EDITORIALE / La sicurezza è un obiettivo, ma si agisca sulle cause

08.07.2024
6 min
Salva

Ieri mattina il Tour de France si è fermato per rendere omaggio ad André Drege, scomparso in seguito a una caduta al Tour of Austria (in apertura la squadre del norvegese – Team Coop-Repsol – schierata al via dell’ultima tappa annullata). La statistica dei corridori morti in gara è un elenco impietoso di lapidi che fortunatamente negli ultimi anni si è andato assottigliando. Infatti, sebbene le immagini, i social e l’emotività che scatenano facciano sembrare che ci troviamo al centro di una strage, la situazione della sicurezza oggi è molto migliore rispetto a un tempo.

Scossi dall’emotività della giovane morte norvegese, negli ultimi giorni siamo tutti a chiederci che cosa si possa fare per cambiare il corso di questo destino. Si ipotizza di dotare i corridori di airbag o altre soluzioni tecniche. Se arriveranno, quando arriveranno e non stravolgeranno la pratica sportiva, saranno ben accette.

Non ci sono notizie sulla dinamica della caduta di Drege, ma si parla di problemi alla ruota posteriore. Aveva 25 anni
Non ci sono notizie sulla dinamica della caduta di Drege, ma si parla di problemi alla ruota posteriore. Aveva 25 anni

La chiarezza di Bettiol

Intervistato ieri su Rai 2 da Silvano Ploner alla partenza della nona tappa del Tour, Alberto Bettiol ha usato parole amare, ma di grandissimo buon senso.

«Purtroppo questo è uno sport pericoloso – ha detto il campione italiano – e dispiace tantissimo. Sono delle disgrazie, c’è poco da dire. Sul discorso sicurezza, lo dico sempre che fra gli sport non estremi, il ciclismo è il più estremo. Alla fine rischiamo la vita tutti i giorni, rischiamo la vita in allenamento e in gara. Io paradossalmente mi sento molto più sicuro al Tour de France che in allenamento, sinceramente, per la quantità di dottori, di ambulanze sempre al seguito, telecamere ovunque. Quindi in teoria in gara siamo abbastanza sicuri.

«Penso che in Austria sia stata una fatalità. Da quello che si è sentito, è andato dritto in una curva ed è accaduto rovinosamente. Cioè, cosa vuoi fare? Alla fine il ciclismo è questo, è duro da accettare, però non vedo quali siano gli accorgimenti che possiamo prendere. Non è che possiamo togliere le discese nel ciclismo, bisogna stare attenti. Non era in un gruppo, era da solo nella discesa del Grossglockner. Sono fatalità».

Serse Coppi, a sinistra, fratello di Fausto: morì al Giro del Piemonte del 1951 (foto CapoVelo)
Serse Coppi, a sinistra, fratello di Fausto: morì al Giro del Piemonte del 1951 (foto CapoVelo)

25 dal 1948 ad oggi

Nel solo 1904, quando si correva più in pista che su strada, morirono sette corridori in velodromo. Su strada persero un fratello i due grandissimi del ciclismo italiano. Giulio Bartali morì nella Targa Chiari del 1936, gara regionale toscana. Serse Coppi morì al Giro del Piemonte del 1951. Dal dopoguerra ad oggi, sono 60 i corridori che ci hanno lasciato per cadute, investimenti, arresti cardiaci o malori di ogni genere avuti in corsa. E’ una statistica che raggruppa anche dilettanti e corridori della mountain bike, altri rimasti vittime di cadute e altri di malori per ogni genere di motivo.

Restando in ambito professionistico, dal 1948 ad oggi, gli atleti scomparsi in gara per caduta o incidente sono 25. Nomi come Coppi, Fantini, Santisteban, Ravasio, Casartelli, Sanroma, Kivilev, Weylandt, Demoitie, Lambrecht, Mader e il recentissimo Drege suscitano ricordi in ognuno di noi. Ebbene, i numeri dicono che la mortalità dei professionisti in gara è di un corridore ogni tre anni. In proporzione muoiono molti più ciclisti in allenamento o nella vita quotidiana (197 nel 2023). Quello sì sarebbe un fronte cui dedicarsi con grande ardore, ma ciò non toglie la necessità di operarsi per la sicurezza di chi corre.

La morte di Senna diede forte impulso alla revisione di aspetti tecnici in F1 sul tema sicurezza (foto Getty Images)
La morte di Senna diede forte impulso alla revisione di aspetti tecnici in F1 sul tema sicurezza (foto Getty Images)

La sicurezza della Formula Uno

Una riflessione va fatta, affinché non sembri che si voglia guardare dall’altra parte. La Formula Uno negli anni è intervenuta in modo drastico sulle normative tecniche. I fattori di rischio sono stati ridotti, con una netta accelerazione dopo la morte di Senna quanto a dispositivi di protezione e sicurezza. Ma già prima erano state eliminate le minigonne. Eliminato l’effetto suolo. Fatti interventi sulla misura delle gomme, sui propulsori e sulla misura delle ali. Chiaramente, essendo uno sport che si svolge in circuito, è stato possibile intervenire anche sui percorsi. In più i piloti sono stati dotati di dispositivi di sicurezza personali che non devono certo trasportare con la forza delle loro gambe. Sarebbe curioso uno studio che metta in relazione la velocità e l’esposizione fisica al rischio di un pilota così protetto rispetto a un ciclista.

Nel ciclismo servì la morte di Kivilev nel 2003 per imporre l’uso del casco, ma poco si può fare sui percorsi. E’ impossibile eliminare discese e curve, anche se la nascita di SafeR dovrebbe servire proprio per valutare le scelte troppo incaute. Si possono scegliere le strade con più attenzione. Si possono evitare i passaggi inutilmente pericolosi. Ma come immaginare di eliminare la discesa del Galibier in cui Pogacar e Pidcock nel 2022 dipinsero quelle traiettorie al limite? Non si può snaturare lo sport. E non si può neppure pretendere di correre in autostrada, se le statali sono strette per le velocità attuali. E forse il tema è proprio questo: le velocità attuali, le strade di sempre e il loro rapporto con la sicurezza degli atleti.

Questa la discesa capolavoro di Pidcock dal Galibier nel 2022
Questa la discesa capolavoro di Pidcock dal Galibier nel 2022

Intervenire sui materiali

Le case produttrici spingono verso performance pazzesche, ma come recita lo slogan: la potenza senza il controllo è nulla. Allora, non potendo arrestare la fisiologia degli atleti, si può forse intervenire sulle biciclette? Tutti i corridori di ieri che abbiano usato una bici da gara attuale concordano col fatto che sia estremamente più facile guadagnare velocità, da chiedersi come facessero ai loro tempi ad andare ugualmente forte. Avevano telai in acciaio e geometrie meno estreme, ma per questo più stabili (guarda caso, come Pidcock!). I cerchi bassi e gomme più strette. Oggi che abbiamo conoscenze e materiali che potrebbero rendere più sicura la guida estrema, forse dovremmo renderci conto che trasformare le biciclette in missili da gara in alcuni frangenti compromette la sicurezza del corridore.

Le strade negli anni sono rimaste le stesse, le velocità sono aumentate a dismisura: è chiaro che le criticità aumentino. E allora perché ad esempio nei tapponi alpini non vietare l’uso di ruote ad alto profilo, mantenendo però le gomme più larghe e i freni a disco? Oppure, mantenendo le ruote alte, perché non rendere obbligatorio il passaggio a gomme da 32 con cui aumenta la superficie di contatto con l’asfalto? Se è stato possibile costringere le case automobilistiche a ridisegnare le Formula Uno, quali argomenti potrebbero opporre le aziende che producono “semplici” bici?

Alla partenza della tappa di ieri, tutto lo sgomento sul volto del norvegese Kristoff
Alla partenza della tappa di ieri, tutto lo sgomento sul volto del norvegese Kristoff

Non è a nostro avviso mettendo uno zaino con l’airbag che si risolve il problema della sicurezza, ma sia benvenuto se non peserà due chili e sarà compatibile con il semplice pedalare. E visto che non è possibile intervenire sul buon senso dei corridori e la loro capacità di rallentare, allora forse può avere un senso ridurre i dispositivi grazie ai quali la velocità si moltiplica. Tutto ciò detto, scordiamoci che uno sport che si disputa su due ruote possa diventare stabile o esente da pericoli. Battersi perché lo diventi significa cambiare la sua natura.

P.S. La causa della caduta di Drege potrebbe essere in una foratura e l’impiego di un sistema di ruote su cui ci sono più dubbi che certezze. Se così fosse, sarebbe confermato il fatto che il progresso non può avvenire a spese dei corridori. E l’incidente in questo caso sarebbe colposo e non fatale.

