gli altri farlo nei Grandi Giri e ti chiedi mille volte che cosa si provi. Poi tocca a te ed è incredibile, un mix di orgoglio e consapevolezza di essere un vincente. In quel momento, comunque, sei davanti a tutti. Non c’è niente di meglio e se non ti fai distogliere dalle tante attenzioni, è una carica in più.
A volte non ti sembra ti chiedere troppo a te stesso?
Sono entusiasta del mio finale di stagione perché ho raggiunto il livello che sapevo di valere. Il quarto posto al Giro mi aveva lasciato una sensazione di incompiutezza perché sentivo di poter valere di più, così come già all’Uae Tour perso all’ultimo giorno per appena due secondi. Il secondo posto alla Vuelta, invece, è stato come una vittoria per me.
E tra quella piazza d’onore sudata per tre settimane e quella della domenica mondiale, che punti in comune ci sono?
In entrambi i casi ho dato tutto quello che avevo e ho finito senza nessun rimpianto né alcun pensiero negativo. Sia in Spagna sia in Svizzera ho interpretato la corsa nel migliore dei modi. Punto. E ora sono carichissimo per la prossima stagione.
Non ti ha un po’ sorpreso essere sul podio nella gara di un giorno, primo degli umani dopo l’imprendibile Pogacar?
Il mio allenatore alla Decathlon continuava a ripetermi che avrei dovuto fare più corse di un giorno perché si addicono alle mie caratteristiche, per cui penso che ora possa essere orgoglioso. Forse perché sono arrivato al mondiale senza troppe aspettative, non sapendo se avrei finito la corsa né tantomeno in che posizione, per cui figuriamoci sul podio. E’ stata una bella sorpresa, perché ero così stanco dopo la Vuelta che non ho fatto nemmeno la crono e così sono arrivato molto tranquillo alla prova in linea.
Com’è stato lottare contro Pogacar?
Non ho lottato con lui, anche se in realtà ero proprio alla sua ruota quando è partito. Ho avuto un momento di riflessione e mi sono chiesto se avessi dovuto seguirlo. Ci ho provato e non ero così lontano. Lui viaggiava su un altro pianeta, per cui sono stato contento di aver sfruttato l’occasione per avvantaggiarmi sugli altri perché chiunque degli inseguitori avrebbe potuto fare secondo o terzo.
Hai qualche hobby quando non pedali?
Mi piace stare comunque all’aria aperta e passare tempo con mia moglie o con i miei amici. Magari mi concedo qualche bicchiere di vino o di birra o un buon caffè, niente di speciale. Preferisco fare un bel picnic, una camminata in montagna o comunque qualunque attività outdoor.
Pensi già ai piani per il 2025?
E’ ancora tutto da decidere, ma mi piacerebbe tornare al Tour de France. Se poi riuscissi a inserire anche Giro o Vuelta non sarebbe male, ma non devi fare due Grandi Giri per forza e magari potrei tenermi questo piano per il 2026. Mi è sempre piaciuta la combinazione Giro-Vuelta, mentre non sono così sicuro dell’abbinamento Tour-Vuelta. Giro-Tour, invece, potrebbe essere stimolante perché d’altronde il Giro è il Grande Giro che forse si addice di più alle mie caratteristiche.
A maggio non le avevi mandate a dire a chi criticava la neutralizzazione della tappa di Livigno sotto la neve. Hai visto quanto successo di recente con la cancellazione delle Tre Valli Varesine e che ne pensi delle reazioni del pubblico?
Non mi sognerei mai di dire a nessuno come deve svolgere il proprio lavoro. Non dirò mai a un avvocato come deve comportarsi né a un giudice o un investitore. Per questa ragione, mi è parso alquanto paradossale che ci fosse gente che parlasse alle nostre spalle riguardo a un lavoro che non conoscono e che non saprebbero nemmeno fare. Chiunque può andare in bicicletta, non è così difficile. Ma gareggiarci e fare il ciclista professionista è totalmente un altro mondo. Ho chiuso coi social media e preferisco non leggere cosa scrive la gente che pensa di poter fare il nostro mestiere. Dovremmo essere noi ciclisti, insieme agli organizzatori, a prendere le decisioni, non il pubblico.
La tua salita preferita?
Port de Cabus, in Andorra, forse una delle più belle che abbia fatto. E poi anche Arcalis non scherza affatto.
Le squadre sono vere e proprie aziende. Hanno sponsor tecnici con cui ci confrontano per ottenere il meglio, ma in alcuni casi (molto rari) scendono direttamente in campo e producono da sé quello di cui hanno bisogno. Questo articolo è nato per caso ai mondiali di Zurigo, quando un amico ci ha fatto notare la confezione di un prodotto alimentare con sopra scritto in grande Big Carbo (in apertura Nadia Zuccherelli prepara i rifornimenti per il Giro dell’Emilia). Non abbiamo avuto il tempo di leggere cosa ci fosse scritto, ma abbiamo riconosciuto, sia pure ben stilizzati, i ricci di Laura Martinelli. Il nome non vi è sconosciuto. Martinelli è la nutrizionista del Team Jayco-AlUla, spesso nostra luce guida per quanto riguarda le tematiche legate all’alimentazione. Che cosa ci faceva la sua immagine su quella busta di integratori?
