Dopo un passato da pro’ che l’ha visto vincere una tappa al Tour of China nel 2016, da diversi anni Mattia De Marchi ha deciso di dedicarsi a tempo pieno al gravel. Una scelta che l’ha portato a vincere la scorsa edizione della famosissima corsa spagnola The Traka, e che quest’anno l’ha fatto volare in Kansas per partecipare al più importante evento gravel al mondo, l’Unbound 200.
Alla fine di una gara tiratissima contro alcuni mostri sacri della disciplina (in apertura, foto Roszko), Mattia è arrivato 5°, a cinque secondi dal podio. Il migliore degli italiani (nel gruppo dei nostri c’era un debuttante d’eccezione: Daniel Oss). Ci ha raccontato com’è andata.
Mattia, cominciamo dall’inizio. Com’è andato il tuo avvicinamento all’Unbound 2024?
Rispetto alle passate tre edizioni anni abbiamo deciso di arrivare molto più all’ultimo, senza viaggiare troppo presto, perché diciamo che l’America non è un posto facile dove allenarsi. L’anno scorso abbiamo passato lì tre settimane prima della gara e alla fine sono arrivato alla partenza che ero già finito. Perché quando sei lì non riesci ad allenarti con i tuoi soliti ritmi, seguendo l’alimentazione alla quale sei abituato, nel tuo ambiente familiare. Quindi questa volta siamo arrivati quattro giorni prima, che andava benissimo anche considerando il fuso orario, visto che la gara parte la mattina molto presto.
Prima di cominciare, si fa la spesa da Walmart, affinché ci sia tutto (foto Instagram/Chiara Redaschi)Emporia accoglie la Unbound come ogni anno, questa volta Mattia ha ritardato l’arrivo (foto Instagram/Samisauri)Prima di partire, De Marchi con tutti gli integratori sul pavimento (foto Instagram)Poi si comincia a riempire le borracce secondo una logica (foto Instagram)
E’ stato utile?
Questa freschezza mentale mi è servita moltissimo. Arrivavo da un momento di stress dopo aver rotto il cambio alla fine della The Traka e non aver portato a casa niente. Un evento come l’Unbound è imprevedibile, ti giochi tutto in un giorno solo, possono succedere mille cose. In più quest’anno c’erano almeno 30 corridori che potevano vincere. L’importante è gestirsi a livello mentale. Infatti nella prima metà di corsa avevo più paura di forare che di staccarmi dal gruppo principale.
Questo però significa che stavi molto bene fisicamente
Devo dire di sì. Mi avevano detto che il percorso sarebbe stato più duro di quello dell’anno scorso, ma io non l’ho trovato così più difficile. Il dislivello totale era maggiore, ma le salite sono comunque molto corte e quindi in realtà non riesci a fare troppa differenza. Poi quest’anno c’è stato anche un po’ controllo e dopo 150 km davanti eravamo ancora in 50, rispetto ai 15-20 delle passate edizioni, questo anche per il livello più alto in generale. Infatti è uscita una gara molto tattica, in cui tutti i favoriti si controllavano.
La sfida misura 200 miglia, ritirato il numero di gara (foto Instagram/Chiara Redaschi)Il gruppo è inizialmente compatto, l’elicottero fa le riprese, ma non c’è diretta (foto Instagram/Chiara Redaschi)Borracce e gel: trovarli a bordo strada è manna dal cielo (foto Instagram/Chiara Redaschi)Coca Cola, gellini, caramelle, carboidrati, acqua: si butta dentro quell che entra (foto Instagram/Chiara Redaschi)Contrariamente alle sue abitudini, quest’anno De Marchi ha fatto una corsa di attesa (foto Instagram/Chiara Redaschi)La sfida misura 200 miglia, ritirato il numero di gara (foto Instagram/Chiara Redaschi)Il gruppo è inizialmente compatto, l’elicottero fa le riprese, ma non c’è diretta (foto Instagram/Chiara Redaschi)Borracce e gel: trovarli a bordo strada è manna dal cielo (foto Instagram/Chiara Redaschi)Coca Cola, gellini, caramelle, carboidrati, acqua: si butta dentro quell che entra (foto Instagram/Chiara Redaschi)Contrariamente alle sue abitudini, quest’anno De Marchi ha fatto una corsa di attesa (foto Instagram/Chiara Redaschi)
Tutti tranne un paio…
Lachlan Morton infatti ha corso senza pensare agli altri, a suo modo, seguendo la sua idea, e lo stesso ha fatto Chad Haga. Io invece per una volta – anche d’accordo con i preparatori – ho deciso di rischiare e stare più a ruota possibile. Poi forse se anche li avessi seguiti, gli altri non mi avrebbero lasciato spazio, perché ormai sono abbastanza conosciuto anche in America. Quindi ho deciso di rischiare, cercando di giocarmi il mio jolly più avanti possibile, anche perché in un percorso molto veloce in cui serve tanta forza io con con i miei 60 kg partivo svantaggiato. Quando in effetti me Io sono giocato, a 80 km dall’arrivo, mi sono reso conto che stavo ancora bene.
Raccontaci un po’ meglio di questo jolly
A 80 km dalla fine c’era l’ultima feed zone, che ormai sono diventate come la Formula Uno. Una volta ci si rilassava, si respirava anche un po’, adesso se ti fermi più di 20 secondi rischi di rimanere indietro e buttare via la gara. Un po’ di esperienza gli anni scorsi l’avevo fatta e appena mi sono accorto che un gruppetto di corridori forti è ripartito prima di me, ho colto l’attimo e ho cercato subito di rientrare da solo. Perché sapevo che quella era un’ottima occasione di entrare in una fuga di qualità, dove è anche più facile andare d’accordo rispetto che in un gruppo con tanti corridori. Sono rientrato senza fare neanche troppa fatica e siamo andati avanti in 6-7 così per un po’, poi anche noi abbiamo iniziato a guardarci e quelli dietro ci hanno raggiunti. Lì mi sono detto che avrei dovuto inventarmi qualcosa.
La grande fatica è finita, per un po’ meglio restare seduti a ricordare (foto Instagram/Roszko)Vanno bene i guanti, ma gli scossoni hanno messo le mani a dura prova (foto Instagram/Roszko)La grande fatica è finita, per un po’ meglio restare seduti a ricordare (foto Instagram/Roszko)Vanno bene i guanti, ma gli scossoni hanno messo le mani a dura prova (foto Instagram/Roszko)
E cosa hai fatto?
Ho attaccato una prima volta, ma nessuno mi ha seguito, allora mi sono fermato. Poi ho approfittato di un momento di indecisione e mi sono avvantaggiato con Stetina, assieme ad altri due ragazzi. Siamo stati per un bel po’ di chilometri con solo una decina di secondi di vantaggio sugli altri, ma è in quei momenti lì che devi tenere duro, perché poi basta poco per fare la differenza. Infatti col passare del tempo abbiamo preso un bel vantaggio. All’improvviso Stetina si è staccato e così abbiamo perso uno che ci dava una grossa mano. A quel punto ce l’abbiamo messa tutta per ricucire il distacco che avevamo su Morton e Haga, circa 1’30’’. Ma in quei momenti più vai avanti nella gara più è difficile rientrare, soprattutto quando ti trovi davanti gente come loro due, due regolaristi che possono andare avanti all’infinito. Ormai non avevo molta scelta e dovevo cercare di arrivare al traguardo in meno possibile, ma ai -30 km sono rientrati su di noi 5-6 corridori tra cui Van Avermaet, e la corsa è ricambiata di nuovo. Ci siamo resi conto che i primi due erano andati e quindi sono saltati tutti i possibili accordi.
E qui hai deciso di giocarti il secondo jolly di giornata?