Il San Luca di Marangoni, una bolgia gialla e chiassosa

08.07.2024
4 min
Salva

La seconda tappa del Tour De France, con la doppia ascesa al San Luca sul finale, fin dalla presentazione è stata sicuramente la più attesa delle tre frazioni italiane. Vuoi per la durezza dello strappo, vuoi per i portici monumentali che lo accompagnano per tutta la sua lunghezza, vuoi per la storia che si porta dietro. Dall’epica cronoscalata di Magni con il tubolare tra i denti fino alle più recenti sfide tra i big al Giro dell’Emilia. Oramai da mesi, quindi, un’infinità di appassionati si era data appuntamento lì, quel giorno. Tra loro c’era anche Alan Marangoni, ex professionista e ora volto di GCN Italia.

Alan è rimasto tutta la giornata in quella bolgia di tifo, passione, rumori e colori che abbiamo visto tutti in televisione. Ci siamo fatti raccontare da lui l’atmosfera che ha vissuto aspettando per ore, assieme a migliaia di persone, lo storico passaggio del Tour De France su una delle più celebri salite italiane.

Alan Marangoni, la compagna Lisa e il pubblico del San Luca
Alan Marangoni, la compagna Lisa e il pubblico del San Luca
Alan, intanto ti chiediamo in quale punto della salita ti sei piazzato per vedere il doppio passaggio dei corridori.

Io ero a tre quarti del drittone che c’è dopo la curva delle Orfanelle, un punto in cui spesso si fa la differenza e i corridori si vedono molto bene. Pogacar invece stavolta è scattato un po’ dopo, approfittando della fine del rettilineo dove la strada spiana leggermente.

Come ti è sembrato il San Luca “francese” rispetto ai passaggi al Giro d’Italia e dell’Emilia?

La cosa che ho notato subito è stata la densità, in senso proprio fisico, del pubblico. Al Giro dell’Emilia anche, ovviamente, c’è sempre parecchia gente, ma il giorno del Tour era tutto ad un altro livello. Dietro le transenne c’erano ovunque file e file di persone assiepate una dietro l’altra, incredibile. E poi soprattutto il rumore. Non avete idea della quantità di casino che c’era, impossibile da capire guardando dalla tv… Secondo me perché tanti erano lì anche solo per essere presenti all’evento, per poter dire in futuro dire “Io c’ero” e passare una giornata di festa e sport.

Il pubblico non entra dietro le transenne: alcuni sono sulla strada
Il pubblico non entra dietro le transenne: alcuni sono sulla strada
Dovessi quantificare, a spanne, quanta gente c’era in più rispetto alle altre volte in cui ci sei stato?

Bella domanda, ci ho pensato anch’io. Quello che ho visto per certo è che all’Emilia nella prima parte della salita onestamente non c’è molta gente. Tutti di solito si piazzano nella seconda metà, quella più dura e spettacolare. Al Tour invece era tutto pieno, “murato di gente” già dai primi metri dopo l’Arco del Meloncello. Direi che forse c’era il doppio della gente rispetto al Giro dell’Emilia.

Per quanto riguarda invece il tipo di pubblico hai notato delle differenze?

Sicuramente ho visto molti più stranieri. Belgi, colombiani, francesi, sloveni, come è normale che sia in una manifestazione del calibro del Tour, che quando arriva moltiplica tutto, anche le nazionalità.

Marangoni in bici sul San Luca: per tre volte nello stesso giorno
Marangoni in bici sul San Luca: per tre volte nello stesso giorno
Ci racconti qualche nota di colore che ti ha colpito?

Per il nostro canale abbiamo fatto un esperimento, cioè salire sul San Luca tre ore prima del passaggio della corsa per registrare un video lasciando solo i suoni ambientali, senza commento. Beh, quando sono passato sulla curva delle Orfanelle c’era una quantità di tifo, rumore, casino generale che quasi mi faceva cadere per terra. Pazzesco, quasi mai ho visto una cosa del genere. E la cosa bella era che non c’era una tifoseria particolare, come invece a volte capita al Tour e al Giro, con le varie fazioni. Quel giorno tutti incitavano tutti, in continuazione. Poi ho notato anche un’altra differenza, rispetto all’Emilia…

Cioè?

Il flusso continuo di gente che saliva in bici. Per ore e ore fino a che non hanno bloccato la strada, è stata una processione senza fine di persone in bici. Di tutti i tipi: dalla mamma con la bici elettrica con i bambini, al papà che trainava con una corda il figlio, fino ovviamente agli amatori. Ma quelli che facevano scattare l’ovazione generale erano i bambini piccoli che salivano da soli, lì c’era proprio un tifo da stadio.

La vista dal drone dà l’idea della distribuzione di pubblico sul San Luca
La vista dal drone dà l’idea della distribuzione di pubblico sul San Luca
Quindi nonostante il caldo l’attesa dei corridori non è stata troppo lunga e faticosa.

Per niente, anzi. Ero lì fin dal mattino e, anche se in effetti il clima non era dei più miti e c’era appunto tantissima gente, quelle ore sono passate molto velocemente. Perché davvero quel giorno è stata una festa continua, per la città, per l’Italia, per tutti i tifosi di ciclismo.

Pogacar attento, la trappola di Vingegaard è già scattata

07.07.2024
7 min
Salva

Quando pochi giorni fa Jonas Vingegaard ha detto di avere un piano cui si atterrà come lo scorso anno, ci è venuto il sospetto che il piano sia pressoché lo stesso. Far sfogare Pogacar e poi staccarlo nel finale. Perché ciò accada, occorre che lo sloveno cali e il danese cresca. Entrambi i fattori sono motivo di curiosità. Pogacar potrebbe calare, avendo corso (e vinto) il Giro. Il fatto che Vingegaard cresca è avvalorato dalle sue parole, d’altra parte è sconfessato da ciò che accadde lo scorso anno a Pogacar. Tadej si spense, per quel che disse, non avendo avuto il tempo per allenarsi a dovere dopo la frattura dello scafoide: perché mai dovrebbe averlo avuto Jonas dopo un incidente ben più grave?

Pogacar: «Una tappa divertente»

Frattanto, in attesa di capire quale sia il piano di Vingegaard, anche oggi il Tour ci ha regalato una tappa effervescente, ma anche da decifrare. I tratti di strada bianca hanno prodotto spettacolo e costretto a inseguire chi, come Roglic, si è fatto pescare nelle retrovie quando il settore numero due ha costretto parecchi corridori a mettere piede a terra. Al contempo hanno messo le ali a chi, come Pogacar, si esalta laddove la sfida diventa estrema.

La maglia gialla ha fatto capire subito di non aver bisogno della squadra. Ha prima attaccato in un tratto in discesa. Poi ha allungato il gruppo. E alla fine ha agganciato Evenepoel nel suo tentativo di attacco e con lui (e Vingegaard) si è riportato sulla fuga. Essendo per i fuggitivi una presenza evidentemente sgradita, i tre si sono rialzati. E quando tutto sembrava essersi calmato e che Pogacar avesse accettato di correre da maglia gialla, il suo ulteriore attacco ha costretto Laporte e Jorgenson a inseguire per chiudere il buco. Vingegaard avrà preso paura? Pogacar alla fine avrà vantaggi da questa operazione, dato che domani tutti potranno riposare, oppure i fuochi d’artificio si sommeranno nelle sue gambe?

«Una tappa divertente – dice Pogacar – non mi aspettavo che sullo sterrato ci fosse così tanta ghiaia. C’erano davvero tantissime pietre e sabbia, quindi è stato difficile e anche divertente passarci sopra. La prossima volta farei il giro nella direzione opposta, in modo da avere vento a favore fino al traguardo. Io ho guardato Remco, lui ha guardato me. Ci siamo detti che saremmo potuti andare fino all’arrivo, ma non ha funzionato. Ho avuto delle grandi gambe nella tappa più difficile sinora di questo Tour. Mi sono sentito davvero bene e non vedo l’ora che con la prossima settimana sui Pirenei inizieremo le vere montagne. La prossima crono ci sarà solo alla fine, sono super felice che le cose vadano così, ho fiducia. Abbiamo una buona squadra, ho buone gambe, mi sento bene e sì, mi sto divertendo»

Oggi è stato chiaro che la Visma ha corso da squadra per rintuzzare gli attacchi di Pogacar
Oggi è stato chiaro che la Visma ha corso da squadra per rintuzzare gli attacchi di Pogacar

Turgis: «Una tappa leggendaria»

La vittoria di giornata è andata ad Anthony Turgis, francese di 30 anni della Total Energies, con poche vittorie e tanti piazzamenti, come quello dietro Mohoric nella Sanremo del 2022 o quello dietro Can der Poel a Waregem nel 2019. Le mani nei capelli dopo l’arrivo danno la dimensione dello stupore di un corridore che nel finale ha avuto la freddezza giusta.