La cosa migliore è stata andare alla fonte e parlando con lei è venuto fuori uno spaccato di vita di squadra che finora non avevamo mai conosciuto. L’unione fra la ricerca, le esigenze degli atleti e, perché no, la necessità di ottimizzare le risorse. Questa è la storia di come il Team Jayco-AlUla abbia iniziato a prodursi da sé gli integratori da sciogliere in acqua, grazie alla competenza della sua nutrizionista, al parere dei corridori e a un laboratorio altamente specializzato.
Cara Laura, buongiorno. Che cosa ci fa la tua immagine sulla confezione di un integratore?
E’ nato un po’ a caso, sono sincera (sorride lei, che è il ritratto della modestia, ndr). In squadra c’era un’esigenza per la quale non si trovava soluzione a livello di prodotti già in commercio. E allora, volendo sintetizzare, ci siamo detti: perché non farcelo da soli? I corridori hanno delle esigenze molto peculiari. Quindi le abbiamo messe insieme alle nostre nozioni. Abbiamo chiesto la collaborazione del dottor Carlo Guardascione, che è il mio responsabile, e il dottor Matteo Beltemacchi, il medico principalmente coinvolto nel progetto. E alla fine abbiamo creato una bevanda. Inizialmente è stato un tentativo quasi per gioco, ma alla fine è piaciuta così tanto, che fondamentalmente ha rimpiazzato tutte le bevande glucidiche della squadra. In pratica con la stessa polvere, cambiando il dosaggio, otteniamo le varie borracce. Le chiamiamo con nomi diversi ma hanno solo concentrazioni differenti: la polvere è sempre quella.
E’ piaciuta davvero a tutti?
Davvero tanto. Inizialmente, anche per tenere i costi sotto controllo, abbiamo fatto un gusto solo e per due anni non si è lamentato nessuno. Quest’anno abbiamo introdotto due gusti nuovi, i due che avete visto a Zurigo: il lime e il thè alla pesca. Non c’è una grande storia dietro questo prodotto, c’è un’idea venuta fuori e poi testata. E poi c’è il solito santo Brent Copeland (team manager della squadra, ndr) che dà l’approvazione. Per cui, davanti a ogni mia idea un po’ strana, mi dà fiducia. E anche questa volta mi ha detto: «Laura, se te la senti conduci il progetto. Realizza questa bevanda, facciamolo». E così l’abbiamo fatta.
Avete realizzato la polvere in collaborazione con uno sponsor tecnico che già c’era oppure con un laboratorio terzo?
Fisicamente la fa un laboratorio belga. E’ lo stesso che realizza i prodotti 6D Sport Nutrition, che è nostro fornitore. Siccome mi serviva un laboratorio di qualità e conoscevamo già loro, gli ho chiesto a chi si affidassero. E loro con grande correttezza ci hanno indirizzato su Medix Laboratoires di Oudenaarde, gli stessi con cui producono loro. Li ho contattati, li ho trovati molto disponibili e abbiamo cominciato. Poi il nostro responsabile di marketing e sponsor, Paul Santen, ha curato l’etichetta e il packaging. A un certo punto ha chiesto chi avesse realizzato la polvere, io ero dietro che mi facevo piccola per non farmi vedere. Invece il dipartimento grafico ha fatto questa proposta e appena Brent l’ha vista, l’ha approvata. Insomma è stato un progetto creativo spontaneo e corale, che sta funzionando.
Come si fa per comporre una polvere che vada bene per tutto? Si parte da qualcosa che già c’era?
No, siamo partiti proprio da una pagina bianca. Devi avere i contatti giusti. Io sono una nutrizionista, non sono una chimica o una farmacista galenica. Ho dei rudimenti di biochimica, ma non ho le competenze per sviluppare in autonomia una bevanda. Però abbiamo trovato un ottimo supporto dal dipartimento ricerca e sviluppo di questo laboratorio belga e noi abbiamo messo il resto. E’ stato complesso, però era un’esigenza talmente sentita, che abbiamo avuto la piena collaborazione dei corridori. Quando sono arrivata in squadra c’erano problematiche gastrointestinali importanti, al punto che alcuni non riuscivano a finire le gare. Era un problema da risolvere e possibilmente in maniera veloce, ma da sola non ce l’avrei mai fatta. Invece con la squadra e il supporto del laboratorio, abbiamo fatto tutto e anche in tempi adeguati.
Un approccio diverso rispetto al nutrizionista che chiede l’intervento dell’azienda sponsor.
Abbiamo fatto da soli. Ho messo su un pezzo di carta quello che volevo che ci fosse e abbiamo avuto il vantaggio non da poco di togliere tutti i fronzoli commerciali. Spesso si leggono ingredienti il cui reale dosaggio è trascurabile, ma dal punto di vista commerciale fa comodo indicarlo. Noi invece abbiamo fatto un prodotto pulito, semplice, con le quattro cose che ci servivano e alla fine la soluzione più semplice è stata quella più funzionale. I corridori sono una vetrina, alla fine è l’amatore che consuma certi prodotti. Lui magari beve 10 borracce a settimana, i nostri corridori invece ne bevono 10 al giorno. Quindi anche dal punto di vista della palatabilità, hanno bisogno di qualcosa di un po’ più delicato. Perché gli stessi prodotti mandati giù ripetutamente possono dare fastidio.