Esatto, ho dovuto inventarmi qualcosa per portare almeno a casa un bel risultato e a 10 km dalla fine ho attaccato ancora. Siamo andati via in tre, poi io a quel punto a dire la verità ero abbastanza stanco, con gli altri due molto forti in pianura e sono riuscito ad arrivare giusto alla fine, dove ho fatto 5°. E’ il mio miglior risultato all’Unbound, dopo il 13° del 2022 e le difficoltà dovute al terreno dell’anno scorso. Quindi devo dire che per me, anche se non ho vinto o centrato il podio, è stata comunque davvero un’ottima giornata.
Per gli atleti di Enough Cycling la bicicletta è abbastanza per essere felici. Mattia De Marchi ci porta nel racconto del progetto e della situazione del gravel in Italia e all'estero
Per la partecipazione alla Waffle Belgian Ride, Cattaneo ed Evenepoel hanno portato in gara la nuova Specialized Crux. Bici leggerissima, nata per correre
EMPORIA (USA) – Il fatto è che avrei così tante robe da dire… Di solito mi trovo anche ispirato, perché mi piace quando mi emoziono. Però in questo caso, ho talmente tante cose da scrivere che non so da dove partire e come incastrarlo. Perché il gravel è un altro mondo. Mi piacerebbe dire da dove arrivo, ma sarebbe un preambolo che esula dalla gara. E poi sulla gara in sé, sulla Unbound Gravel, rischio di dire cose che magari per me sono scontate e magari non vanno direttamente al punto. E finisce che si sparpagliano in un vomito di parole un po’ confuse…
Nel nord del Kansas si è pedalato su strappi brevi e lunghe pianure (foto UnboundGravel)Nel nord del Kansas si è pedalato su strappi brevi e lunghe pianure (foto UnboundGravel)
Un pallino americano
Dell’Unbound avevo sempre solo sentito parlare. E’ la più grande gara gravel d’America e forse del mondo. Avevo letto tanti articoli, racconti di ex professionisti che l’avevano provata. Ma anche tanti amici che l’hanno fatta come amatori, soltanto per una challenge, come la chiamano in America.
Una sfida contro se stessi e contro un percorso per nulla scontato. Mettersi alla prova sulla distanza classica di 200 miglia, se non sei allenato e non hai dimestichezza con il ciclismo, è una cosa tanto grande. Ma anche fare solo le 50 o 100 miglia è tanta roba. Ecco, insomma, ne avevo solo sentito parlare.
Perciò, da quando abbiamo voluto il progetto Gravel, nella mia testa l’Unbound è sempre stata un pallino. E’ tutto molto grande, americano: tutto molto «Wow!». Tanti ne decantano la grandezza e la maestosità.
Oss si era spostato negli Usa una decina di giorni prima della Unbound, per prendere il fuso e abituarsi agli orariOss si era spostato negli Usa una decina di giorni prima della Unbound, per prendere il fuso e abituarsi agli orari
Un giorno da eroi
Prevale l’eroismo nel fare questa cosa pazzesca. E oltre a questo, ovviamente, gli sponsor come Specialized ne hanno capito il valore e devono assolutamente esserci. Anche se loro vogliono primeggiare, essere davanti, essere presenti e protagonisti nel panorama gravel americano. E con questa Unbound si va dritti al cuore del discorso. Con questa mega gara popolare, magari ancora poco famosa, poco connessa da un punto di vista mediatico. Non c’è una diretta tv, ci sono quelle Instagram, forse su YouTube. Forse degli highlights vanno in televisione, ma su canali secondari.
In Europa, zero. Quasi non se ne sente parlare, se non perché quest’anno ha vinto Lachlan Morton. Ma tolti alcuni media specializzati, è un evento che di qua quasi non esiste. Però, fatto questo preambolo, davanti a un evento così grande che poi è sfociato in una gara, tra i racconti e quello che ho sempre sentito e quello che gli sponsor e la squadra mi chiedevano, un racconto ve l’ho promesso e vorrei farlo. Per cui, eccoci qua…
Nella prima metà di gara il gruppo è rimasto compatto, ma dopo le 140 miglia è iniziato lo sparpaglìo (foto UnboundGravel)Nella prima metà di gara il gruppo è rimasto compatto, ma dopo le 140 miglia è iniziato lo sparpaglìo (foto UnboundGravel)
Cambio di pelle
Le aspettative erano buone e si sono confermate, non voglio dire il contrario. Ma quello che mi ha stupito molto è il fatto che il livello sia completamente cambiato. Vi faccio un esempio, magari dico cose a caso che in un articolo non vanno bene, ma serve per capire. Un anno fa, quando si parlava di gravel e di UCI Gravel Series piuttosto che altre tipologie di gara, si era capito che il settore fosse in crescita. Però c’era ancora un modo di correre piuttosto blando, per cui si riusciva a fare le gare anche in maniera un po’ goliardica. Si stava insieme, non c’era la necessità di riprendere in mano tutto il mondo degli allenamenti o dei rifornimenti e come farli.
Non era una dimensione troppo seriosa. Era un po’ a tarallucci e vino, tipo nozze coi fichi secchi. E poi alla fine chi stava bene faceva la sua volata o andava in fuga. Però la gara era basata ancora sull’avventura, sul partecipare e concludere un’impresa. Il fatto che ora il movimento sia cresciuto così tanto, rende tutto molto più professionistico. Quindi in questa Unbound mi sono trovato davanti a squadre organizzate, con atleti super allenati ed esperti, tecnicità da tutti i punti di vista. Ho visto anche dei body con un camelback integrato, molto fuori dalla logica gravel. Ho visto tanta aerodinamica, che sta diventando importante anche in questo settore.
Vincitore della Unbound 200 miglia è stato Lachlan Morton. Secondo Chad Haga a un solo secondo (foto UnboundGravel)Vincitore della Unbound 200 miglia è stato Lachlan Morton. Secondo Chad Haga a un solo secondo (foto UnboundGravel)
La più veloce della storia
Fate conto che quest’anno, l’Unbound 2024 è stata la gara più veloce nella storia… dell’Unbound. Si corre dal 2006 e nei primi anni non c’era così tanta importanza per l’agonismo. I racconti dei miei ex colleghi professionisti erano tutti simili. Cioè ci si allenava 15 ore, si andava all’Unbound di 200 miglia, quindi 320 chilometri. E un atleta medio del WorldTour la faceva… fumandosi una sigaretta. Per dire che era abbastanza semplice. Riuscivi a vincere, riuscivi a farti la volata, aspettavi chi era meno allenato.
Invece quest’anno, le prime ore le abbiamo fatte a 40 e passa di media, tutti in gruppo. E poi un po’ alla volta c’è stata la scrematura. Ma chi ha vinto la gara, alla fine aveva 36 di media. Io ho finito 43° circa, a quasi 40 minuti da Morton e a quasi 33 di media. Quindi è abbastanza folle pensare a quanto tutto sia cresciuto in modo esponenziale da un anno all’altro.
Il percorso era asciutto, non c’erano tratti di fango. Siamo andati verso nord rispetto al solito, quindi era un percorso un po’ più duro. C’erano 3.500 metri di dislivello, pazzesco, è stata durissima. E non è che ci fosse una salita da 1.000 metri di dislivello, erano tutti strappi da un chilometro, 500 metri, 300 metri… Tutto così e quindi difficile per me.