«E’ pazzesco – dice – sono anni che corro il Tour de France, questo è il mio settimo, con l’obiettivo di vincere una tappa. Avevo vinto a tutti i livelli, mi mancava una corsa WorldTour e ora arriva una tappa al Tour de France, una tappa leggendaria. Abbiamo avuto una giornata molto importante. Ho visto formarsi il gruppo di testa e non mi sono arreso nonostante ci fosse gente più forte di me. Sapevo che Jasper Stuyven avrebbe attaccato nel finale. Volevo che gli altri mi portassero il più avanti possibile. Era una questione di chi interpretava il gioco nel modo più intelligente. Ma è davvero difficile essere in testa al Tour de France. Questa vittoria è fantastica per la squadra. Siamo venuti per una vittoria di tappa e l’abbiamo ottenuta».

Evenepoel: «Una tappa da capire»

Remco Evenepoel sta correndo come se i Tour de France nelle sue gambe siano già tanti. In realtà il debuttante belga attinge a piene mani dal suo grande talento e su questo percorso era venuto per due volte, scoprendo anche qualche sorpresina. A detta del suo direttore sportivo Lodewyk infatti, gli ultimi sei settori sono stati resi più scorrevoli rispetto ai sopralluoghi effettuati. Ma poco cambia: quando a 70 chilometri dall’arrivo ha attaccato come sulla Redoute, Remco non ha mostrato alcun timore reverenziale.

«La giornata è andata bene – spiega non ho sofferto molto e mi sentivo bene sullo sterrato. Sapevo che Tadej avrebbe attaccato e sono riuscito a rimanere con lui quasi tutto il tempo. C’è stata solo una volta in cui mi sono trovato in una brutta posizione e penso che i miei compagni di squadra non siano stati abbastanza aggressivi da riportarmi in testa al gruppo. Sono rimasto sorpreso, ma la cosa si è risolta subito.

«Peccato che quando eravamo in tre, Vingegaard non abbia voluto collaborare per aumentare il vantaggio. Avevamo la possibilità di tornare sul gruppo di testa e giocarci la tappa, ma rispetto la tattica della Visma: hanno scelto di giocare in difesa. Qualunque cosa accada, mi adatto alla situazione. Prima della partenza, avrei accettato di buon grado di ritrovarmi con questa classifica nel giorno di riposo. Quello che d’ora in avanti verrà in più, sarà tanto di guadagnato. Ora mi concentrerò sulla difesa di questo posto».

Primi segni di vita per Van der Poel: il campione del mondo segue il suo cammino di crescita verso Parigi
Primi segni di vita per Van der Poel: il campione del mondo segue il suo cammino di crescita verso Parigi

Vingegaard: «Una tappa inutile»

Jonas Vingegaard ha corso buona parte della tappa con la bici numero 7 di Tratnik, il cui compito dichiarato dalla partenza era proprio quello di stare vicino al capitano e cedergli la sua Cervélo in caso di foratura. Per questo, quando il cambio ruota Shimano si è affrettato per cambiargli la ruota, lo slovacco li ha lasciati andare via. Voleva la sua bici di scorta, non avendo ormai più velleità di arrivare al traguardo con quelli davanti.

«Sono molto sollevato – dice Vingegaard – dal fatto di essere arrivato sano e salvo al traguardo, senza perdere altro tempo e con solo due forature. Una quando sono salito sulla bici di Jan e poi, a dire il vero, ho anche forato negli ultimi tre chilometri, ma ho potuto finire la tappa sulla bici. Penso di dover ringraziare tutti i miei compagni di squadra, sono andati molto bene oggi. Tratnik mi ha dato la bici ed era perfetta. Il cambio è stato rapidissimo, non sono nemmeno finito nella scia delle ammiraglie. Il resto dei ragazzi mi ha tenuto davanti per tutto il tempo. Sono entrato in ogni settore in prima posizione e l’ultima volta mi hanno aiutato a inseguire Pogacar quando da solo non ce l’avrei fatta. Dopo questa tappa, sono in grande debito con loro. 

«E’ stata proprio una giornata molto stressante – ammette il vincitore degli ultimi due Tour – non nascondo che fossi preoccupato. Non penso che abbiamo bisogno di percorsi così. Vanno bene per la Strade Bianche, ma quella è un’altra corsa. Credo sia stato un rischio inutile, che ha favorito Pogacar più di me. E’ stato il più forte e su questi percorsi è favorito più di me. Lo vedevo più sciolto e soprattutto un corridore con il mio peso su certe strade non è a suo agio. Il tratto in cui ha attaccato probabilmente era il settore più sconnesso e ho rischiato anche di cadere, non controllavo bene la bici. E’ stato bene avere dei compagni intorno. In quel momento non c’erano né Roglic né Evenepoel, ma l’obiettivo non era guadagnare, solo salvarsi e allora è stato meglio riprendere Tadej e poi aspettare».

Pericolo scampato per Vingegaard che continua la sua lenta risalita
Pericolo scampato per Vingegaard che continua la sua lenta risalita

E quando gli viene chiesto come mai sorrida di più quest’anno e sembri più rilassato, Vingegaard risponde come pure Roglic lo scorso anno al rientro dalla caduta della Vuelta. «Forse dopo l’incidente – dice – ho capito cos’è la vita. Ho capito di cosa si tratta e ho capito che riguarda più la famiglia che il ciclismo. Quindi penso che in un certo senso sento meno pressione e mi diverto un po’ di più».

Pogacar arriva al riposo con la maglia gialla e un bel gruzzoletto di vantaggio. Eppure la sensazione guardando Vingegaard è che oggi il vincitore della corsa sia stato lui. Vedremo nei prossimi giorni in cosa consista il suo famoso piano…

Addio Geminiani, uno degli ultimi eroi a due ruote

07.07.2024
5 min
Salva

“Quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita”. E’ un verso di Paolo Conte dedicato a Bartali, ma potrebbe benissimo adattarsi anche a Raphael Geminiani, che ci ha lasciato alle soglie del secolo di vita. In lui convivevano due anime: quella delle origini romagnole derivate dal padre Giovanni, emigrato in Francia, a Clermont Ferrand nel 1924 lasciando il suo negozio di biciclette a Lugo di Romagna per non sottostare al giogo fascista (Raphael parlava perfettamente il dialetto romagnolo, mentre faceva più fatica con l’italiano). L’altra era quella fieramente francese, quasi pugnace, fumantina, come un eroe dei romanzi di Rostand.

Raphael Geminiani era nato il 12 giugno 1925. Ha vinto 19 corse, laureandosi campione di Francia nel 1953
Raphael Geminiani era nato il 12 giugno 1925. Ha vinto 19 corse, laureandosi campione di Francia nel 1953

La litigata con Robic

Ne sapeva qualcosa Robic, uno dei grandi rivali che hanno attraversato la sua epopea. Al Tour del 1952 Geminiani era suo compagno di squadra. Verso Namur l’ordine era proteggere la maglia gialla di Nello Lauredi, ma lui tirava e tirava, Robic faticava e diceva di essere in crisi. Solo che quando è scattato Coppi, proprio Robic gli è andato dietro.

Tornati in hotel, Raphael sentì il compagno esprimersi in maniera non proprio lusinghiera nei suoi confronti: «Non volevo fare come quel coglione di Gem che lavorava per uno che era alla frutta…». Salito in camera, Robic trovò davanti a sé un Gem furibondo, che gli ficcò la testa nella tazza del water…

Al Tour Geminiani fu 2° nel ’51 e 3° nel ’58, perdendo per la rivalità dei suoi connazionali (foto Flickr)
Al Tour Geminiani fu 2° nel ’51 e 3° nel ’58, perdendo per la rivalità dei suoi connazionali (foto Flickr)

Il lusso “assaggiato” alla Bianchi

Geminiani, soprannominato “Le Grand Fucil” per il suo fisico alto e allampanato proprio come la canna di un fucile era uno che in salita andava forte nonostante si portasse addosso non poco peso, ma questo limitava il suo raggio d’azione e Raphael fu lesto a comprenderlo. Non era un capitano, poteva essere un vincente, sicuramente era un luogotenente di lusso e infatti i big se lo contendevano. Coppi lo volle con sé alla Bianchi, con cui condivise il trionfale Giro del 1952.