C’è stato qualche corridore in particolare che avete usato come riferimento?
Abbiamo fatto così. Nella fase iniziale, quella embrionale della formulazione, ho mandato un questionario a tutti i corridori, cercando di capire quali fossero esigenze e problemi. Quando poi sono arrivati i primi campioni, abbiamo selezionato un gruppo più eterogeneo possibile. Dallo scalatore all’esperto delle classiche, dall’italiano per esempio allo straniero, perché ovviamente hanno preferenze differenti. E così siamo andati avanti.
L’operazione ha dei costi, ma probabilmente permette alla squadra di risparmiare, no?
Spendiamo un terzo, risparmiamo proprio tanto. Quelli di 6D sono stati molto onesti. Lo abbiamo fatto con la massima trasparenza, con loro non abbiamo alcun vincolo, ma avrebbero potuto metterci i bastoni tra le ruote. Invece ci hanno detto che se ci trovavamo bene, era giusto che andassimo avanti con il nostro progetto. Tenete conto che abbiamo tanti atleti, suddivisi su più squadre, quindi alla fine saranno decine di migliaia di euro risparmiati.
Con il gusto di un prodotto sviluppato su misura…
Anche i massaggiatori hanno dato il loro contributo. A volte capitava che si graffiassero le mani entrando con i misurini nei barattoli di latta. Allora abbiamo fatto una confezione di plastica richiudibile. E alla fine tutti quelli che hanno a che fare con questo prodotto sentono di aver fatto la propria parte. E questo lo trovo molto interessante.
STANS (Austria) – Novecentoventiquattro giorni dall’ultima vittoria. Probabilmente Alessandro De Marchi se li ricorda tutti, uno ad uno. Appena tagliato in solitaria il traguardo di Stans della seconda frazione del Tour of the Alps, il 37enne friulano tira qualcosa di molto simile ad un sospiro di sollievo davanti ai massaggiatori contentissimi della sua Jayco AlUla come a dire “ce l’ho fatta” nuovamente. Tutti si complimentano con lui, compagni e avversari. Zana lo abbraccia sapendo che lo avrebbe rivisto gioioso. Ganna invece lo fa sorridere con una battuta scherzosa.
Dal successo della Tre Valli Varesine del 2021 sembra passato molto più tempo. Per il “Rosso di Buja” la giornata vissuta in Tirolo ha il sapore di una rinascita e di istanti che gli mancavano. Un successo alla De Marchi conquistato apponendo il suo classico bollino “doc”.
Gli ingredienti sono sempre quelli. Fuga a lunga gittata (più di 150 chilometri), amministrazione delle forze e gestione dei momenti difficili quando nel finale ha dovuto ricucire assieme a Pellaud su un allungo convinto di Gamper. Infine l’attacco decisivo sfruttando il punto più congeniale sulla salita corta e dura di Gnadenwald per eliminare la scomoda concorrenza dello stesso Pellaud, più veloce di lui in un eventuale testa a testa conclusivo. Sembra facile detta così, ma nel ciclismo di adesso non c’è nulla di semplice e scontato. E De Marchi ce lo spiega con la sua solita lucidità.
Alessandro cos’hai pensato in quegli ultimi quindici chilometri quando eri tutto solo?
Ho pensato che se Brent Copeland (il team manager della Jayco AlUla, ndr) due anni fa non mi avesse dato una possibilità, non sarei stato qui. Fortunatamente c’è ancora qualcuno che la vede lunga e che ha intuito che potevo dare qualcosa alla squadra. La stagione scorsa è stata molto positiva e quella era già una risposta. La vittoria di oggi è la seconda risposta. Alla fine ho pensato che avevamo ragione noi.
Vinci poco, ma di qualità. Che effetto fa vincere alla tua età, considerando quello che ci hai appena detto?
In questo ciclismo riuscire a vincere a quasi 38 anni (è il secondo vincitore di tappa più anziano del “TotA” alle spalle di Bertolini, ndr) ha un valore in più. Sappiamo bene come sta andando il ciclismo e il livello di preparazione che devi avere. Ovviamente per me adesso non è semplice come a 25 anni. E poi ad uno come me non capita molto spesso, quindi me la godo di più.
Sulla salita di Gnadenwald, De Marchi forza il ritmo. Gamper già staccato, Pellaud lo sarà a breveSorride De Marchi per la felicità di staff, compagni e avversari
Con questo risultato ti sei guadagnato un posto per il Giro d’Italia?
Credo di averlo confermato. Era già nei piani, a dire il vero. Abbiamo confermato che siamo tutti sulla buona strada. Anche il resto dei compagni sta pedalando bene. Da domani torno a lavorare per Chris Harper, che per noi è il capitano al Tour of the Alps. Il percorso di avvicinamento al Giro sta procedendo bene, dobbiamo solo continuare così.
Erano tutti felici della tua vittoria e questo rende onore alla tua persona. Che sensazione è per te?
Credo di essere sempre stato uno educato e rispettoso all’interno del gruppo e nei confronti di tutti. Forse nelle reazioni che avete visto c’è un po’ di questo. Sapere di essere apprezzato non è una cosa da poco. Di sicuro mi fa molto piacere, poi chiaramente ci sarà qualcuno che salirà sul carro come sempre, ma non mi preoccupo.