Anche la gara delle donne ha battuto ogni record della Unbound. Vince la danese Rosa Kloser in 10.26’02” (foto UnboundGravel)Anche la gara delle donne ha battuto ogni record della Unbound. Vince la danese Rosa Kloser in 10.26’02” (foto UnboundGravel)
Sveglia alle 3,30
Per cui, riepilogando, Unbound Gravel: 200 miglia – 326 chilometri – sterrata per il 98 per cento. C’erano solo due/tre piccole connessioni di asfalto, ma veramente irrisorie. Partenza all’alba, alle 5,50 del mattino gli elite e poi nell’arco di 20 minuti partono tutti, quasi attaccati, suddivisi per scaglioni di categoria. Alzarmi alle 3,30 per fare colazione è stata dura, anche se nei giorni di avvicinamento avevo cercato di tenere orari vicini a quello.
Al mattino c’era pochissima luce. Non era tanto freddo, quindi tutti in maniche corte e braghe corte. Tutti attrezzati con camelbak o borracce da litro e in tasca almeno un paio di penne, si chiamano così gli attrezzi per aggiustare i tubeless con i vermicelli. Se hai un buco nel tubeless, ci ficchi dentro questa penna. Tiri indietro e ti resta il vermicello fatto di gomma un po’ appiccicaticcia. Così riesci a tappare il buco e poi a rigonfiare la ruota.
Tranne pochi raccordi in asfalto, il fondo della Unbound è tutto sterrato (foto UnboundGravel)Tranne pochi raccordi in asfalto, il fondo della Unbound è tutto sterrato (foto UnboundGravel)
Persi nel deserto
C’era da portare l’attrezzatura da sopravvivenza, perché a un certo punto ti trovi veramente nel nulla. Per oltre 50 miglia, dovunque guardi, non c’è niente. Chiaramente è facile raggiungere qualsiasi punto con la macchina, però tu sei in mezzo al niente e quindi se vuoi sopravvivere devi anche arrangiarti. Non è ovviamente il deserto del Sahara, però quasi…
Il regolamento dice che il percorso non deve essere segnato, per cui io avevo la traccia sul Garmin e gli altri sui loro dispositivi. Bisogna portare il telefono, perché in casi di emergenza estrema, bisogna averlo per collegarsi con qualcuno, ammesso che ci sia campo, perché non è scontato che ci sia. E’ capitato di trovarsi in mezzo al niente senza campo, senza rete.
Anche solo finire la Unbound significa aver vinto la sfida con se stessi (foto UnboundGravel)Anche solo finire la Unbound significa aver vinto la sfida con se stessi (foto UnboundGravel)
Nove ore e 10.000 calorie
Le luci non le aveva nessuno, però bisognava organizzare i rifornimenti. Nessuno può avere un supporto sul percorso, se non in due punti prestabiliti. Infatti dopo 70 e dopo 140 miglia ci sono due rifornimenti. Un parcheggio gigante, spesso in un villaggio, con le tende dei vari sponsor e delle squadre. Ti puoi fermare o prendere al volo la sacca con 2 litri d’acqua e il cibo e le borracce. E davvero c’è stata da valutare anche la parte approvvigionamenti.
Io ho mangiato circa 12 gel. Sei borracce di acqua con 70 grammi di carbo che erano in bustina e ovviamente pieni di sali minerali, potassio, magnesio e tutto il resto. Sui cinque litri d’acqua. E ho contato nel finale circa diecimila calorie consumate. Ho fatto circa 9 ore 47’27” su 325 chilometri. Tanta roba, tantissima.
La maglia iridata non tradisce: al via c’era anche Matej Mohoric, che però si è fermato (foto UnboundGravel)La maglia iridata non tradisce: al via c’era anche Matej Mohoric, che però si è fermato (foto UnboundGravel)
Più di una Sanremo
Non ho mai fatto una distanza del genere, intesa anche come timing. La Sanremo si avvicina, ma ormai si fa in meno di 6 ore. Quindi una distanza che non era mai stata fatta dalle mie gambette. E’ stata molto veloce all’inizio. Ci sono stati un paio di punti dove era particolarmente roccioso, quindi c’erano delle discese pericolose. Salti, fossi, delle pozzanghere, però con un fango abbastanza neutro, che non si attaccava tanto alla bici. Ci sono state cadute e anche forature.
Poi dalla seconda metà della gara, sui 100-140 km all’arrivo, il gruppo si è proprio spappolatonel tratto dove c’erano parecchie salite. Ognuno ha preso il suo posto ed è diventata una lotta con se stessi. Una lotta contro la fatica, per cercare di andare avanti il più possibile e gestire l’alimentazione.
Il primo italiano sul traguardo della Undbound 200 miglia è stato Mattia De Marchi: 5° a 3’41” (foto UnboundGravel)Il friulano è un grande conoscitore di queste prove estreme ed era negli USA per provare il colpaccio (foto UnboundGravel)Sfinito dopo il traguardo, De Marchi ha pagato un guasto meccanico. Avrebbe potuto vincere? (foto UnboundGravel)Il primo italiano sul traguardo della Undbound 200 miglia è stato Mattia De Marchi: 5° a 3’41” (foto UnboundGravel)Il friulano è un grande conoscitore di queste prove estreme ed era negli USA per provare il colpaccio (foto UnboundGravel)Sfinito dopo il traguardo, De Marchi ha pagato un guasto meccanico. Avrebbe potuto vincere? (foto UnboundGravel)
Una grande festa
Comunque tutti vogliono finire la corsa, perché quando finisci un’avventura così grande, è comunque molto soddisfacente. Quasi tutti hanno pubblicato che i più leggeri hanno fatto sui 250 watt medi e quelli più pesanti come me, sugli 80 chili, che hanno fatto 300 watt per quasi dieci ore. Il livello è altissimo e fa paura. Alla fine, all’arrivo, c’erano degli stand giganti, era tutto un barbecue, tutto un tacos. Quindi cucina messicana, americana, pasta all’italiana. E dovunque tanti atleti, tutti sfiniti, tutti sfatti, però un bel clima di… yeah!
Ho percepito un clima molto agonistico e un po’ mi dispiace, nel senso che mi sono sempre aspettato un clima più godereccio. Invece mi sono trovato proprio un clima da WorldTour. Da andare a letto presto, mangiare bene, poche distrazioni. Non che si dovesse fare chissà cosa, però mi immaginavo che ci fosse un po’ più una giostra, un ambiente più godereccio. Però è stato tutto molto bello. Lungi da me essere polemico, essere del tutto negativo: anzi, tutt’altro.
Daniel Oss ha concluso la sua prima Unbound Gravel in 43ª posizione, sfinito e feliceDaniel Oss ha concluso la sua prima Unbound Gravel in 43ª posizione, sfinito e felice
Una gara fighissima
E’ stata un’esperienza fantastica sotto tanti punti di vista. La cosa più bella, che forse più mi ha colpito, è il coinvolgimento di tantissima gente che non ha nulla a che fare con la parte racing, ma che è lì per godersi il weekend, la settimana e questa avventura contro se stessi. Mi ricordo in alcuni punti, quando stava per finire la gara, trovavo sul percorso gente che faceva un altro giro e quindi venivano doppiati. E quando li passavo, ci scambiavo qualche battuta.
«Dura, è?». E loro tutti gasati: «Sì, è dura!». Quindi felici di fare una cosa talmente faticosa e questo mi ha colpito tantissimo. La felicità di trovare le forze per fare una cosa più grande di loro.
E comunque è un’organizzazione bellissima, gara fighissima. Tante cose belle, anche gli stand, le grigliate, la gente felice. C’era felicità, c’era voglia di far fatica. C’era tutto questo ambiente mega festoso, ma allo stesso tempo sportivo, quindi alla fine della gara ci stava anche la birretta. Però erano tutti galvanizzati, carichi, felici di essere stati parte di questa cosa che era l’Unbound, davvero una gara fighissima.