«Alla Bianchi si viveva nel lusso – raccontò qualche anno fa su L’Equipeti massaggiavano le gambe con acqua di colonia, io ero abituato a passarci l’alcol quando andava bene… Fausto era mio grande amico, ma anche con Bartali andavo d’accordo. Un giorno mi disse che avevo sbagliato: se fossi passato con lui alla Legnano, lui avrebbe “distratto” Coppi e mi avrebbe fatto vincere quello stesso Giro. Chissà se aveva ragione…».

Alla Bianchi il transalpino accompagnò Coppi alla conquista del Giro 1952, vincendo la classifica degli scalatori
Alla Bianchi il transalpino accompagnò Coppi alla conquista del Giro 1952, vincendo la classifica degli scalatori

La ricerca degli sponsor

Naso grosso e cervello fino, si dice. Geminiani era molto moderno. Intuì ad esempio che l’epopea del ciclismo meritava di essere sfruttata anche dal punto di vista economico, ma si poteva fare solo coinvolgendo realtà diverse, elevando la sua popolarità: «Non potrò mai dimenticare il Tour del 1947, la folla di gente a Parigi. Capii in quel mentre che davvero la guerra era qualcosa che ci eravamo messi alle spalle». Questa popolarità, Geminiani la spese andando a cercare sponsor al di fuori del territorio prettamente ciclistico: la Saint Raphael Geminiani Dunlop del 1954 fu uno dei primissimi esempi di team con uno sponsor non appartenente al mondo delle due ruote.

Questa sua saggezza seppe spenderla anche quando chiuse la sua carriera: per molti anni è stato apprezzato direttore sportivo, con scelte mai casuali. Ebbe a che fare da dirigente con Anquetil avversario dei suoi ultimi anni da corridore ma negli anni Settanta portò alla Fiat France anche un Merckx pronto a sparare le sue ultime cartucce. Investì su Stephen Roche incantato dal suo clamoroso anno della tripletta Giro-Tour-mondiale. Infine capì prima di altri il grande patrimonio dato dal ciclismo colombiano, dirigendo Herrera e Parra, primi campioni di una lunga serie.

Con Anquetil e Gaul. Dopo il 1960 Geminiani fu il diesse dello stesso Anquetil in molti suoi trionfi (foto L’Equipe)
Con Anquetil e Gaul. Dopo il 1960 Geminiani fu il diesse dello stesso Anquetil in molti suoi trionfi (foto L’Equipe)

Testimone del dramma di Coppi

Con Geminiani se ne va anche il testimone diretto della scomparsa di Fausto Coppi e in fin dei conti, quel dramma è legato anche a questa sua lungimiranza. Il francese infatti aveva capito che c’era possibilità di monetizzare la grande popolarità ottenuta andando alla ricerca di nuovi contesti (una politica che l’Uci ha sposato negli ultimi anni, lui l’aveva capito molto prima). Raccoglieva lauti ingaggi per criterium da correre in Africa, dove a fronte di assegni cospicui e un impegno sportivo molto relativo c’era anche la possibilità di farsi una bella vacanza tutta spesata.

Nel 1959 coinvolse anche il suo amico Fausto Coppi: «Bobet non può venire, ti va di venire con me in Alto Volta?”. Una delle ultime notti, le zanzare invasero la loro stanza e li punsero a ripetizione. Tornati a casa, Geminiani chiamò Fausto col quale era in trattativa per portare corridori da affiancare a Bahamontes: «Sai, Gem, da quando sono tornato non sto molto bene». «Neanch’io». Stessa camera, stesse zanzare, stessa malaria, cure diverse: la sua fortuna fu che le sue analisi, portate all’istituto Pasteur di Parigi evidenziarono la malattia, la cura di chinino lo salvò a un passo dalla morte, quel passo che l’Airone non riuscì a compiere, curato con antibiotici assolutamente inutili.

Al passaggio del Tour da Lugo di Romagna gli era stato dedicato uno speciale striscione
Al passaggio del Tour da Lugo di Romagna gli era stato dedicato uno speciale striscione

Il ciclismo che non c’è più

Geminiani era il più anziano detentore della maglia rosa, indossata per 3 giorni nel 1955, ma soprattutto era uno degli ultimi testimoni di un ciclismo che sapeva d’avventura, di passaparola, di imprese epiche. Delle quali, se eri fortunato, restava qualche foto sbiadita dallo scorrere del tempo. Qualcosa che, nell’era del ciclismo tecnologico fatto di radioline e rigide tabelle d’allenamento, di informazioni che ti arrivano nello spazio di microsecondi, è anche difficile da immaginare per chi non c’era…

La vittoria di Girmay, il dramma di Drege, la storia di Abrahamsen

06.07.2024
6 min
Salva

Conquistata Torino, Biniam Girmay alza per la seconda volta le braccia al cielo e questa volta anche la bici. Il traguardo di Colombey les Deux Eglises è fradicio di pioggia e sul rettilineo in leggera salita il corridore eritreo è stato più freddo e potente di Jasper Philipsen, partito prima e poi rimontato. Alle loro spalle, Arnaud De Lie avrebbe avuto forse le gambe per passarli, ma ha dovuto smettere di pedalare.

Un giorno bastardo

E’ un giorno bastardo, con la notizia della morte di André Drege arrivata dal Tour of Austria a raggelare la voglia di raccontare. Come lo scorso anno con Mader al Tour de Suisse, come ogni volta che succede e uno di questi ragazzi paga con la vita il suo sogno di corridore. Non conoscevamo Drege, della caduta si sa che è avvenuta in una discesa e poco altro. Ripensando alla picchiata di Tadej Pogacar martedì giù dal Galibier, ci rendiamo conto che una mano invisibile li protegge dal male, ma può capitare che a volte non basti. Giusto ieri a Forlì un gruppo di amici si è radunato per ricordare Fabio Casartelli, che in quel maledetto Tour del 1995 aveva l’età di Drege oggi, in questo ripetersi doloroso e sfiancante delle stesse parole.

André Drege, 25 anni, è scomparso al Tour of Austria. Qui vince il Tour of Rhodes a inizio stagione
André Drege, 25 anni, è scomparso al Tour of Austria. Qui vince il Tour of Rhodes a inizio stagione

In fuga con Drege

Biniam Girmay alza per la seconda volta le braccia al cielo, ma la tappa di oggi si è svolta nel segno di un altro norvegese, Jonas Abrahamsen, 28 anni, rimasto in fuga per 170 chilometri, prima che il gruppo si ricordasse che c’era da celebrare un’altra volata. Per cui, quando il corridore del Team Uno X Mobility è passato sul traguardo a 1’55” dal vincitore, la sua maglia pois aveva poco da raccontare, se non la stanchezza e un mesto sorriso.

Sono così pochi i corridori norvegesi, che forse la sera della fuga più lunga si trasformerà in un lento mal di testa. Al campionato nazionale, i due hanno pedalato insieme nel finale, arrivando in coppia al traguardo, con 1’04” di distacco dal vincitore.

Uno scalatore di 78 chili

Eppure la sua storia merita un racconto, per portare via la mente dalla tragedia, di cui si sa ancora troppo poco e avvenuta a quasi 900 chilometri da questo scorcio così verde di Francia. Quando è salito sul palco per essere premiato con la maglia degli scalatori, come gli succede dall’inizio del Tour, è parso ancora una volta insolito che quel primato sia stato consegnato a un corridore alto 1,83 per 78 chili.

Non è scritto da nessuna parte che il re degli scalatori debba essere sottile come Froome, ma di certo ha raramente questa fisicità. E’ vero che le grandi salite siano ancora lontane da venire e che le tante fughe gli permettono di raggranellare punti, ma la sua storia merita ugualmente un racconto.

Abrahamsen ha 28 anni, pesa 78 chili ed è alto 1,83. oggi è stato in fuga per 170 chilometri
Abrahamsen ha 28 anni, pesa 78 chili ed è alto 1,83. oggi è stato in fuga per 170 chilometri

I disturbi alimentari

Quando era under 23 infatti, Jonas Abrahamsen era ossessionato dall’essere il più leggero possibile. Non era una fissazione troppo rara, anche se negli ultimi anni le teorie sulla nutrizione hanno riscritto la storia. Ci si attaccava al rapporto fra potenza e peso e si pensava che il modo migliore per essere performanti fosse essere il più magri possibile. Abbiamo parlato a lungo dei disordini alimentari generati da questa convinzione e così è accaduto per il norvegese. A un certo punto il suo peso è sceso a 60 chili ed è stata l’inizio del problema.