Rosso di Buja in tinta: con la vittoria di Stans, De Marchi guida la classifica a punti del TotARosso di Buja in tinta: con la vittoria di Stans, De Marchi guida la classifica a punti del TotA
All’età di Alessandro De Marchi si fanno ancora le dedica per una vittoria?
Ci sarebbe una lista infinita. Sicuramente la prima persona a cui dovrei dedicare qualcosa è mia moglie. Per starmi dietro e seguire tutte le faccende famigliari è quella che fa più sacrifici di tutti.
Lo lasciamo allontanare in sella alla sua Giant pronti a ritrovare domattina De Marchi in tinta con la maglia rossa (leader della classifica a punti) sulla linea di partenza della terza tappa a Schwaz. Forse lo pervaderà un briciolo di emozione, lo stesso che ha fatto provare a chi lo conosce bene.
«Penso che il momento in cui ho risposto alla Longo – ride Paternoster – sia stato quello in cui mi ha finito, il colpo di grazia. Diciamo che negli ultimi chilometri del Fiandre quello che mi spaventava in realtà non era tanto il Paterberg, ma il Qwaremont. Il Paterberg è più corto e più esplosivo, anche se alla fine di esplosività non ne era rimasta molta. Diciamo che il Qwaremont e i suoi due chilometri mi tenevano in apprensione. Di solito tutte le azioni importanti delle scalatrici iniziano lì, per cui una volta che l’ho passato, sono andata al muro successivo con fiducia e invece ho scoperto di non averne più. Devo dire che confrontandomi con i direttori sportivi, ad esempio con Pinotti, sicuramente quel tipo di resistenza mi verrà con le gare e con l’esperienza. A me mancano un po’ di corse nelle gambe rispetto a tutti quelli davanti, quindi penso che col tempo riuscirò a colmare questo gap».
Martedì era in pista, mentre giovedì Letizia è partita nuovamente per il Nord: destinazione Roubaix. La trentina, che tanti per anni hanno accusato di pensare soltanto all’esteriorità, ha cambiato decisamente registro. Chi l’ha vista combattere a Waregem e poi al Fiandre, ha fatto fatica a riconoscerla. Un terzo e un nono posto. Una tigre, con la voglia di riprendersi qualcosa che sentiva di aver perso: una ragazza di 24 anni che sta crescendo e ha la carriera tutta davanti. Che stesse cambiando lo avevamo intuito incontrandola a settembre all’Italian Bike Festival, ma l’inverno ha portato davvero grandi cambiamenti.
Dopo l’arrivo del Fiandre, Letizia Paternoster era sfinita e motivataDopo l’arrivo del Fiandre, Letizia Paternoster era sfinita e motivata
In queste corse sei sembrata molto cattiva, non ti si vedeva così da un pezzetto…
Sono molto cattiva? No dai, non sono mai cattiva. Sicuramente ho tanta fame di risultato, tanta grinta, tanta voglia di arrivare e sicuramente si vede.
Questo amore per le corse del Nord c’è sempre stato o lo stai scoprendo ora?
In realtà diciamo che sono alle prime esperienze in queste gare. La prima volta che le ho fatte è stata lo scorso anno, la prima volta nella mia vita al Fiandre e alla Roubaix. La Attraverso le Fiandre invece l’ho scoperta quest’anno. Devo dire che mi stanno piacendo assai. E anche se non le abbiamo fatte col sole, ho scoperto che mi piacciono queste condizioni estreme, questa fatica. E’ tutto un insieme di cose che le rendono belle, perché amo soffrire, amo la fatica. Quindi riuscire a fare bene con queste condizioni mi piace davvero tanto. E arrivare alla fine e riuscire a stare bene fa sì che mi senta un’atleta tosta. E mi piace dimostrarlo.
Forse dimostrarlo è il verbo più giusto. Raramente avevi mostrato questa convinzione: vuoi far vedere che nei sei capace?
In realtà non è voglia di farlo vedere, quanto una cosa che mi viene da dentro. Sinceramente lo faccio solo ed esclusivamente per me stessa, penso di volerlo dimostrare innanzitutto a Letizia. Essere là, sentirmi bene, riuscire ad andare forte. E più riesco ad andare forte, più mi esalto e vado ancora meglio. E’ un nuovo circolo in cui mi trovo benissimo.
Il podio di Waregem, con Vos e Van Anrooij, è il primo degli ultimi due anni: un risultato che valeIl podio di Waregem, con Vos e Van Anrooij, è il primo degli ultimi due anni: un risultato che vale
Meglio il terzo posto a Waregem o il nono del Fiandre?
Entrambi, ognuno ha il suo sapore. Sicuramente tornare sul podio è stato veramente emozionante, soprattutto esserci ritornata con un’azione di forza. Il Fiandre però è il Fiandre, è unico. Essere lì davanti fino all’ultimo muro a combattere con le grandi del ciclismo è stato veramente qualcosa di unico. Mi ha dato sicuramente fiducia ed è il punto di partenza che mi serviva e mi ha dato tantissime conferme. Una grande motivazione che mi fa ben sperare per il futuro. Sicuramente d’ora in avanti ci credo un po’ di più.