La sola volta in cui Lachlan Morton aveva partecipato a un mondiale fu nel 2015 a Richmond, ma neppure in quel caso indossò la maglia della nazionale australiana. Corse infatti la cronosquadre per club con la Jelly Belly p/b Maxxis e si piazzò al 20° posto a 3’42” dalla BMC in cui correvano anche Quinziato e Oss. Lo stesso Daniel Oss che nel giorno del mondiale gravel di Cittadella, ha preso il largo dopo 30 chilometri, conquistando l’argento alle spalle di Vermeersch. Lachlan Morton c’era, questa volta però con la maglia della nazionale australiana, e ha chiuso al 18° posto a 6’29” dal vincitore.
Nel 2022 per Morton, solo 5 corse su strada. Lo scorso anno 19: qui al Tour of the AlpsNel 2022 per Morton, solo 5 corse su strada. Lo scorso anno 19: qui al Tour of the Alps
Tutt’altro che invisibile
Lachlan Morton, corridore della Ef Education-Easy Post, ormai non lo trovi più nei siti di statistiche del ciclismo su strada. Stando a quelli, il suo 2022 è iniziato a febbraio alla Clasica Jaen Paraiso Interior e finito con le quattro tappe del Gran Camino. In realtà, poche settimane dopo, appreso dell’invasione russa in Ucraina, l’australiano ha dato via ad una non stop in cui ha percorso 1.064 chilometri in 42 ore da Monaco a Korczowa-Krakovets, sul confine fra Polonia e Ucraina, raccogliendo oltre 250.000 euro per i rifugiati ucraini.
L’anno precedente, Lachlan aveva creato l’Alt Tour, che lo ha visto percorrere tutte le tappe del Tour de France, oltre ai trasferimenti e senza supporto. Un totale di 5.500 chilometri, l’arrivo a Parigi 5 giorni prima del Tour e soprattutto oltre 700.000 dollari raccolti per il World Bicycle Relief.
«Molte persone – racconta – sono entrate in contatto con me grazie a questo tipo di impresa. La maggior parte delle volte in cui corro su strada, non mi sento come se fossi davvero importante per qualcuno, come se mancasse qualcosa. Forse l’idea del viaggio. Invece trovo eccitante attraversare luoghi in cui non avevo mai pensato di andare e che non rientrano fra le rotte tipiche del ciclismo».
Marzo 2022, sulla via del confine polacco, durante la sua raccolta fondi per i rifugiati ucrainiMarzo 2022, sulla via del confine polacco, durante la sua raccolta fondi per i rifugiati ucraini
Un giorno diverso
Al via di Vicenza, quest’uomo dal grande coraggio e ideali non banali, si è ritrovato in gruppo per dare al gravel un’altra dimensione. Dopo anni di partecipazioni alle gare ultra in America e Spagna, in cui si scalano dislivelli pazzeschi in tempi dilatati, il format della corsa in linea poteva risultare per lui poco affascinante. Invece il giudizio di Lachlan è stato di segno opposto.
«E’ stato sicuramente molto diverso – ha detto – dal mio solito. Ho pensato che i primi 50 chilometri siano stati disegnati insieme molto bene e poi ho pensato che il percorso avrebbe potuto essere migliore per la parte restante. Ma nel complesso, ritengo che sia stato un buon evento. Il livello era davvero alto, uno stile di corsa molto diverso. Penso che questo tipo di terreno si presti a ottime gare, mentre quelle negli Stati Uniti si svolgono solo su grandi strade sterrate».
Durante il mondiale gravel in scia del compagno di nazionale Nathan Haas, altro esperto di gravelDurante il mondiale gravel in scia del compagno di nazionale Nathan Haas, altro esperto di gravel
Il WorldTour e il gravel
Il dubbio sul percorso aveva assalito i puristi della specialità, ma è stata l’UCI stessa a indicare a Pozzato, che ha organizzato il mondiale gravel con la sua PP Sport Events, un limite di dislivello, visto anche l’elevato chilometraggio. Tanto che lo stesso Morton alla fine ha compreso le necessità degli organizzatori e se ne è andato con un sorriso soddisfatto.
«L’inizio della gara – ha confermato – è stato più interessante di qualsiasi altra gara che io abbia fatto negli Stati Uniti. Parlo dal punto di vista del terreno, perché salti dentro e fuori da sentieri e fattorie, ogni genere di cose. Non penso che sia una minaccia per la scena del gravel degli Stati Uniti, è solo qualcosa di diverso. Non c’è niente di male nel venire e provare qualcosa di nuovo e dargli una possibilità.
«Ci sono ovviamente cose che si possono fare meglio, ma era la prima volta. Penso che sia stato spettacolare avere le strade chiuse, la folla incredibile e il terreno davvero interessante e vario. Penso che nel complesso sia stato un successo. Due settimane prima ho partecipato a un evento ultra di cinque giorni, quindi il mondiale mi è parso molto diverso. Ma è stato divertente. E come previsto, i corridori del WorldTour hanno alzato il livello e si sono dimostrati all’altezza».
Il gravel è una categoria che stà cambiando radicalmente la tecnica della bici e anche il modo di vestire. Tornano i tagli morbidi dei capi, sempre più tecnici e casual
24 febbraio. La Gran Camino prende il via quel giorno. Nell’hotel dell’EF Pro Cycling i corridori scendono per la colazione. Lachlan Morton sta parlando con Mark Padun, le solite chiacchiere di prima mattina, tra qualche battuta e buoni propositi. Arrivati nella sala, Lachlan continua distrattamente a parlare con il suo compagno, ma non ottiene risposta. Si volta, lo guarda e vede il suo volto impietrito, rivolto verso la Tv. Non serve parlare spagnolo, le immagini trasmesse non lasciano spazio a interpretazioni diverse da quelle del terrore. In Ucraina, nella patria del suo collega, è scoppiata la guerra, i carri armati russi sono entrati. Le sirene delle varie città emettono quel suono che si sperava ormai dimenticato, rimasto solo nella memoria dei più anziani.
La corsa non è più la stessa. Lachlan, che interpreta queste gare a tappe più per dare una mano ai compagni e preparare le sue avventure solitarie, non guarda mai al cronometro e spesso finisce ultimo. Questa volta ancora di più: quattro giorni dopo il suo distacco finale sarà superiore all’ora e un quarto, ma c’è una ragione. La sua mente non riesce a scacciare quelle immagini, a cui se ne aggiungono altre, ogni sera, ogni volta che si pone davanti alla Tv o meglio, ogni volta che guarda il suo smartphone, perché la sua quotidianità, la nostra è cambiata.
Nel corso della Gran Camino la mente è lontana e matura l’idea di una nuova avventuraNel corso della Gran Camino la mente è lontana e matura l’idea di una nuova avventura
Pedalare per dare una mano
«Non posso stare a guardare – pensa il trentenne australiano – sento che devo fare qualcosa». Ne parla con i suoi dirigenti e col passare dei giorni, con la timeline della guerra che diventa sempre più un bollettino di stermini, di fuga della gente dalle proprie case, di esodo biblico verso l’occidente viene l’idea: raggiungere quei luoghi in bici, fare di una nuova avventura qualcosa che possa non solo essere un simbolo, ma anche qualcosa di utile, una raccolta fondi per aiutare la popolazione in fuga.
Nei giorni successivi, Lachlan si prepara come mai aveva fatto, con una dedizione, una concentrazione straordinaria. D’altronde sa che quello che sta per affrontare è anche diverso da quel che ha sempre fatto: la sua idea è partire da Monaco di Baviera e viaggiare, viaggiare, viaggiare fino a raggiungere il confine fra la Polonia e l’Ucraina, esattamente quella porta che per tanti significa salvezza, fuga dalle bombe e dalla devastazione.