«Quando ho iniziato a correre – ha raccontato – essere magri era molto popolare. Tutti i corridori che ammiravo lo erano. Ho sempre sperato di arrivare a 60 chili, ma era difficile tenere quel peso, soprattutto perché avevo sempre fame e poi soprattutto non riuscivo a spingere. Mi sentivo come se non avessi fatto i progressi in cui avevo sempre sperato. Essere leggero non significava andare forte in salita e così ho cominciato a riprendere peso. Ho scoperto che i muscoli funzionano meglio se ricevono carburante. Così ho preso 20 chili, poi lentamente mi sono messo in equilibrio e adesso ne ho 18 in più».

La maglia gialla e i castelli, la Francia è una serie ininterrotta di cartoline
La maglia gialla e i castelli, la Francia è una serie ininterrotta di cartoline

L’intervento del nutrizionista

Ha raccontato in una trasmissione televisiva norvegese, che mostrò alcune sue foto nudo sulla bicicletta, che l’eccesso di magrezza aveva portato via il desiderio sessuale. Al contrario, una volta tornato a mangiare, il suo corpo ha iniziato a convivere una una pubertà tardiva, che lo ha portato a crescere di 5-6 centimetri e all’iniziare a farsi la barba. Ovviamente non si è trattato soltanto di mangiare di più, quei 18 chili non sono fatti di fritti e birra, ma sono stati riguadagnati grazie alla collaborazione con James Moran, il nutrizionista della squadra.

«E’ pazzesco – ammette il corridore – la mia plicometria è fondamentalmente la stessa, ma i miei muscoli sono aumentati di 20 chili. Ora mangio in modo normale e il mio corpo reagisce molto bene».

Abrahamsen indossa la maglia a pois sin dal primo giorno del Tour
Abrahamsen indossa la maglia a pois sin dal primo giorno del Tour

Bilancia addio

Le sue ammissioni in Norvegia hanno provocato una serie di reazioni e fatto capire che dietro la difficoltà di sconfiggere i disturbi alimentari c’è soprattutto la vergogna di affrontarli.

«Penso che sia molto importante – ha detto Abrahnsen a The Cycling Podcast – che i giovani ciclisti mangino abbastanza. Ho pesato a lungo ogni cosa che mangiavo, ma ora mangio ciò di cui il mio corpo ha bisogno. E in modo davvero sorprendente vado più forte in salita ora di quando pesavo 60 chili».

La maglia a pois è ancora sua e magari rimarrà tale fino ai giorni sui Pirenei. A quel punto gli scalatori di 60 chili prenderanno il sopravvento e lui si farà una risata. Quel peso per lui non era naturale, averlo capito in tempo gli ha salvato la carriera.

Pedivelle corte: con Colò a lezione dal consulente di Pogacar

06.07.2024
5 min
Salva

Nei giorni che hanno preceduto la partenza del Tour de France da Firenze, c’è stato un susseguirsi di conferenze e di incontri tra varie figure tecniche. Dei veri e propri confronti tra professionisti del settore a riguardo di diversi temi. Uno di quelli affrontati nel caldo di Firenze è stato sull’utilizzo delle pedivelle corte. Conferenza tenuta da Borut Fonda, consulente biomeccanico esterno di Tadej Pogacar (il UAE Team Emirates ha confermato). A questa lezione ha partecipato Alessandro Colò, biomeccanico e uno degli organizzatori del Giro della Lunigiana. 

«Si è tratta di una vera e propria masterclass – racconta – sulla biomeccanica, con docente Boret Fonda, uno dei grandi fautori delle pedivelle corte. La cosa bella dell’incontro era la possibilità di intervenire e di confrontarsi. Uno dei temi sui quali ci siamo dilungati maggiormente è stato proprio quello legato all’utilizzo delle pedivelle corte».

A sinistra Alessandro Colò. A destra Borut Fonda consulente biomeccanico di Pogacar esterno al team
A sinistra Alessandro Colò. A destra Borut Fonda consulente biomeccanico di Pogacar esterno al team

Qualche novità

Tadej Pogacar nel corso delle ultime tre stagioni ha deciso di accorciare la misura delle pedivelle utilizzate. E’ passato dalle 172,5 millimetri alle 170, fino ad arrivare ora alle 165 millimetri. L’accorciamento delle pedivelle rappresenta, nel mondo del professionismo, una novità. Un’altra soluzione che è arrivata da poco è quella dell’avanzamento della sella. 

«Chiaramente – replica Colò – dipende da atleta ad atleta, ma è vero. Queste sono le due novità tecniche di maggior spicco. Tra l’altro, proprio legato all’avanzamento della sella, c’è stato un bel dibattito. Negli anni passati si pensava che un avanzamento della sella potesse portare dolori e problemi alle ginocchia. E’ stato però testato che non è vero, lo stesso Fonda ci ha scherzato su dicendo che siamo stati noi italiani ad inculcare questa paura infondata. Prima di partire però vorrei fare una precisazione a proposito di Pogacar».

Questa la Colnago utilizzata da Pogacar al Tour de France, spiccano le pedivelle da 165 millimetri
Questa la Colnago utilizzata da Pogacar al Tour de France, spiccano le pedivelle da 165 millimetri
Prego, dicci pure.

Stiamo parlando di un campione e di un atleta di massimo livello. Prima di effettuare delle modifiche alla sua posizione in bici vanno fatti tanti ragionamenti. Lui, come tutti i professionisti, pedala per un totale di 35.000 chilometri all’anno. Anche la più piccola modifica può portare dei problemi o ad altri aggiustamenti. 

Quindi serve tempo?

Noi abbiamo scoperto che Pogacar stesse utilizzando delle pedivelle da 165 millimetri alla Strade Bianche, suo esordio stagionale. Ma lui ha pedalato con quella misura di pedivelle per tutta la preparazione e tutto l’inverno. Come detto anche da Borda nella masterclass a Firenze, Tadej ha fatto dei test e si è trovata la quadra a 165 millimetri, complici anche dei problemi fisici che non è dato però sapere. 

Questo è lo strumento che permette di misurare la potenza di coppia
Questo è lo strumento che permette di misurare la potenza di coppia
Scendiamo nel dettaglio, come cambia la pedalata con delle pedivelle più corte?

Il movimento migliora, diventa più rotondo e controllato. Ma non tutti possono adoperare questa scelta, per farlo ci sono dei parametri da rispettare: predisposizione ad andare agile e una volontà di migliorare la performance. Come detto cambiare posizione in bici ad un corridore professionista è delicato, per farlo devono esserci delle esigenze chiare. 

A livello di movimento cosa cambia?

Le pedivelle corte portano ad avere una minore escursione della gamba, quindi si apre meno l’anca. Di conseguenza si ha uno stess articolare inferiore. 

La lunghezza delle pedivelle è regolabile, così da poter fare diversi test
La lunghezza delle pedivelle è regolabile, così da poter fare diversi test
Come si capisce se si sono avuti dei miglioramenti?

La strumentazione c’è ed è estremamente precisa. Si utilizzano degli analizzatori di coppia che calcolano come il ciclista eroga la forza sui pedali. Ne esce un grafico che dimostra come una data misura risponde rispetto ad un’altra. 

Le pedivelle corte non sono quindi una soluzione adatta a tutti, e chi ne può giovare?

Sono ideali, o meglio possono portare vantaggi importanti, agli scalatori. Questi pedalano molto a lungo con potenze elevate. Pensate a Pogacar sul Galibier: 50 minuti di salita. Con le pedivelle corte puoi cercare di coordinare meglio la pedalata, garantendo uniformità e un perdita minore di potenza. 

Il tutto si traduce in un grafico che riporta la coppia e l’angolo della pedivella
Il tutto si traduce in un grafico che riporta la coppia e l’angolo della pedivella
I velocisti non ne traggono vantaggio.

No. Loro hanno picchi di potenza assurdi e per tempi brevi, una volata dura 15 secondi e la forza impressa sui pedali è troppa per essere controllata. La pedalata di un velocista lanciato nello sprint non può essere gestita, è forza pura. 

Anche la conformazione fisica gioca un ruolo importante?

Certo. Se un atleta ha delle gambe estremamente lunghe non potrà usare pedivelle da 165 millimetri. Immaginate Froome con delle pedivelle corte, farebbe una fatica immane. Alla base di tutto c’è una proporzione fisica. Pogacar è alto 176 centimetri, ed è passato da pedivelle lunghe 172,5 millimetri a quelle da 165 millimetri. Froome, per fare un esempio, è alto 186 centimetri, in proporzione per fare lo stesso salto dovrebbe passare da pedivelle da 175 millimetri a quelle da 170.