La sensazione è che il cambio di squadra sia stato un passaggio decisivo.
Sì, alla Jayco-AlUla mi sento veramente bene, mi vogliono veramente bene. Credono tantissimo in me, ci hanno creduto fin dal primo momento che mi hanno presa, accolta, accudita e aiutata a crescere. Avevamo un grande obiettivo, hanno sempre creduto nei miei numeri e sapevano che con pazienza e lavoro sarebbero riusciti a tirarmi fuori e così è stato. Hanno creato intorno un clima di lavoro veramente sereno, il cui merito è soprattutto di Brent Copeland. Penso che questo sia stato il punto di svolta.
Secondo te accade tutto grazie alla squadra oppure grazie a Letizia che sta diventando grande?
Penso che sia per entrambe le cose. Sicuramente in primis c’è una Letizia che è cresciuta, che è maturata. Che con le esperienze negative del passato è riuscita a maturare e imparare tanto. Ora ho una consapevolezza diversa. D’altra parte c’è la squadra vicina che mi ha dato fiducia. Mi stanno insegnando tantissimo e io ho bisogno di imparare tanto.
La nuova Paternoster sta sommando esperienze importanti correndo fra le bigLa nuova Paternoster sta sommando esperienze importanti correndo fra le big
Che cosa?
Una delle cose di cui mi sono veramente resa conto è che stavo in gara, lì davanti, e pensavo: e adesso che faccio? Allora ho iniziato a guardare la Longo Borghini oppure Lotte Kopecky. Quando cambiavano rapporto, cambiavo anch’io. Guardavo come si muovevano. Quando prendevano i ciucciotti, dicevo: «Cavolo, devo mangiare». Tutte cose che sto iniziando ad imparare adesso che riesco a pedalare vicino a queste grandi campionesse. Sta andando tutto bene, sicuramente la vita è una ruota che gira e adesso è tempo che giri anche dalla mia parte.
Com’è stato passare dai sassi e dalla pioggia del Fiandre al parquet di Montichiari?
Bellissimo (ride, ndr), una gioia infinita, un sollievo. Sono tornata perché in vista della Coppa del mondo di Milton era giusto fare un allenamento in pista, riprendere un po’ di brillantezza. Ho visto Marco Villa, prima abbiamo girato insieme alle ragazze del quartetto e poi ho fatto un po’ di lavori con lui per richiamare la brillantezza e l’esplosività con la bici da corsa a punti.
Cosa farai alla Roubaix?
Non ci sono salite, ma ci sono pietre. La affronto con tantissimo entusiasmo, sapendo che sto bene. Voglio riuscire a capirla, pur sapendo che è una corsa in cui contano tanto anche le condizioni esterne. Voglio arrivare lì con la maggiore positività possibile, con il grande sorriso e con grinta e voglia di stupire. Dentro di me so che sto bene, so che Roubaix è un posto che mi ha sempre portato bene. Lì ho vinto il mio primo mondiale in pista, proprio davanti a Lotte Kopecky. Chissà, magari è di buon auspicio. Voglio lottare fino alla fine, la fatica non mi fa paura e finché ne ho, lotterò per sognare in grande.
Agli europei per Paternoster è arrivato il titolo dell’inseguimento a squadreAgli europei per Paternoster è arrivato il titolo dell’inseguimento a squadre
Quasi non ti si riconosce: Letizia è sempre stata così guerriera e non lo avevamo capito?
Questa è la vera Letizia. C’è sempre stata, ma forse in quel periodo un po’ nero si era persa. Ora ho ritrovato quella che ero. Da junior sono sempre stata così, i primi anni da professionista feci terza alla Gand-Wevelgem. Ero questa, lo sono tuttora, mi sono ritrovata.
Le Olimpiadi di Parigi si svolgeranno ad agosto, restano il pensiero centrale?
Le Olimpiadi sono il grande e unico obiettivo dell’anno. Le sogno da tantissimo, chiudo gli occhi e ci penso. Ho fatto una grande preparazione per i campionati europei che sono andati bene, sono andata molto bene nel quartetto e da lì ho iniziato a fare veramente dei buoni numeri. Ora è il momento di correre su strada e stanno venendo fuori dei bei risultati, ma diciamo che tutta la preparazione è nata per la pista. Voglio ottenere i migliori risultati perché ho tanta fame di vittoria.
A Tokyo non si è vista una grande Paternoster, quanto sei diversa da allora?
Tanto. Sono una Letizia serena e con tanta voglia di riscatto. Se penso a Tokyo, penso soprattutto alla tanta voglia di riprendermi quello che ho lasciato per strada.
Davide Ballerini ci ha raccontato l'ultimo mese all'università del ciclismo. La nuova squadra. La cura dei dettagli. E la scoperta della sua nuova dimensione
E’ notizia di pochi giorni fa che l’Associazione Internazionale Gruppi Ciclisti Professionisti ha cambiato completamente i suoi vertici. Dopo tre anni di guida, il team manager della Visma-Lease a Bike Richard Plugge non si è ricandidato per la presidenza e questa è passata per un nuovo triennio (forse, e vedremo perché) a Brent Copeland, titolare del Team Jayco AlUla. Con lui è cambiato tutto il comitato direttivo, ora composto da esponenti di Team Dsm-Firmenich, Arkea-B&B Hotels, Cofidis, Movistar, Uae Team Emirates e Israel Premier Tech.