Nella solitudine della Germania, verso un traguardo lontano, per raccogliere fondi per i rifugiati ucrainiNella solitudine della Germania, verso un traguardo lontano, per raccogliere fondi per i rifugiati ucraini
19 marzo. 23 giorni dopo l’invasione. La guerra va avanti: le truppe russe nonostante le uccisioni e le distruzioni non sono riusciti a realizzare quella “guerra lampo” che era stata preventivata. L’Ucraina resiste, incassa. Zelenski, il presidente ex comico che ora ha dipinta sul volto la tragedia del suo popolo, appare in videoconferenza davanti a tutti i parlamenti, in tutte le occasioni possibili per chiedere aiuto. Sono le 5 di mattina. Lachlan attacca gli scarpini, controlla la bici e ripensa ad alcune di quelle parole: «Io non sono un politico, non sono un esperto, non so come andrà a finire. Posso solo fare quel che so fare per aiutare la gente e questo mi darà la benzina per arrivare».
Fa freddo lungo la strada. Lachlan è figlio dei nostri tempi, comunica via social e la sua idea si diffonde presto. Il passa parola funziona e man mano, in ogni città attraversata, trova sostegno, gente che lo incita, chi sale in bici e lo accompagna. Non ha tanto cibo con sé e ogni tanto qualche anima pia gli fornisce qualcosa di caldo. Trova anche chi gli offre l’opportunità di fare una doccia calda: «Stai facendo una cosa bella, ma anche difficile”. “Questo? Non è difficile. Non è niente in confronto a persone che hanno perso tutto, la cui vita è racchiusa in una piccola borsa con quel poco che hanno potuto portare via. Spero che il nostro mondo, chi condivide i valori del ciclismo possa dare una mano».
In tanti hanno accompagnato Morton: su Instagram li ha immortalati, anche con simboli fortiIn tanti hanno accompagnato Morton: su Instagram li ha immortalati, anche con simboli forti
Un fondo in aiuto dei rifugiati
Pedalando, Lachlan controlla continuamente il flusso di denaro che affluisce sul fondo a sostegno della sua impresa e che andrà a favore dei rifugiati. L’obiettivo era raggiungere i 50 mila dollari, ma con i like che aumentano a dismisura, aumenta anche l’ammontare del denaro raccolto, quasi che ogni pedalata porti monete. E allora forza, di notte e di giorno, ora dopo ora, senza fermarsi.
Lachlan lascia la Germania, attraversa quasi d’un soffio la Repubblica Ceka, entra in Polonia e dopo 43 ore senza un minuto di sonno, stanco e infreddolito, arriva a Korczova-Krakovets. E’ notte fonda, alla frontiera però non si ferma il flusso di gente che entra dalla vicina Ucraina. Chi con mezzi di fortuna, chi a piedi, spingendo carrozzine, donne che hanno lasciato i loro uomini a casa a combattere. Lachlan si ferma: è difficile ricacciare indietro le lacrime, soffocare quel dolore fitto che sente nel cuore ormai da troppi giorni.
Il mattino dopo l’arrivo, avvicinato da tanti curiosi, pensando a quel che avviene oltreconfineIl mattino dopo l’arrivo, avvicinato da tanti curiosi, pensando a quel che avviene oltreconfine
«La guerra ci riguarda tutti»
I giornalisti si avvicinano, qualcuno ha saputo della sua impresa. «La mia idea è far capire che la guerra non è un problema lontano per nessuno – afferma – I conflitti sono sempre a portata di bicicletta, in tutto il mondo. Ho parlato con tanta gente in questi due giorni, pedalando abbiamo confrontato le nostre idee. Non ci sono ragioni, idee, giustificazioni per esseri umani che vanno contro altri esseri umani e se con la mia impresa sarò riuscito a farlo capire a qualcuno, avrò già ottenuto qualcosa».
E qualcosa Lachlan Morton lo ha davvero ottenuto: il suo fondo ha superato i 200 mila dollari, ai quali la sua squadra, insieme alla Cannondale e alla Rapha hanno aggiunto altri 100 mila dollari e il fondo è ancora aperto e, a giorni di distanza, continua a funzionare e raccogliere aiuti (chi vuole contribuire può farlo qui). La guerra non si è fermata, la corsa di Lachlan ha raggiunto il suo traguardo, il primo, perché difficilmente, finché la follia continuerà ad aleggiare sulle nostre teste, l’australiano si arrenderà. Proprio come chi difende la sua casa, i suoi valori, la sua vita.
Un nuovo e prestigioso testimonial entra nella grande famiglia fi’zi:k. Il brand italiano si è dichiarato onorato di annunciare un rilevante accordo di collaborazione con una icona del gravel e dell’avventura più in generale: Lachlan Morton. Il corridore americano entra a far parte della famiglia di atleti fi’zi:k, nello specifico Lachlan calzerà e pedalerà con i modelli di scarpe “premium”.
Un’icona del gravel
Condividendo gli stessi obiettivi e la stessa passione e costantemente alla ricerca di comfort e affidabilità mentre si pedala anche sui terreni più impervi, Fi’zi:k e Lachlan Morton si sono dunque trovati per pensare a nuove avventure. Iniziative che, siamo sicuri, rappresenteranno una vera e propria fonte d’ispirazione per tantissimi ciclisti, e non solo per i fan di del brand…
Morton, di origine australiana, è da oramai un decennio una figura ben conosciuta agli appassionati di ciclismo. Una delle sue recenti imprese lo ha visto scalare il dislivello del Monte Everest (8.848 metri) in 7 ore, 29 minuti e 57 secondi. Mentre la più nota gli ha fatto percorrere in solitaria l’intero Tour de France con lo scopo di raccogliere fondi per il World Bicycle Relief.
Il “feeling” di fi’zi:k
Forte di un ricco programma di iniziative, in parte in via di sviluppo, fi’zi:k è entusiasta di poter far crescere questa partnership con Lachlan Morton. E conoscendo bene quello che è il “feeling” dell’azienda… sarà un successo!
Fi’zi:k Artica X5 modello di scarpa pensato per l’inverno Fi’zi:k Artica X5 modello di scarpa pensato per l’inverno
L’estrema passione per il design e la maniacale attenzione al raggiungimento delle massime prestazioni, ha indotto fi’zi:k a sviluppare collezioni strada, fuoristrada e triathlon vincenti, scelte da sin dall’inizio da alcuni degli atleti più competitivi in circolazione.
fi’zi:k è da sempre impegnata a fornire il massimo per quanto riguarda la produzione di selle, scarpe e nastri manubrio, combinando comfort e leggerezza con tecnologia e innovazione. Attraverso la ricerca fisiologica, gli studi anatomici e uno sviluppo tecnologico avanzato, Il marchio di Pozzoleone continua a rappresentare un vero e proprio punto di riferimento tra gli appassionati.
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Lachlan Morton ce l’ha fatta. L’australiano della EF Procyling è arrivato a Parigi con cinque giorni di vantaggio sul Tour de France. Un viaggio sensazionale, ricco di emozioni e di fatica. Di ricordi e di “fotografie” particolari che resteranno nella mente di Morton.
Il suo “The Alt Tour” (Tour Alternativo), lo ricordiamo, consisteva nel percorrere l’intera Grande Boucle numero 108, trasferimenti inclusi, in totale autonomia. «Non sono al Tour nella squadra ufficiale? Bene, lo farò a modo mio». La sua proposta è piaciuta immediatamente alla sua squadra che anzi lo ha supportato a livello mediatico e di sponsorizzazione. E ha fatto bene, visto l’enorme seguito che ha avuto Lachlan e di conseguenza la Ef stessa.