Il fisico gioca una parte importante, un corridore con leve lunghe non riesce a sfruttare al meglio le pedivelle troppo corte
Il fisico gioca una parte importante, un corridore con leve lunghe non riesce a sfruttare al meglio le pedivelle troppo corte
Cosa vuol dire controllare meglio la pedalata?

Avere una maggiore rotondità di pedalata, questo comporta meno punti morti e una miglior distribuzione della potenza. Nella fase di risalita la forza è sempre zero, ma riducendo questa parte si pedala attivamente per maggior tempo. Il beneficio finale è anche legato ad una maggior facilità di coordinazione dello sforzo

Ad Evenepoel la crono dei quattro marziani

05.07.2024
6 min
Salva

Centottanta metri: è stato il distacco tra il primo e il secondo, che tradotti in 25,5 chilometri fanno una differenza di appena 0,7 per cento. La crono più che mai è la disciplina dei numeri e i numeri non tradiscono. Tutto secondo pronostico. Nonostante questo, la Nuits-Saint Georges – Gevrey Chambertin,  settima tappa di questo Tour de France, è stata da mangiarsi le unghie. Da stare seduti sulla punta del divano. Ha vinto Remco Evenepoel, su Tadej Pogacar, Primoz Roglic e Jonas Vingegaard.

Ed è stata una crono da mangiarsi le unghie perché finalmente tutti i migliori sono venuti allo scontro. Viene da chiedersi se si sia corso in Francia o su Marte. I top a livelli siderali…

I quattro giganti hanno scavato un solco tra loro e il resto del mondo, guarda caso gli stessi che si giocheranno la Grande Boucle. 

Remco Evenepoel (classe 2000) conquista il suo primo successo al Tour. In apertura la sua posizione perfetta
Remco Evenepoel (classe 2000) conquista il suo primo successo al Tour. In apertura la sua posizione perfetta

Remco marziano

Partiamo dal vincitore. Remco Evenepoel ha ribadito, semmai ce ne fosse stato bisogno, perché è lui il campione del mondo di specialità. Aerodinamico come nessun altro, non solo ha vinto, ma ha fatto la differenza esattamente nei tratti in cui si attendeva potesse andare più forte, vale a dire quelli in pianura. Quelli in cui c’era “solo” da spingere sul filo de 60 all’ora.

Il belga aveva il 62×11. Nonostante un piccolo problema tecnico, nel finale quando Pogacar gli si era avvicinato, è riuscito a scavare ancora qualcosa.

«Oggi – ci ha riferito Giampaolo Mondini, che cura i rapporti di Specialized con i team – Remco di più proprio non poteva fare. Era un percorso molto tecnico, c’erano certe stradine strette incredibili. Magari dalla tv non si percepivano. Già solo per uscire dal paese di partenza in un chilometro c’erano 4-5 svolte tecniche. E anche la discesa era tutta una sequenza di destra-sinistra: se sbagliavi una curva  perdevi tutta la ritmica e dovevi frenare. Quindi bene così: su carta Remco avrebbe potuto guadagnare massimo 25”, ne ha presi 12”. Va bene».

Nel finale, Evenepoel credeva di aver forato. «In realtà ha preso un sasso, ma con la ruota lenticolare in queste situazioni il rumore è lo stesso di una foratura. La gomma era sana, ma nel finale per paura che la sua posteriore avesse perso un po’ di pressione è stato un po’ conservativo».

«Mi sono sentito molto bene durante tutta la tappa – ha detto Evenepoel – Come l’abbiamo gestita? Abbiamo pensato più alla vittoria di tappa che ai distacchi per la classifica generale quindi direi missione è compiuta. Penso penso che Tadej è intoccabile, dopodiché c’è la gara e non si sa mai cosa può succedere in grande Giro. Da parte mia più passano le tappe e meglio mi sento. Da oggi inizieremo a pensare al podio. Penso di avere le gambe per questo».

Il “pacchetto crono” di Pogacar ha fatto netti passi in avanti. Tadej ottimo anche nella guida
Il “pacchetto crono” di Pogacar ha fatto netti passi in avanti. Tadej ottimo anche nella guida

Tadej vola anche a crono

Giuseppe Martinelli lo aveva detto un paio di giorni fa: «Per me Pogacar può vincere anche la crono e se non lo farà mi aspetto distacchi molto piccoli. Lo sloveno è più forte dell’anno scorso e forse anche più del Giro d’Italia», insomma come si suol dire: passa l’angelo e dice amen.

La maglia gialla la crono non l’ha vinta, ma la cura dimagrante e aerodinamica della sua Colnago si è vista eccome. Si è vista per il risultato, per la compostezza di Tadej e anche per la sua fluidità di guida. Se si guardano gli intermedi, ha recuperato qualcosina a Remco proprio nel tratto più tecnico.

Questa dozzina di secondi persi dal campione del mondo contro il tempo, sono ripagati dalla felicità dei 25” dati a Vingegaard che ora è a 1’15”. Tour chiuso? Neanche per sogno. E Tadej lo sa…

«Sono contento di come sia andata oggi – ha detto il corridore della UAE Emirates – Ho perso contro il campione del mondo e adesso dovrò guardarlo un po’ più da vicino. Ma ho aggiunto un po’ di distacco su Jonas, Primoz e gli atri ragazzi. Davvero oggi non potevo chiedere di più. Forse ho esagerato un po’ in salita e poi ho sofferto alla fine della salita stessa. Ma è andata bene e… mi sono divertito». Mi sono divertito: solo Pogacar può dire una cosa simile dopo una crono tanto delicata!

Esperto e solido, Primoz Roglic è giunto 3° a 34″ da Remco. Ora è 4° nella generale a 1’36” da Pogacar
Esperto e solido, Primoz Roglic è giunto 3° a 34″ da Remco. Ora è 4° nella generale a 1’36” da Pogacar

Roglic silenzioso

E poi c’è lui, Roglic. Zitto, silenzioso. Non sai mai se scatterà o se si staccherà. Quando Vingegaard e Pogacar sin qui se le sono date, lui ha sempre faticato, al netto del fatto che alla fine dopo il Galibier a Valloire ci è arrivato benone.

Primoz, che aveva il 60×10, ha fatto un’ottima cronometro. Non a caso è il campione olimpico. Nel finale è andato alla pari con Remco. Scelta saggia, la sua, di non strafare all’inizio come gli era successo già altre volte. Ma la crono del Lussari 2023 evidentemente gli ha lasciato un bell’insegnamento e non solo un bel ricordo.

«Ha faticato – ha detto Roglic – ma ho fatto del mio meglio, quindi sono contento della prestazione. Dopo questa crono posso essere ottimista. E’ un bel segnale per me».

Anche Roglic pedala su Specialized e di nuovo Mondini ci ha detto la sua: «E’ ormai chiaro che Roglic dopo il fattaccio del 2020 abbia un approccio meno irruento con le crono: non parte fortissimo. La sua è stata un’ottima gestione. Se andiamo a vedere la stessa del Delfinato dove aveva fatto le prove».

Posizione e materiali ottimi per Vingegaard. D’ora in poi le cose dovrebbero migliorare per lui
Posizione e materiali ottimi per Vingegaard. D’ora in poi le cose dovrebbero migliorare per lui

Vingegaard cova

Infine andiamo a casa del corridore della Visma-Lease a Bike. Tra i “fab four” è quello che è andato più piano. Il che fa anche un certo effetto scriverlo, ma tant’è. 

Eppure Adriano Malori, che ha seguito la crono ai microfoni di Radio Rai 1, come al solito non è stato banale.

«Non mi aspettavo una difesa tanto brillante di Vingegaard. Oggi per me Jonas ha preso l’ultima “sberletta” da Pogacar poi invertirà la rotta». In effetti ha perso esattamente 1” a chilometro dallo sloveno. Se pensiamo a come è arrivato a questo Tour è strabiliante. L’anno scorso a Combloux fece un mega-numero anche perché si dice avesse provato quel percorso una trentina di volte. Stavolta le cose sono andate diversamente per lui».

«Sinceramente sono contento della mia prestazione – ha detto Vingegaard – ho perso 37” da Remco e 25” da Pogacar. Dite che è un successo per lui? Io non credo sia così. Mi aspettavo di perdere di più». 

Sempre il danese, quasi a dare manforte a Malori, ha aggiunto: «L’anno scorso in due tappe gli ho preso 7 minuti e mezzo, quindi vado avanti con il mio piano. E’ già tanto essere qui. Avendo perso un po’ di muscoli a causa dell’incidente il test esplosivo sul San Luca, che temevo di più, sin qui è stata la notizia più bella. Posso dire che la mia forma sta crescendo».

Viviani su Cavendish: «Ero certo che avrebbe vinto, ma ora?»

