Pogacar Merckx

Merckx VS Pogacar, l’opinione di Gregori

06.12.2025
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Ultimamente hanno fatto parlare le dichiarazioni di Roger De Vlaeminck sul paragone tra Merckx e Pogacar. Il belga ha rilasciato al quotidiano fiammingo Het Laatste Nieuws frasi come: «Pogacar non si avvicina nemmeno lontanamente alle dita dei piedi di Merckx». Oppure: «I giornalisti che fanno questo paragone non hanno la minima idea di cosa sia il ciclismo. Se avessi di nuovo 22 anni, Pogacar non sarebbe in grado di superarmi».

Dichiarazioni che a molti sono sembrate quanto meno avventate, considerando le imprese che ogni anno Pogacar sta mostrando al mondo. Ma qual è davvero il posto dello sloveno nella storia del ciclismo? Per capirne un po’ di più abbiamo contattato uno dei grandi maestri del giornalismo sportivo italiano, Claudio Gregori.

Claudio Gregori ha seguito dodici Olimpiadi, ventotto Giri d’Italia e tre Tour de France: una delle voci più autorevoli del giornalismo sportivo italiano
Claudio Gregori ha seguito dodici Olimpiadi, ventotto Giri d’Italia e tre Tour de France: una delle voci più autorevoli del giornalismo sportivo italiano
Claudio, cosa ne pensi delle frasi di De Vlaeminck? 

Quello di De Vlaeminck a mio modo di vedere è un discorso inaccettabile. Guarda ai corridori con cui si è confrontato, soprattutto Merckx dal quale ha perso molte volte. Poi è anche un corridore molto diverso da Pogacar, ma di fatto non analizza le vittorie, i numeri vanno anche pesati. Il ciclismo moderno è molto diverso dal loro, qui tutto è calcolato al millesimo, ogni grammo di carboidrati da prendere durante le gare, ogni caloria. Forse per questo De Vlaeminck vede questa epoca così differente dalla sua.

Tu invece la pensi diversamente?

Pogacar e Merckx sono due corridori diversi che hanno corso in epoche diverse. Facciamoli correre insieme per gioco. Pogacar è sicuramente più forte di Merckx in salita, anche semplicemente perché pesa 66-67 chili, mentre il belga aveva un peso forma di 74-75 chili. Merckx però aveva sicuramente un motore più potente, era più forte sul passo e in volata. Inoltre correva anche in pista, ha fatto il record dell’Ora e vinto 17 Sei Giorni.

Roger De Vlaeminck Parigi-Roubaix
Roger De Vlaeminck ha vinto 4 Parigi-Roubaix, come lui solo Tom Boonen
Roger De Vlaeminck Parigi-Roubaix
Roger De Vlaeminck ha vinto 4 Parigi-Roubaix, come lui solo Tom Boonen
In effetti i numeri del belga forse resteranno imbattibili…

I numeri dicono che Merckx in carriera ha oltre 500 vittorie, tra cui 11 Grandi Giri. Pogacar per ora è arrivato a 105 vittorie con 5 Grandi Giovani ri. Detto questo Pogacar è un campionissimo. Ha vinto 5 Giri di Lombardia su 5 partecipazioni, un dato incredibile. Certo, tra i risultato di Merckx spiccano le 7 Sanremo, come anche le 3 Parigi-Roubaix, mentre lo sloveno è ancora a zero. Ma bisogna anche vedere il modo, appunto pesare le prestazioni. Pogacar è arrivato secondo alla sua prima Roubaix, qualcosa di impensabile fino a pochi anni fa.

Forse è questa la sua grandezza?

Certamente. Nel ciclismo moderno sembrava impossibile entusiasmare con gli assoli, lui invece ha riscoperto questo modo di correre. Ancora più difficile da mettere in atto adesso rispetto a decenni fa. Ha vinto gli ultimi due campionati del mondo attaccando a 100 chilometri dall’arrivo, quando eravamo abituati al fatto che bastasse guardare gli ultimi 30-40 chilometri dall’arrivo. E questa cosa che lo rende amatissimo. Come alla Strade Bianche di quest’anno, quando sembrava tagliato fuori dopo la caduta, invece poi…

Pogacar è arrivato secondo alla sua prima partecipazione alla Roubaix, qualcosa di impensabile fino a soltanto pochi anni fa
Pogacar è arrivato secondo alla sua prima partecipazione alla Roubaix, qualcosa di impensabile fino a soltanto pochi anni fa
C’è poi il fatto che i paragoni veri si potranno fare solo a fine carriera. Quanto potrà correre ancora Pogacar?

Quanto vincerà ancora non lo sappiamo, secondo me potrebbe fare ancora 5-6 anni ad altissimo livello. Però qualche confronto con altri campioni lo possiamo già fare. Per esempio Hinault ha vinto 10 Grandi Giri e solo 5 Classiche Monumento, e credo che Pogacar gli sia già superiore ora, proprio perché è più spettacolare.

Spesso sentiamo dire che però questi assoli solitari stufano. Qual è la tua opinione?