Non sono state molte le forature per Morton per fortuna (foto Instagram)
Il suo viaggio? Una fotografia della Francia in ogni senso (foto Instagram)
In solitudine sui Pirenei (foto Instagram)
Non sono state molte le forature per Morton per fortuna (foto Instagram)
Il suo viaggio? Una fotografia della Francia in ogni senso (foto Instagram)
In solitudine sui Pirenei (foto Instagram)
Cinque giorni di vantaggio
Avevamo lasciato Morton quando era sui Pirenei. Il gruppo aveva lasciato il Ventoux e lui aveva raggiunto Andorra. In quel momento aveva tre giorni (quasi quattro) di vantaggio sulla carovana. A quel punto con le grandi montagne alle spalle doveva “solo” tirare dritto verso Nord in direzione di Parigi, salvo chiaramente immettersi sul percorso della crono e della tappa finale.
Mentre il gruppo osservava l’ultimo giorno di riposo, Lachlan pedalava spedito sulla sua Cannondale. E, ormai all’alba, erano le 5:30, del martedì entrava a Parigi. Pogacar e colleghi ci sarebbero arrivati la domenica successiva.
«Voglio ringraziare tutti coloro che in qualche modo sono venuti con me in questo meraviglioso viaggio – ha detto Morton – È difficile descrivere le difficoltà e le gioie che ho provato nel mio Tour de France. Ne esco con un apprezzamento più profondo del Paese, del nostro sport e anche della nostra bici. Una sfida che mi ha permesso di raccogliere dei fondi per World Bicycle Relief. Un grande ringraziamento va anche alla mia squadra e a Rapha che hanno creduto in questo progetto».
“Ehi figliolo, Parigi è da quella parte…”
Lachlan spianato verso la meta. Per Lachlan una media di circa 306 chilometri al giorno. (foto Instagram)
“Ehi figliolo, Parigi è da quella parte…”
Lachlan spianato verso la meta. Per Lachlan una media di circa 306 chilometri al giorno. (foto Instagram)
Sulle ali dell’adrenalina
Eppure il ritorno verso Nord non è stato sempre facile. Lasciati i Pirenei, di fronte a lui c’erano circa 570 chilometri. Come detto poche salite, ma la Francia non è mai facile e puntuale ecco il vento. E chi va in bici sa che il vento può essere infido. Può toglierti l’anima, specie se sei stanco. E Lachlan stava attraversando un momento di crisi. Ma quella stessa sera, presso il camping che aveva prenotato strada facendo, ecco una gradita sorpresa: suo papà. Si trovava a Gencay, borgo di 1.850 anime in Aquitania a 370 chilometri da Parigi.
Il giorno successivo, rinvigorito dal papà Morton, che ormai pedalava solo con i sandali, stava letteralmente volando. Poca salita ed eccolo che spingeva spianata sulle piccole appendici che aveva montato sul suo manubrio.
Per dare però un’idea di cosa significhi fare pianura in Francia. Il totale del dislivello nel suo Alt Tour è stato di 66.500 metri circa. Ebbene dopo l’ultimo colle pirenaico Morton ne aveva fatti 60.000. Quindi davanti a sé, da Pau a Parigi, aveva 6.500 metri di dislivello in “pianura”!
Uno dei momenti più toccanti dell’avventura di Morton, la scalata del Col du Portet (foto Instagram)Uno dei momenti più toccanti dell’avventura di Morton, la scalata del Col du Portet (foto Instagram)
Quella coca e il Portet
Per chi lo non conosce, Morton è un personaggio sui generis. Ama la Mtb, giusto un paio di giorni fa è rientrato a casa negli Stati Uniti (dove risiede) ed è subito uscito con la sua “ruote grasse”. E’ tra i più grandi interpreti mondiali del settore gravel ed è anche un discreto gregario. Ma prima di tutto è un sognatore. Non è un pro’ da porridge con latte senza lattosio a colazione e dieta chetogenica, tanto per capirci.
Le emozioni vengono prima di tutto. Un esempio? Dopo oltre due settimane di viaggio e con la stanchezza che iniziava a farsi sentire, Lachlan si trovava nei Pirenei. Doveva affrontare la scalata del Portet. La salita sulla quale Pogacar avrebbe vinto qualche giorno dopo. E il suo compagno Uran sarebbe andato in crisi.
Ai piedi della salita Morton è stanchissimo. Il programma prevedeva di dormire in cima, ma probabilmente resterà a valle e monterà là in basso la sua tenda. Entra in un bar. Prende una coca, un pezzo di torta, un caffè. Risale in sella senza troppa convinzione, ma si rende conto di essersi rigenerato. Così va avanti e pedalata dopo pedalata alla fine arriva in cima al Col Portet.
«Ho fatto bene ad andare avanti. Altrimenti mi sarei perso tutto questo – indicando il silenzio e la vastità di queste montagne al tramonto – adesso sì che posso accamparmi soddisfatto».
I sandali di Lachlan sono divenuti un simbolo della sua avventura (foto Instagram)
E dopo i Campi Elisi, un piccolo sforzo in più verso la Tour Eiffel (foto Instagram)
La Francia nascosta
Questo viaggio, durato 18 giorni (che compresi i due di riposo del Tour hanno portato il vantaggio su Pogacar a 5 giorni) e 5.509 chilometri, ci ha fatto scoprire anche un altro volto della Francia. Un Paese così occidentale, ma al tempo stesso rurale. Un Paese molto legato alla sua terra e alle sue tradizioni. Si dice che, due o tre città a parte, la Francia sia “parigicentrica”. E forse è davvero così.
Ma questo significa anche tanto verde. Significa spazi di vera natura tra un villaggio ed un altro. Da noi, anche se poche, di case e di strutture se ne trovano in continuazione. Morton ci ha fatto vedere, specie sulle grandi salite, come certe strade si trasformino in poco tempo: dalla calma assoluta, alla bolgia del Tour. Un’ulteriore prova di cosa significhi questa corsa, anzi questo evento, per i francesi. Come ripetiamo, attaccatissimi alle loro tradizioni.
PS.
Prima abbiamo accennato a delle donazioni. L’Atl Tour ha raccolto un qualcosa come quasi 500.000 dollari per World Bicycle Relief, ente benefico, che può così acquistare oltre 4.000 biciclette con le quali molti ragazzi africani (soprattutto) potranno raggiungere la scuola o spostarsi per il loro sostentamento. Volendo si può donare cliccando qui.
Il titolo può sembrare un bell’incastro di parole, in realtà dice esattamente quello che sta facendo l’istrionico Lachlan Morton. Il corridore della Ef Education, con il suo Tour alternativo (The Alt Tour) sta portando avanti una sfida a dir poco particolare. Vuole percorrere tutto il Tour de France, come i suoi colleghi professionisti, seguendo fedelmente il percorso in autonomia: senza assistenza, senza meccanico, senza hotel. Ma in tutto ciò sono compresi anche i trasferimenti da un arrivo di tappa alla partenza successiva. Ed è qui che la sfida assume il sapore della grande impresa.
E non è finita, perché Lachaln vuole arrivare a Parigi, prima della carovana stessa. Insomma, vuol battere il Tour!
La Cannondale di Morton, una “F1” piena di bagagli!
Tenda e tappetino per dormire a bordo strada (foto Rapha)
La Cannondale di Morton, una “F1” piena di bagagli!
Tenda e tappetino per dormire a bordo strada (foto Rapha)
Morton avventuriero
Morton è un personaggio particolare. Noi stessi ve lo presentammo quest’inverno. Gareggia in eventi gravel, è un avventuriero, si prepara anche con lo sci di fondo e la corsa a piedi. Vanta diversi Everesting. L’anno scorso lo abbiamo visto da vicino al Giro d’Italia e quest’anno al Tour of the Alps. Non corre moltissimo, ma quando serve si mette a disposizione dei suoi capitani della Ef.