05.07.2024
7 min
Salva

Viviani praticamente vive nel velodromo di Montichiari, gli altri vanno e vengono. Ganna ad esempio è al Tour of Austria e si unirà la prossima settimana. E proprio durante questo ritiro quasi monastico, che ricorda tanto quello con cui Cavendish ha preparato il Tour in Grecia, Elia ha seguito in televisione la vittoria numero 35 di Mark al Tour de France. A lui va dato atto di averlo sempre pensato, di averci creduto sin da quando il britannico annunciò che ci avrebbe riprovato. E ora che il record è caduto, parlarne con il veronese è un viaggio illuminante nel ciclismo dei velocisti e forse del ciclismo assoluto.

Cosa hai pensato vedendo quella volata?

Si vedeva che “Cav” era indemoniato, come si muoveva. Non mollava un centimetro, sin dallo scontro con Gaviria. Poi sono le classiche cose, possono andare bene o male, però aveva capito che ieri potesse essere il giorno. Se l’è costruita da solo, non si può neanche dire che l’abbiano portato là. Ovviamente l’hanno sostenuto prima, ma nell’ultimo chilometro ha fatto tutto da solo, dal passare a destra, poi a trovarsi il buco a sinistra e a uscire fuori.

Da cosa un velocista capisce che è il giorno?

Le gambe devono sostenerti, però quando rivedi la volata, magari dall’alto, capisci come si muove e vedi che gli è andato tutto bene. Se guardate, quando è partito Ackermann, lui era ancora coperto, uno a destra e uno a sinistra. Era in una bolla, quasi neanche pedalava. Invece appena gli si è aperta la porta, ha preso la testa e ho detto subito: «Vince Cav!». Philipsen è partito troppo tardi, ma forse non sarebbe nemmeno bastato. Mark aveva grandi gambe.

Dei velocisti arrivati a Valloire dopo il Galibier era quello meno brutto in faccia…

Se uno avesse dovuto giudicare come ha cominciato il Tour, probabilmente avrebbe pensato che si sarebbe fermato prima, ma gestire quei momenti è un fatto di esperienza. I punti di vantaggio di un vecchio. Il giovane probabilmente, se passa una giornata così, va in paranoia. Comincia a pensare che non ha le gambe o che non avrebbe il tempo per recuperare. Invece, uno come “Cav” di fatiche così in carriera ne ha fatte tantissime e non si è fatto prendere dalla paura. Il primo giorno vomitava in bici, quindi sicuramente è arrivato vuoto al traguardo. Però aveva una cosa in testa. La prima volata non è andata bene, ma la seconda l’ha vinta. Aveva un grande obiettivo ed è andato oltre quel giorno di difficoltà. Ho sempre detto che ce l’avrebbe fatta e va dato merito all’Astana di averci creduto al 100 per cento. Non è facile trovare una squadra che creda così tanto nel suo velocista.

La volata di Cavendish a Saint Vulbas è stata un concentrato di potenza e destrezza
La volata di Cavendish a Saint Vulbas è stata un concentrato di potenza e destrezza
E la squadra fa la differenza…

Il velocista deve avere le caratteristiche per vincere, ma il 70 per cento lo fa la squadra che crede in te e nel progetto, l’ho provato sulla mia pelle. Il primo giorno si sono presi la responsabilità di far staccare cinque corridori, da pensare che fossero pazzi. Hanno sacrificato Gazzoli, che si è fermato perché stava poco bene, ma forse è andato fuori giri per provare ad aiutarlo. E alla fine hanno avuto ragione loro, anche per il tipo di investimento che hanno fatto. Gli hanno preso Morkov, hanno preso Bol che in carriera è andato vicino a vincere tappe al Tour e l’hanno portato per tirargli le volate. Quindi secondo me il Progetto 35 è partito e l’Astana ci ha creduto fino in fondo e di questo bisogna dargli merito.

Si è sempre detto che il velocista che lascia la Quick Step non vince più, Cavendish c’è riuscito.

Secondo me alla fine è questione di crederci fino in fondo. Alla Quick Step i velocisti vincono perché la squadra che li prende ci crede fino in fondo. Il fatto di costruire e avere pazienza di lavorare su ogni minimo dettaglio. Cav è riuscito a far arrivare quello che secondo lui era importante. Morkov, Bol e Ballerini. Persino il preparatore che ha portato via da là. Di Vasilis Anatopoulos parlano tutti come di un numero uno, Cavendish lo ha capito ed è riuscito a fargli avere un ruolo importante in Astana. Hanno lavorato sui dettagli, sulla bici, sulle borracce e anche sul body.

Dopo la prima tappa, Cavendish era svuotato, ma ha saputo tenere duro
Dopo la prima tappa, Cavendish era svuotato, ma ha saputo tenere duro
Che body aveva?

Un body simile a uno da crono, ci hanno messo lo stesso tipo di precisione che vedo con Pippo (Ganna, ndr) nelle crono. E questo significa investire e credere tutti nel progetto. Probabilmente come avversario Cavendish è uno dei più grandi… figli di buona donna, però quando è tuo compagno di squadra sa farsi voler bene. Lo vedete da tutti gli abbracci e i messaggi che gli sono arrivati dopo la vittoria.

Quale qualità viene meno al velocista col passare degli anni?

Non credo l’esplosività, nonostante se ne parli. Vedo su di me che i valori di picco sono gli stessi di quando ero più giovane. Certo, bisogna allenarsi in modo diverso. La questione semmai è che da giovane ti buttavi di più, adesso invece ci pensi. Però a vedere Cav a Saint Vulbas, viene da dire che fosse sempre lo stesso. Magari da giovane ti butti in ogni gara, adesso un po’ meno. L’anno sorso è stato un anno così e così, ma ha vinto la tappa di Roma. Quest’anno non ha vinto allo Svizzera, ha vinto in gare minori. Poi però è arrivato al Tour e ha vinto la tappa, perché il gioco vale la candela. Bisogna vedere cosa succede adesso.

Tra Cavendish e Viviani duelli al colpo di reni, a favore dell’uno e dell’altro. Su strada e su pista
Tra Cavendish e Viviani duelli al colpo di reni, a favore dell’uno e dell’altro. Su strada e su pista
Che cosa potrebbe succedere?

Vedremo nelle prossime volate se vuole portare l’asticella più alto oppure se gli cala la pressione dopo aver fatto 35. Tolto questo discorso del record, potrebbe scendere la tensione, potrebbe ragionare di più e allora perderebbe l’attimo. Però in termini di potenza, l’età non crea grossi problemi. Sto vedendo su me stesso che i valori su cui lavoro sono quelli di sempre, non sono 100 watt di meno.

Forse dopo una certa età, la vera differenza la fai con la voglia di fare la vita da corridore?

Si capisce che la sua attenzione fosse tutta sul Tour. L’ho osservato. Al Turchia non ha fatto una sola volata, perché era una tappa di passaggio: si vede che con il suo preparatore e con la squadra avevano deciso di andare là e non fare le volate. Buttavano in mischia Siritsa, invece Mark è andato là per fare una settimana di lavoro. Poi è arrivato all’Ungheria e si vedeva che provavano i meccanismi del treno. Una volta non è andato bene, la seconda è stato perfetto. Morkov lo ha lasciato nel punto giusto e Mark ha vinto la tappa. E’ partito in testa con Groenewegen a ruota, ma non è stato rimontato. Vedevi come, mattone dopo mattone, costruivano questo record.

Ballerini fa parte del treno di Cavendish: l’Astana ha creduto nel progetto al 100%
Ballerini fa parte del treno di Cavendish: l’Astana ha creduto nel progetto al 100%
Nel tuo rincorrere un’altra medaglia olimpica nell’omnium, rivedi un po’ il lavoro di Cavendish per quota 35?

Sicuramente sì. Andando avanti in questo ciclismo moderno, devi avere dei grandi obiettivi in testa e lavorare al 200 per cento per quelli. Questo ti aiuta in tutto e per tutto a fare sacrifici, per cui un po’ riesco a immedesimarmi nel lavoro fatto da Mark per arrivare a vincere al Tour. Sono mesi che sto lavorando in direzione del mio omnium e non è facile, perché devi andare alle corse pensando che ti serva qualcos’altro. Quindi non raccogliendo risultati, cosa non facile. Però se hai bene e chiaro in testa quello che va fatto, allora riesci a fare quello che serve.

Cavendish ha 4 anni più di te, dopo le Olimpiadi ti vedi fare due anni a rimboccarti le maniche su strada per ottenere ancora qualche grande risultato?