Al di là dei nomi, è chiaro come un direttivo simile sia “figlio” delle forti polemiche legate al progetto One Cycling, la superlega ciclistica che lo stesso Plugge insieme ad altri team di primo piano del mondo WorldTour vorrebbe fortemente realizzare. Ora l’Associazione ha ai vertici team che non vogliono far parte di quel progetto, che non condividono i principi alla sua base.
Richard Plugge, presidente uscente, principale fautore del progetto One CyclingRichard Plugge, presidente uscente, principale fautore del progetto One Cycling
«Abbiamo tanti punti da affrontare in questo triennio – spiega il manager sudafricano – per noi l’obiettivo primario è creare un clima di unità nel mondo dei team professionistici. Oggi non c’è solo una divisione fra le varie classi, ma anche allo stesso interno del WorldTour, noi dobbiamo trovare dei punti d’incontro. Un’associazione unita negli intenti è l’unica che possa presentarsi al tavolo con gli enti che si riferiscono a noi, ossia l’Uci in primo luogo ma anche l’Aso o la Rcs, organizzatori delle grandi corse. Il progetto One Cycling non ha aiutato in tal senso, creando spaccature che non fanno bene al nostro movimento».
Che cosa del progetto One Cycling salveresti e che cosa invece non ti piace?
E’ una domanda alla quale non posso dare una risposta esauriente per la semplice ragione che io come molti altri ho partecipato solo alla prima riunione. Ho visto subito che le idee alla base non erano chiare e che i presupposti erano sbagliati, quindi mi sono tirato fuori e altri hanno fatto lo stesso. Dietro l’idea della Superlega ci sono 5-6 team che, per quanto grandi, non sono rappresentativi del movimento.
Con Lappartient, presidente Uci, Copeland vuole collaborare nel reimpostare l’attivitàCon Lappartient, presidente Uci, Copeland vuole collaborare nel reimpostare l’attività
Non è un caso però se prima nel comitato direttivo c’erano proprio rappresentanti di alcuni di quei team, ora è tutto cambiato…
E’ vero, ma questo non è successo per fattori strettamente legati a One Cycling. Noi abbiamo un programma che non parte dal contrastare la Superlega, bensì dal riunire le varie forze ciclistiche sulla base di un progetto. Senza di esso è inutile sedersi a un tavolo per parlare con i nostri referenti di regole, di calendari, di diritti televisivi. Noi poi dobbiamo avere ben chiaro un punto: l’AIGCP non deve entrare nella parte commerciale del ciclismo, non è un tema che ci compete.
E’ pur vero che se vi presentate al tavolo per parlare di calendario, ciò ha un influsso economico. La Superlega calcistica voleva sostituirsi alle federazioni per gestire l’attività, voi invece siete sempre dell’opinione che sia l’Uci a dover curare il calendario?
Sì, ma con il nostro contributo. Noi dobbiamo farlo avendo chiara l’idea che dobbiamo procedere insieme al massimo organo per progettare il ciclismo del futuro. Il calendario va rivisto, questo è certo, ma dev’essere un processo condiviso perché non è assolutamente facile cambiare.
Le Classiche Monumento (qui il Fiandre) devono essere sempre più i cardini della stagioneLe Classiche Monumento (qui il Fiandre) devono essere sempre più i cardini della stagione
Noi gli eventi simili li abbiamo già, sono le Classiche Monumento e i grandi Giri, ma bisogna tener conto che le gare sono molto diverse fra loro ed è difficile che uno abbia caratteristiche che si adattino a ogni prova. Il paragone con il tennis però ha ragion d’essere: anche lì vediamo i grandi nei tornei principali e poi tantissimi altri tornei dove i big si sparpagliano e che sono seguiti molto meno dallo spettatore medio, non specializzato. Da noi è lo stesso: tantissime corse, che confondono le idee. Dobbiamo dare una nuova importanza alle corse del WorldTour: sono troppe, inflazionate, in contemporanea. Ogni Paese vuole avere la sua prova e questo penalizza il mercato.
Ricordi com’era la Coppa del mondo, con una maglia specifica?
Certamente, ricordo le vittorie di Fondriest e Bettini. Quella potrebbe essere una soluzione, ma di idee sul tavolo ne abbiamo molte. Consideriamo anche che il ciclismo si basa molto sulla tradizione, i cambiamenti vanno ponderati con attenzione. Il calendario in questo momento è un problema primario: noi come Jayco-AlUla in certi momenti abbiamo in attività tre squadre maschili e due femminili in contemporanea, questo dice che c’è qualcosa che non va perché il pubblico non riesce a seguire tutto.
Bettini primo alla Sanremo con la maglia di leader di Coppa del Mondo. Un format da recuperare?Bettini primo alla Sanremo con la maglia di leader di Coppa del Mondo. Un format da recuperare?
Come fai a seguire l’Associazione con tutti gli impegni che hai nel team?