Australiano, ha 29 anni ed è professionista dal 2012. Vanta anche alcune vittorie tra cui la classifica generale al Tour of Utah 2016. Non è un campione, ma sa svolgere il ruolo da gregario. E in gruppo è apprezzato.
Giusto ieri un compagno della Ef che non è al Tour, James Whelan, come si fa in una “tradotta” lo ha affiancato e ha percorso con lui una grossa parte del tragitto di giornata. E il connazionale Rohan Dennis della Ineos-Grenadiers gli ha portato un pezzo di torta lungo la strada. Morton infatti ieri si trovava nella zona di Andorra dove vivono diversi professionisti che in qualche modo gli sono voluti essere vicini.
Morton in un arrivo di tappa si mescola con la carovana e il pubblico (foto Rapha)
Il fascino delle boulangerie francesi… (foto Rapha)
Morton in un arrivo di tappa si mescola con la carovana e il pubblico (foto Rapha)
Il fascino delle boulangerie francesi… (foto Rapha)
Spirito pionieristico
«Il primo organizzatore del Tour, Henri Desgrange, in cuor suo sperava che solo uno dei partenti finisse quella prima Grande Boucle del 1903 e che quello fosse il vincitore. Le tappe partivano all’alba, duravano 300 e passa chilometri e si doveva fare tutto in autonomia. «Io voglio provare a rivivere tutto ciò – ha detto Morton – con in più la sfida di precedere l’intera carovana che si muove con bus, chef, meccanici, a volte persino elicotteri privati, a Parigi».
In questo suo The Alt Tour l’autonomia è totale: Morton infatti dovrà provvedere anche al sostentamento e al pernotto. Per questo è partito con tenda e fornelletti da campo al seguito.
«Quei pionieri mangiavano quello che trovavano lungo la strada, quello che gli offrivano nei villaggi e nelle città. Io voglio rivivere quello spirito. Giriamo il mondo, ma quasi sempre non vediamo nulla: corsa, hotel, bus, questo è il ciclismo attuale. Con questa avventura voglio anche scoprire la Francia e la sua gente».
Un compagno di viaggio sul Ventoux per Morton, che si è fermato anche ad omaggiare Simpson (foto Rapha)
I tifosi a bordo strada che lo seguono sui social ormai lo aspettano per dargli qualcosa da mangiare (foto Rapha)
Un compagno di viaggio sul Ventoux per Morton, che si è fermato anche ad omaggiare Simpson (foto Rapha)
I tifosi a bordo strada che lo seguono sui social ormai lo aspettano per dargli qualcosa da mangiare (foto Rapha)
Verso gli Champs-Élysées
Lachlan Morton è partito come i suoi colleghi in gara il 26 giugno da Brest. La traccia prestabilita del The Alt Tour, vale a dire il percorso del Tour numero 108 più i trasferimenti, misura 5.510 chilometri. Il Tour vero ne conta 3.414. I metri di dislivello di Morton 65.500 contro i 42.200 della Grande Boucle.
Numeri importanti, per non dire importantissimi. E non è un qualcosa nato solo per pubblicità o per “ridere”. Morton si è ben preparato. In accordo con il team, ha corso di più in Francia quest’anno proprio per prendere confidenza con le strade transalpine. Ha inanellato diverse gare: Mercantour, Delfinato, Mont Ventoux Dénivelé Challenge (utilissima per conoscere questa montagna), Route d’Occitaine. L’obiettivo è mettere fondo e forza nelle gambe per far fronte a questa sfida che è super dispendiosa.
Avere forza significa soffrire meno. E di momenti duri ne ha già avuti sin qui Morton, uno dei quali, come spesso accade agli ultracycler è quello ai piedi che dopo tanti giorni di sforzo e poche soste s’infiammano (ieri ha pedalato anche con delle infradito). Per adesso Morton è in vantaggio sulla carovana. Oggi è alle prese con la frazione numero 17, ma lui non usufruirà del Tgv per risalire verso Parigi dopo la frazione numero 20 nel Sud della Francia. Per ora è in tabella di marcia per precedere Pogacar e colleghi sugli Champs-Élysées.
Questo articolo nasce da un commento su Facebook all’intervista con Lachlan Morton pubblicato su bici.PRO il 20 novembre. Davide Falcioni, ex corridore e giornalista di Fanpage, ha postato un’idea che evidentemente gli frullava per la testa e che gli abbiamo chiesto di approfondire…
Il pezzo con Lachlan Morton ha richiamato i commenti su Facebook (foto Olivergrenaa)Morton vince Badlands prima del Giro (foto Olivergrenaa)
E se al prossimo Giro d’Italiasi disputasse una tappa gravel? L’idea saltò fuori in un piovoso pomeriggio di fine autunno. La bici montata sui rulli, la maglia lercia da far schifo, una pozza di sudore sul pavimento di marmo, le gambe stanche senza aver percorso neanche un metro. Perché fuori da quelle quattro mura – oltre al freddo e alla pioggia – c’erano il Covid-19, la paura di ammalarsi e le relative restrizioni per contenere i contagi.
Lupi catturati e chiusi in un recinto, cicloturisti e campioni tutti allo stesso modo. Così abbiamo pensato e scritto poi su Facebook che nel percorso del prossimo Giro d’Italia – che verrà presentato al pubblico tra qualche settimana – ci piacerebbe da morire vedere un tappone su strade bianche, vecchie mulattiere, attraversamenti di boschi e passi militari su cui le auto faticherebbero persino ad avanzare.
Finestre e Assietta
Niente di estremo, per carità. Nessun single track, nessun tratto eccessivamente tecnico, niente che non si possa fare con una bicicletta non ammortizzata. Un esempio? L’accoppiata, in un solo giorno, di Colle delle Finestre e passo dell’Assietta (foto di apertura di Ca’ San Sebastiano). Più di 60 chilometri, tutti gravel e tutti oltre i 2.000 metri di altitudine. L’assistenza tecnica la garantirebbero degli appositi fuoristrada e delle moto da enduro. Pensateci: non si snaturerebbe l’essenza del ciclismo “su strada” che, anzi, ne verrebbe solo valorizzato.
Quel tappone gravel rappresenterebbe infatti un improvviso e salutare viaggio nel tempo. Un salto indietro di mezzo secolo e oltre, a quando le biciclette da corsa erano “solo gravel”, con gomme più larghe di quelle di oggi, telai un più distesi e strade asfaltate rarissime. Per un po’ dimenticheremmo i misuratori di potenza, la ricerca ossessionante del peso e il calcolo “al watt” di ogni accelerazione e scatto. Per un giorno i corridori sarebbero davvero in balia di mille imprevisti, perché se devi percorrere 60-70 chilometri su strade bianche non levigate – ma volutamente lasciate un po’ all’abbandono e frequentate abitualmente solo dai pastori e dai bikers – può succederti veramente di tutto.
Colle delle Finestre, come sarebbe scalarlo senza il lavoro di preparazione del fondo?E se il Finestre al Giro non venisse lisciato?
Record di ascolti
Sarebbe un viaggio nel tempo, sì, verso il passato ma anche verso il futuro. Il ciclismo non è nuovo a queste novità un po’ folli.
Ricordate il capolavoro di Chris Froome nel 2018 sul Colle delle Finestre? Alla partenza il britannico era solo quarto in classifica generale, con un ritardo di circa 4 minuti da Simon Yates, ma attaccò sullo sterrato, percorse ottanta chilometri da solo e vinse il Giro. Yates andò alla deriva. Quel giorno quasi 3 milioni di telespettatori (il 23,60% di share) rimasero incollati alla tv per assistere all’impresa di Froome. Perché il ciclismo epico è quello che tutti vogliono vedere e perché ne abbiamo fin sopra i capelli di ragionieri in bicicletta.