Sì, perché Mark ha dimostrato che si può fare, come l’ha fatto Valverde, come l’ha fatto Nibali negli ultimi anni. E’ ovvio che per farlo serve un progetto, perché andare e buttarsi nella mischia non funziona. Per fare due anni su strada e tornare a raccogliere, servono degli obiettivi. Alla fine mi piacerebbe tornare al Giro per vincere una tappa e avere un obiettivo da raggiungere. Ma a tutto questo inizieremo a pensare la sera dopo l’ultima gara di Parigi, per adesso ho anche io il mio progetto e si farà su pista.

Pogacar-Evenepoel: domani sarà un braccio di ferro

04.07.2024
6 min
Salva

«Se Pogacar è Pogacar – dice Ganna dal Tour of Austria – cioè quello del Giro, è duro batterlo a crono. Cioè, non riesci. Prendergli la maglia è dura. Poi si sa, Remco è un fenomeno, quindi… La mia sensazione? Sarà una bella lotta tra titani. Anzi, titani poco, perché non sono così grossi. Però vanno entrambi forte. E anche Vingegaard mi sembra che si sia lamentato tanto che non stava bene, però mi pare che anche lui vada abbastanza forte».

Iniziamo da qui, dall’ultima battuta della sera in uno scambio di messaggi, per entrare nel clima del Tour, fra la tappa vinta da Groenewegen e la crono di domani. A Dijon vince il velocista del Team Jayco-AlUla contro un Philipsen un po’ spuntato che fa secondo, ma viene declassato per aver chiuso la porta in faccia a Van Aert. Invece Pogacar, tagliato il traguardo, sale subito sulla sua nuova bicicletta da cronometro.

Anche oggi Pogacar ha pedalato con la bici da crono sui rulli (foto Fizza/UAE Emirates)
Anche oggi Pogacar ha pedalato con la bici da crono sui rulli (foto Fizza/UAE Emirates)

Non solo aerodinamica

La tappa lo ha visto sudare freddo solo una volta, quando la Visma-Lease Bike ha aperto un ventaglio e Tadej si è ritrovato in testa da solo, senza neppure un compagno. Parleranno anche di questo, c’è da scommetterci. Ma domani è il grande giorno e, come ormai da qualche tappa, mantenere la confidenza con la sua Colnago è il modo migliore per arrivare come si deve alla partenza da Nuits Saint Georges. La crono che ci concluderà a Gevrey-Chambertin misura 25,3 chilometri con 300 metri di dislivello. Per perdere la maglia per mano di Evenepoel, Pogacar dovrebbe concedergli 2 secondi a chilometro. In gruppo non si parla di altro.

«Oggi è stata la conferma – dice – che non puoi mai rilassarti nelle tappe del Tour de France, qualunque sia l’altimetria. Quando c’è un po’ di vento di traverso, anche se non è abbastanza per fare danni, ci sono dei problemi. E’ stata una giornata piuttosto stressante, ma alla fine sono felice che la tappa non sia stata troppo lunga e che l’abbiamo portata a termine rapidamente. Ogni giorno è un test e domani ci sarà la cronometro. Sono andato a vederla già molto tempo fa e il percorso mi piace.

«E’ abbastanza veloce, ma devi anche essere molto potente: l’aerodinamica non è tutto. Sarà interessante vedere come andrà domani, anche se penso che il favorito sarà Remco. E’ campione del mondo e ha dimostrato più di una volta di poter battere tutti. Per cui lui vincerà, ma io farò una crono molto solida. Devo guardarmi da lui. Ha l’obiettivo del Tour da dicembre e credo che sia pronto per lottare sino alla fine».

Gli occhiali di Batman

Dylan Groenewegen non vinceva una tappa al Tour dal 2022 e allora parve una resurrezione dopo il dramma del Polonia 2020 con la caduta di Jakobsen e tutto quello che ne era derivato. Il campione olandese però ha saputo ricostruirsi la necessaria calma interiore e nel raccontare la vittoria, sfodera anche una sottile ironia nel riferimento alla mascherina aerodinamica, su cui in questi giorni si è tanto ironizzato.

«Visto che il nasello dei miei occhiali ha funzionato? Gli sponsor cercano le soluzioni più veloci – sorride – come si è visto nel caso del casco aerodinamico Visma-Lease a Bike. Noi abbiamo scelto di lavorare sugli occhiali da sole e forse questo oggi mi ha aiutato a vincere. Immagino che sarebbe stata anche una bella foto con questa maglia rossa, bianca e blu, ma alla fine eravamo così vicini che non ho potuto esultare. So di avere gambe davvero buone. So di avere una squadra davvero forte, ma ci sono velocisti più forti.

«Ieri Cavendish è stato superiore e oggi Philipsen è stato davvero difficile da battere, ma alla fine ci siamo riusciti e questo è davvero importante. Il livello si è alzato così tanto che vincere una sola tappa è diventato difficilissimo. I treni sono davvero forti e ora finalmente ce l’abbiamo anche noi. Nel WorldTour è così per quasi tutti i team, per questo è difficile fare bene».

Si parla poco di Roglic, campione olimpico della crono: domani recupererà terreno?
Si parla poco di Roglic, campione olimpico della crono: domani recupererà terreno?

L’occhio del cittì

Fino a Valloire nella carovana c’era anche Marco Velo, il commissario tecnico delle crono, in Francia come direttore di corsa con Allocchio per la parte italiana del Tour. Approfittando di questo punto di osservazione, il bresciano ha potuto osservare i favoriti della corsa. E mentre domattina alle 11, assieme agli altri tecnici azzurri, annuncerà al CONI gli azzurri di Parigi, adesso torna con noi sulle strade francesi.

«Secondo me Pogacar tiene la maglia – dice netto – anche perché sta provando a mettere più fieno in cascina. Vingegaard non è lontano e se è capace di gestirsi bene, rischia di diventare pericoloso, anche se non ha la squadra dello scorso anno. Non so se Pogacar possa andare più forte di così e tutti sospettano invece che Jonas possa crescere. Dubito invece che Remco possa dargli 2 secondi a chilometro, anche perché la crono non è piattissima con i suoi 300 metri di dislivello. E non dimentichiamo che a Desenzano, nella seconda crono del Giro che era lunga 31 chilometri, fino a 10 chilometri dall’arrivo Tadej aveva lo stesso tempo di Ganna. Secondo me arrivano vicini e Pogacar potrebbe addirittura provare a vincere la tappa.

«Non parliamo ovviamente del valore del Remco specialista – aggiunge – quella è un’altra cosa. Difficilmente faccio riferimento alle crono in un Grande Giro, anche se questa comunque si corre quasi all’inizio. Nei Grandi Giri conto quanto sei fresco, quanto hai speso nei giorni prima, per cui secondo me non sarà una prova così veritiera. Però, come dico sempre io, fa curriculum lo stesso. Invece credo che Vingegaard un po’ perderà terreno. Ero davanti con la macchina, l’ho visto scollinare dal Galibier con poco meno di 10 secondi e finché c’erano i tornanti, non ha perso molto. Quando però la discesa verso Valloire è diventata da spingere, allora ha pagato. Lo vedo ancora un attimino in sofferenza, però siamo ci sono ancora due settimane abbondanti e 15 giorni e nell’economia di un Grande Giro sono tanti».

E se la crono la vincesse Van Aert, oggi danneggiato allo sprint? Il belga migliora, al pari di capitan Vingegaard
E se la crono la vincesse Van Aert, oggi danneggiato allo sprint? Il belga migliora, al pari di capitan Vingegaard

La crono di Bettiol

E allora, visto che c’è lui, gli facciamo una battuta prima su Bettiol, possibile secondo cronoman azzurro a Parigi (anche se le convocazioni avverranno appunto domattina). E poi su quello che è successo proprio sul Galibier davanti ai suoi occhi. Con Ayuso che magari domani farà anche una grande crono, avendo vinto quella della Tirreno e rinunciando a stento alle sue chance di classifica. C’eravamo al Giro d’Italia quando Velo, campione italiano di specialità ma gregario di Pantani, fece una grande crono e Pantani a tavola gli fece i complimenti, augurandogli che dal giorno dopo avesse ancora le gambe per tirare.

«Vabbè – sorride – dopo però mi sono rifatto e alla fine c’ero per fare il mio lavoro. Ero giovane ed è giovane anche Ayuso. Invece con Bettiol ho parlato, ma senza mettergli pressione. Da una parte spero che faccia la crono con la testa e con la convinzione di provare uno sforzo che poi gli servirà in caso di convocazione su Parigi. Ma c’è davanti un Tour e magari la farà tranquillo, puntando ad altri traguardi. E lo capirei ugualmente».