Questo è un altro aspetto fondamentale. Nelle riunioni prima delle elezioni io ho spesso detto, anche in maniera veemente che l’associazione doveva cambiare, che non ha senso che un team manager la presieda perché è evidente il conflitto d’interessi. Ma non c’era tempo per trovare un esterno. Noi però dobbiamo farlo, trovare un CEO o amministratore delegato fuori da ogni legame con qualsiasi team. Intanto dobbiamo trovare un consulente esterno per rivedere tutta la nostra attività, anche lo statuto stesso dell’associazione, porre nuove regole. Qualcuno che ci segua almeno per 3 mesi nella nostra gestione per capire, con occhi esterni, che cosa funziona e che cosa va cambiato. Io ho intenzione di ridisegnare questo strumento per renderlo al passo con i tempi che ci attendono e sono molto delicati.
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Per fare un passo avanti rispetto ai post social, abbiamo raggiunto Brent Copeland, team manager della Jayco-AlUla, mentre ieri pomeriggio guidava alla volta di Losanna per un corso di aggiornamento all’UCI. La sua presa di posizione sulla vicenda di Cian Uijtdebroeks gli è valsa la chiamata di Alex Carera, di cui è amico da lunga data e anche a lui ha spiegato il punto. In questi giorni, su siti e social circolano foto del giovane belga vestito di nero in ritiro con la Jumbo-Visma, è chiaro che il passo sia ormai fatto, costi quel che costi. E proprio questo è alla base del fastidio con cui il sudafricano vive il momento.
In questi giorni, Uijtdebroeks è in allenamento con la Jumbo-Visma in Spagna (foto Het Laatste Nieuws)In questi giorni, Uijtdebroeks è in allenamento con la Jumbo-Visma in Spagna (foto Het Laatste Nieuws)
Come mai questa volta ti sei arrabbiato così tanto?
Non sono arrabbiato, sono preoccupato. Si potrebbe creare un precedente pericoloso per le squadre e anche per il corridore e i suoi agenti. Pericoloso per tutti. A cosa serve avere un contratto se è così facile terminarlo senza motivi abbastanza gravi? Non conosco i dettagli e le vere ragioni. Ho visto che oggi sono uscite delle spiegazioni (si è letto di prese in giro subite dal belga nel corso della Vuelta e di un gruppo whatsapp creato allo scopo alle sue spalle, ndr), però mi sembra tutto esagerato. Se vuoi fare un trasferimento del corridore, va bene. Sono cose che vengono fatte tra tutte le squadre. Noi quest’anno abbiamo preso due corridori che erano sotto contratto: uno è Plapp, l’altro è Caleb Ewan. Però c’è una procedura da seguire.
In cosa consiste?
Devi prima chiedere l’autorizzazione al PCC, il Consiglio del ciclismo professionistico presieduto da Tom Van Damme. Addirittura il regolamento dice che bisogna chiedere l’autorizzazione prima di parlare con il corridore o il suo agente. Ovviamente questo è difficile, perché se c’è la possibilità di un trasferimento vuol dire che hai già avuto un contatto. Poi viene fatto un accordo fra tre parti: la vecchia squadra, la nuova e il corridore per la parte finanziaria legata ai costi del trasferimento. Solo a quel punto si può procedere al contratto fra l’atleta e il nuovo team.
Piuttosto laborioso…
Ma se questa procedura viene seguita correttamente, non ci sono problemi. Il corridore non è contento della sua squadra, cerca qualcos’altro o magari una squadra nuova gli ha fatto un’offerta più importante o altro? Questi sono i protocolli da seguire. Invece mi sembra qui che non sia stato seguito nulla, perché se una squadra annuncia che un corridore ha firmato con loro e dopo un’ora la squadra attuale dice che resta lì, mi sembra che passi l’immagine di uno sport tutt’altro che professionistico. E secondo me vuol dire che non sono state seguite le corrette procedure. Vuol dire che un corridore di vent’anni, che ha poca esperienza, ha preso una decisione non facile. E allora mi chiedo: chi è il responsabile di questo? Chi deve guidare il ragazzo? Chi deve curare questi aspetti?
Brent Copeland, manager del Team Jayco, si è mostrato piuttosto preoccupato per la vicenda UijtdebroeksBrent Copeland, manager del Team Jayco, si è mostrato piuttosto preoccupato per la vicenda Uijtdebroeks
Bella domanda: a chi tocca?
Io credo che siano la squadra e l’agente, poi il CPA e tanto dipende anche dalla squadra. Quando un corridore viene da noi, cerchiamo di insegnargli la nostra cultura, il nostro modo di fare. Cerchiamo di essere trasparenti e di rispettare tutti. Nel momento in cui ci fosse una mancanza di rispetto o qualcosa non va, si deve parlare. E a quel punto è una responsabilità sia della squadra sia dell’agente. Ci sono regole chiare dell’UCI per gestire la situazione.
Di chi è la colpa se non vengono seguite?
L’agente sicuramente fa una trattativa, però immagino che sia stato il corridore a chiedergli di cercare una nuova squadra. Certamente non credo che l’agente vada a mettere certe cose in testa al corridore, almeno spero. Serve qualcuno che educhi bene il ragazzo prima che si arrivi a questo punto. Qualcuno che gli faccia capire che il contratto l’ha firmato lui. Loro magari sono stati bravi a farti firmare per tre anni, hanno fatto un affare, ma adesso devi osservare quel contratto. Poi se il corridore va forte e cresce, l’agente dovrà mettersi a tavola con la squadra, cercando di aumentare il suo stipendio, come succede sempre.
