Anche se ormai sembra impossibile fare un discorso privo di termini inglesi, quasi che il ricchissimo dizionario di italiano improvvisamente non basti più, c’è stato un tempo in cui tutto ciò che fosse tricolore era vanto e ispirazione. Nel ciclismo soprattutto. La scomparsa di Ugo De Rosa, che se ne è andato ieri a 88 anni (in apertura, foto De Rosa), è diventata l’occasione per ripercorrere gli ultimi 30 anni di storia della bicicletta, intensi come una lunga volata.
Sette giorni in officina
Era il 1992 quando ebbi l’occasione di vivere per una settimana a Cusano Milanino, nell’officina del signor Ugo, accanto a sua moglie Maria e ai suoi figli, per un’intuizione del mio direttore di allora. I colossi taiwanesi e di riflesso quelli americani non erano ancora diventati così predominanti. Si ragionava sullo sviluppo dell’acciaio, si cominciava a saldare il titanio, l’alluminio era la scelta dei corridori e si respirava l’arrivo potente del carbonio. Sapevamo bene che sotto la vernice di alcune bici d’altra marca in mano a grandi campioni, ci fosse una De Rosa. Ancora si poteva e veniva fatto regolarmente.
Il signor Ugo indossava un camice azzurro, ne percepivi la severità e insieme la passione per il suo lavoro: non puoi avere cura di un’azienda, se non riesci ad essere severo nel pretendere la stessa cura dai tuoi collaboratori.
Attorno a lui operavano i tre figli. Cristiano, che già allora possedeva le chiavi del marketing. Danilo, figura trasversale e primo tester delle biciclette. Doriano, bravissimo a saldare il titanio. Le De Rosa erano e sono bici di lusso. Eppure nelle sue parole traspariva una concretezza un po’ perplessa.
«Una decina di anni fa – raccontò in uno di quei giorni del 1992 – la bicicletta più bella costava poco più di un milione, che era lo stipendio medio di un operaio qui in Lombardia. Oggi una bella bici costa tre milioni e mezzo, quindi tre volte quello stipendio che nel frattempo è rimasto uguale. Ho sempre osservato chi veniva a comprarsi una De Rosa. Se veniva un operaio, capivi che aveva risparmiato e si stava facendo un regalo bellissimo. Oggi tanti hanno il cappotto con le toppe sui gomiti, perché soprattutto se hanno famiglia, quel risparmio non è più così semplice».
Alta gamma regina
Raccontiamo di biciclette bellissime, che costano come e più di automobili di medio livello. Eppure gli stipendi degli operai sono rimasti identici, seppure convertiti in euro. Ci mancherà non poterne ragionare con Ugo De Rosa, per dare una nuova dimensione allo sport della bicicletta, diventato negli ultimi anni un movimento di elite. Basta parlare con chi le vende, per sentirsi dire che dopo la fiammata del Covid, le gamme medie ormai sono ferme, mentre si vendono tantissimo le bici di altissima gamma.
Prevedendo ciò che forse sarebbe successo, perché Ugo De Rosa aveva le mani d’oro e il naso sopraffino, una volta ci confidò di aver chiesto a suo figlio Cristiano di verificare sulle riviste gli annunci di bici usate.
«Sono sempre curioso – disse – di capire quali sono le bici che la gente dà indietro e dopo quanto tempo. Divento anche più curioso quando vedo che un nostro cliente ha messo in vendita una bici De Rosa. Vorrei sapere perché lo ha fatto. Tutto serve per migliorare. Sono convinto che la bicicletta abbia enormi margini di miglioramento e mi piace ancora far parte del suo futuro».
Un allievo di nome Eddy
Una sera, alla fine di quella settimana, il signor Ugo mi invitò a cena a casa sua. E prima di sederci a tavola, mi portò al piano terra dove tutto lasciava pensare a un’officina. Era stata quella infatti la prima sede dell’azienda e aveva preferito lasciare tutti gli attacchi pronti, perché chi può sapere come andranno le cose? Là sotto aveva passato giorni interi Eddy Merckx, che per le bici con il suo nome aveva chiesto supporto al vecchio amico.
Di quell’artigianato così curioso e prezioso forse De Rosa è rimasto l’ultimo esponente che ancora non sia stato acquistato da fondi o magnati da altre parti del mondo. Prima Bianchi. Poi Pinarello. Più di recente è toccato a Colnago. Non si tratta di fare i romantici: sappiamo bene che le iniezioni di capitali permettono di investire in tecnologia e sviluppo. Resta da capire se questo sia necessario anche per restare nella nicchia dell’artigianato di alta gamma, resistendo alla tentazione di inseguire i colossi sulla via di un livellamento pazzesco verso l’alto. I campioni hanno bisogno di mostri da competizione, gli amatori potrebbero volersi accontentare di un gioiello. Anche di questo ci sarebbe piaciuto parlare con il signor Ugo, nostro maestro di ciclismo.