E ricordate Vincenzo Nibali quattro anni prima al Tour De France? Ricordate la sua maglia gialla lorda di fango nel pavè della Parigi-Roubaix? Quel giorno lo Squalo compì un capolavoro e ipotecò un pezzo di Tour. Le immagini di Nibali sulle pietre appartengono ormai in modo indelebile alla storia del ciclismo.
Una pista, una traccia. Quello è ancora Morton a tre settimane dal Giro (foto Juan Barros)Ancora Lachlan Morton (foto Juan Barros)
Addio schemi
E ancora: come se la caverebbero Roglig e Pogacar, i due terribili sloveni fortissimi in salita e a cronometro? E che cosa combinerebbero Tao Geoghegan Hart e l’australiano Jai Hindley? Forse vedremmo una corsa molto più bella: Giro, Tour e Vuelta del 2020 si sono conclusi con distacchi inferiori al minuto tra il primo e il secondo. Fino all’ultima tappa i leader della corsa si sono guardati in cagnesco, soppesando attentamente le energie nei chilometri finali di ogni singola frazione. Ma che cosa accadrebbe con un tappone gravel piazzato all’inizio dell’ultima settimana? Che succederebbe se iniziassero a volare minuti di distacco quel giorno imponendo poi nei giorni seguenti di andare all’attacco per recuperare? Probabilmente assisteremmo a un ciclismo un po’ più spettacolare, meno equilibrato forse ma sicuramente più epico.
Una bella tappa gravel sulle Alpi al prossimo Giro d’Italia, quindi. Perché no? Portiamola fuori da Facebook e andiamo a vedere…
Trek lancia il manubrio GR Elite pensato per il gravel, leggero e a resistente. Realizzato in alluminio 6061-T6, offre prestazioni in termini di comfort
Un’intervista a Lachlan Morton, che fra tanti direte voi… Sentite come è nata. Avete presente Paolo Mei, speaker del Giro d’Italia e grande appassionato di gravel bike? Bene. Si fa per parlare e gli scappa detto: «Io appassionato? Certo, ma dovreste parlare con Lachlan Morton della EF Pro Cycling, che ha fatto il Giro ed è il simbolo del gravel mondiale».
Così in un pomeriggio meno intasato di altri, componiamo il numero, gentilmente fornito dal Hannah Troop, addetta stampa della Ef Pro Cycling. Nel momento in cui i professionisti hanno riscoperto la mountain bike e bici.PRO si è messa al loro servizio con una serie di consigli e pareri, perché non esplorare il mondo gravel?
Lachlan ha 28 anni, è australiano e vive in Colorado, ma per fortuna oggi si trova a Girona, per cui non c’è da combattere con il fuso orario.
Lachlan Morton al Giro d’Italia 2020, 71° nella cronometro di PalermoMorton, Giro d’Italia, crono di Palermo
Sì, viaggiare
La gravel bike, per chi non lo sapesse è una sorta di minotauro, nato dall’incrocio fra una bici da strada e una mountain bike. Qualcuno vuole rintracciare elementi costruttivi delle bici da ciclocross, ma la vera contaminazione riguarda strada e mountain. Lachlan Morton se ne serve per viaggiare, con le sue borse da bikepacking attaccate e il naso che fiuta la strada, ma anche per competizioni estreme. Come quella che ha vinto in Spagna prima del Giro d’Italia. L’anno scorso invece ha viaggiato con suo fratello Gus dall’Albania a Istanbul su strade che non conosceva e realizzando durante il viaggio una sorta di documentario.
«Molte persone – racconta – sono entrate in contatto con me grazie a questo tipo di impresa. La maggior parte delle volte in cui corro, non mi sento come se fossi davvero importante per qualcuno, come se mancasse qualcosa. Forse l’idea del viaggio. Invece trovo eccitante attraversare luoghi in cui non avevo mai pensato di andare e che non rientrano fra le rotte tipiche del ciclismo».
Con il compagno Alex Howes, nel grande evento gravel Dirty Kanza (foto Fsa)Con Alex Howes nel Dirty Kanza (foto Fsa)
Ritorno alle origini
Non c’è solo lui. Anche Daniel Oss finita la stagione prendeva e partiva con la bici e le borse. Wellens e De Gendt tornarono in Belgio pedalando dopo il Lombardia. Ma su strada, restando il più delle volte nei limiti dell’asfalto.
«E’ una cosa difficile da spiegare – dice Morton – ma essenzialmente stai ampliando i tuoi orizzonti attraverso uno strumento familiare, ma in una maniera completamente diversa. Attraverso le montagne dell’Albania, abbiamo trovato un tratto senza una strada. Avevamo solo Google Maps e il nostro istinto. Dopo un viaggio come quello torno a casa con nuove idee sulla bici e su me stesso. Ma al contempo non vedo l’ora di ricominciare a correre. Il ciclismo agonistico è molto faticoso e nessuno potrebbe reggere simili sforzi senza avere dentro la spinta per farli. Credo che pedalare in cerca di se stessi riaccenda quella passione che gli schemi a volte spengono».
Tutto il necessario per la partecipazione a un evento bikepackingIl necessario per un bikepacking
Senza schemi
Ma in che modo la gravel può essere utile al professionista, nel mese di stacco dalla strada? E siamo certi che la posizione in sella, simile ma non identica, non crei qualche problemino?
«Ho provato ad avere lo stesso settaggio – spiega Morton – ma sono così diverse. Qui a Girona ho la bici da strada, la mountain bike, la gravel e per andare in giro uso una fixed. Nell’arco della settimana le uso tutte. Mi sveglio e parto. Il giorno che non riesco a immaginare di uscire per sei ore con la mia bici da strada, prendo la mountain bike e magari le sei ore le faccio in giro per sentieri. Oppure faccio la stesa cosa sulle strade bianche e la gravel. Mi piace cambiare posizione, non è mai stato un problema».
Lachlan Morton in piena azione: è alla Ef Pro Cycling dal 2019 (foto Cannondale)Alla Ef Pro Cycling dal 2019 (foto Cannondale)
Sfinito prima
Ciclista atipico o atipico che vuole fare il ciclista? Il quesito è legittimo e si fa fatica a immaginarlo “ingabbiato” negli schemi del Giro d’Italia, in cui il suo miglior risultato è stato il 71° posto nella crono di Palermo.
«Il Giro è stato una bella corsa – dice – con strade e paesaggi indimenticabile. Peccato che non avessi la preparazione specifica. Il mese prima avevo vinto una gara in gravel, la Badlands di Granada. Percorso impegnativo, con deserto, sabbia a 40 gradi, valichi a 3.000 metri dove faceva freddo. E’ stato molto difficile, non la miglior preparazione per il Giro. Ho impiegato un giorno 19 ore e 30 minuti. E quando mi sono alzato dal letto il giorno dopo, riuscivo appena a muovermi e ho pensato: “No, il Giro è fuori discussione”. Ora invece il mio sogno è il Tour de France, il motivo per cui mi sono innamorato del ciclismo. Vorrei fare il Tour e la Cape Epic in mountain bike (la gara a tappe che si disputa a coppie che anche Nibali vorrebbe prima o poi provare, ndr). E’ pazzesco rendersi conto di quanti grandi eventi ci sono là fuori».
Saluta dicendo che resterà in Spagna fino a prima di Natale e poi volerà in Colorado. Il Covid lo sta frenando, ma presto conta di ripartire. Paolo Mei, dicci la verità: immaginavi che il ragazzo fosse così?
Fabrizio Guidi passa alla Uae Team Emirates e porta con sé anni di splendida esperienza. La sua storia di corridore e la sua cultura sono un valore aggiunto