Quindi l’agente esegue sempre le direttive del suo assistito?
Ho parlato con Alex Carera, che era arrabbiato con me perché ho fatto quel post su X facendomi proprio queste domande. E gli ho risposto che non c’è solo un responsabile e comunque non è solo colpa dell’agente. E’ anche colpa della squadra, perché se arrivi al punto in cui non riesci più a parlare col tuo corridore, allora sì, è meglio lasciarlo andare, ma che la cosa venga fatta con il protocollo giusto. Ecco perché più che arrabbiato sono preoccupato. Se va in porto questa faccenda e l’UCI non richiede un’udienza disciplinare, si crea una precedente per il futuro, in cui i ragazzi possono rompere il contratto più facilmente.
Fu una sentenza del tribunale belga a fine 2018 a portare Van Aert dalla Willems alla JumboFu una sentenza del tribunale belga a fine 2018 a portare Van Aert dalla Willems alla Jumbo
La stessa cosa accadde con Van Aert, che andò alla Jumbo Visma per una sentenza.
Sì, più o meno, anche se non ricordo bene i dettagli. Forse quel caso fu un po’ diverso perché non erano due squadre WorldTour e nella precedente lui faceva solo cross e poca strada. Ma forse a livello burocratico fu la stessa cosa.
Il sistema attuale funziona o sarebbe meglio passare al sistema dei cartellini come nel calcio?
Secondo me il sistema funziona se vengono rispettati i regolamenti. I passaggi sono semplici. Se le tre parti sono d’accordo, non ci sono problemi. Ma se la squadra dove lui ha il contratto non è d’accordo che vada via, allora diventa complicato. Certo che nessuno vuole rovinare la carriera del corridore, questo no, però quello che hanno fatto questa settimana per me è vergognoso. Chi vede certe cose si chiede cosa stia succedendo, anche perché nel frattempo il ragazzo è là che si allena con loro vestito di nero. E’ chiaro che Uijtdebroeks correrà alla Jumbo, non credo che rimarrà alla Bora, però le cose andrebbero fatte meglio. Fino al 31 dicembre lo stipendio arriva dalla Bora e anche se ci sono gli accordi per cui un corridore può provare la bicicletta nuova prima della fine del contratto, dal punto di vista della visibilità e dell’immagine ha l’obbligo di rispettare chi gli paga lo stipendio (a quanto detto da Carera, il contratto è stato terminato il 1° dicembre, ndr).
Secondo te c’è modo nello scrivere i contratti di tutelarsi rispetto a queste situazioni?
Anche qui è molto complicato. Ogni squadra è sottoposta alla legge del Paese in cui è registrata, più bisogna vedere il Paese in cui il corridore è residente. In questo caso mi pare di capire che Uijtdebroeks potrebbe andare in un tribunale del Belgio a chiedere di rescindere il contratto. Poi c’è il discorso dei contratti self-employed o employed: libero professionista o dipendente. Se lui è self-employed, allora ha più libertà di manovra. Ma in ogni caso c’è qualcosa di poco etico. Un po’ di rispetto deve esserci e questo è preoccupante.
Richard Plugge, a destra e i suoi trofei 2023: Giro, Vuelta e Tour. Roglic è passato alla Bora con regolare trattativaRichard Plugge, a destra e i suoi trofei 2023: Giro, Vuelta e Tour. Roglic è passato alla Bora con regolare trattativa
Fra team manager vi capita mai di affrontare questi argomenti?
Dipende dal rapporto che hai con i singoli. Noi, per esempio, tre anni fa dalla Jumbo abbiamo preso Groenewegen, seguendo le procedure correttamente. Abbiamo chiesto l’autorizzazione di procedere con le trattative a Tom Van Damme. A quel punto abbiamo chiesto alla Jumbo quanto volesse per il corridore. Quindi abbiamo firmato tutti gli accordi e il passaggio è andato a buon fine, senza alcun problema. Qui è evidente, pur non conoscendo i dettagli, che il ragazzo non sia contento con la squadra e che ci siano delle frizioni, per i materiali, per i trattamenti ricevuti. Qualunque cosa ci sia sotto, ci si siede a un tavolo, si chiede alla squadra se è disposta a pagare una cifra, si fa una trattativa, si mette giù un accordo tra le tre parti e si va avanti. Invece mi sembra che il corridore abbia deciso di rompere il contratto senza chiudere bene con la squadra attuale. Magari la Bora avrà pure fatto qualcosa di sbagliato, questo non lo so, ma questo non ti solleva dal rispettare le regole.
Quel che sembra è che alla fine sarà solo una questione di soldi…
Ma stiamo finendo nel ridicolo. Mettiamo che il PCC dica di no, che hanno valutato le situazioni e l’atleta deve rispettare il suo contratto e rimanere alla Bora. Uijtdebroeks allora va in tribunale, chiede di rompere il contratto e il tribunale accoglie la richiesta e lui va a correre per la Jumbo-Visma senza pagare la penale. Chi ci dice che l’anno prossimo non ti trovi con 3-4 corridori che davanti alla facilità di fare certi passaggi non proveranno la stessa strada? Per questo dico che adesso toccherebbe all’UCI richiamare le parti e fare un’udienza disciplinare, altrimenti si cade nell’anarchia.