Io mi diverto a guardarlo. Trovo bellissimo che tutti lo si aspettino e lui si presenti sempre puntuale, come a Kigali. Lì il duello con Evenepoel è stato bellissimo, perché poi gli avversari li ha eccome in certe gare. Ritenterà di vincere la Sanremo, una corsa che ha sempre acceso lui negli ultimi anni, e troverà ancora Van der Poel. Lo stesso vale per la Roubaix. Comunque non credo che sia noioso, come non credo che Coppi abbia ammazzato il Giro d’Italia durante la famosa Cuneo-Pinerolo nel ‘49. La gente era lì assiepata con il cronometro in mano, a vedere il distacco con Bartali. Il ciclismo non è bello solo per conoscere il vincitore di una gara, ma anche per l’azione in sé.

Campionati Europei 2025, Evenepoel, Pogacar, Seixas
Secondo Gregori, Evenepoel è il rivale più temibile dello sloveno
Campionati Europei 2025, Evenepoel, Pogacar, Seixas
Secondo Gregori, Evenepoel è il rivale più temibile dello sloveno
Quindi non è vero che Pogacar, a differenza del Cannibale, non abbia rivali all’altezza?

No, e l’abbiamo visto al Tour de France con Vingegaard. Anche se penso che il più temibile sia Evenepoel. Ha due anni in meno di lui, è stato frenato da incidenti molto gravi e comunque ha vinto ha vinto due ori olimpici, quattro mondiali, quattro europei, una Vuelta, cioè ha dimostrato che può lottare nei Grandi Giri. Certo Pogacar è più forte in salita, ma il belga è un cagnaccio e ha la mentalità del campione assoluto.

Claudio, quindi secondo te che posto avrà (o ha già) Pogacar nella storia del ciclismo?

Per ora vale ancora la definizione di Gian Paolo Ormezzano: “Merckx il più forte, Coppi il più grande”. Ma fra tre anni credo che tra loro due potremmo senza dubbio inserirci anche il campione sloveno.

«Il ciclismo si corre dentro al mondo». Parola di Claudio Gregori

22.06.2025
5 min
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Durante l’ultimo Giro d’Italia abbiamo visto in quasi ogni tappa manifestazioni in favore della Palestina. Scritte sull’asfalto, bandiere, striscioni. Questo ci ha ricordato che lo sport non è una bolla chiusa in se stessa, ma qualcosa che è sempre legato alle vicende storiche e politiche (in apertura foto Tim de Waele/Getty Images).

Il ciclismo in particolare, col suo passare per le strade del mondo, è sempre stato anche veicolo di istanze e che andavano oltre i suoi stretti confini. Per approfondire questo aspetto abbiamo raggiunto al telefono Claudio Gregori, forse il più grande cantore ed esperto italiano della storia del ciclismo. 

Gregori ha seguito dodici Olimpiadi, ventotto Giri d’Italia e tre Tour de France: una delle voci più autorevoli del giornalismo sportivo italiano
Gregori ha seguito dodici Olimpiadi, ventotto Giri d’Italia e tre Tour de France: una delle voci più autorevoli del giornalismo sportivo italiano
Claudio, cosa ne pensi delle manifestazioni contro la guerra a Gaza che abbiamo visto durante il Giro?

Lo sport fa parte della vita. Viviamo in una democrazia, una bella parola che significa che il popolo può esprimere le sue opinioni. Il popolo del Giro che si esprime contro il massacro che sta avvenendo in quella parte di mondo non solo è una cosa lecita, ma secondo me anche giusta. E’ qualcosa in linea con i principi democratici ma anche del cattolicesimo, basti pensare le prese di posizione di Papa Francesco, e anche del Pontefice attuale, a riguardo. La lotta per la pace è un dovere

Il ciclismo è più attento a quello che accade oltre la sua bolla?

La bici vive nel mondo, lo attraversa, vede le facce del mondo. Nella mia carriera ho seguito 28 giri d’Italia e credo di poter dire che il ciclista è più aperto al mondo perché lo conosce. La coscienza civica, che si manifesta anche attraverso lo sciopero, fa parte da sempre di questo sport. Il primo sciopero nella storia del Giro c’è stato già nel 1911, nella tappa Pescara-Roma, quando per colpa degli organizzatori la carovana sbagliò percorso e i corridori si rifiutarono di fare dei chilometri in più. Scioperarono e per arrivare a Roma presero il treno. Ma gli esempi di come la politica e la storia si sono incrociati con il Giro sono moltissimi. Basti pensare a quello del 1919, appena finita la Prima Guerra Mondiale, quando fu organizzata la tappa da Trento a Trieste, le due città irredente. Non era solo ciclismo, era un messaggio che l’Italia dava al mondo.

A proposito di Trieste è famosa anche la tappa del ‘46…

Certamente, anche quello fu un segnale fortissimo, arrivato soprattutto dai corridori. La tappa fu bloccata a Pieris da alcuni manifestanti che rivendicavano Trieste come città jugoslava e fu decisa la neutralizzazione. Ma in 17 vollero continuare ad ogni costo e così a Trieste arrivarono primo Cottur e secondo Bevilacqua, che non a caso correvano con la Wilier. Che è l’acronimo di W l’Italia Libera e Redenta

Giordano Cottur portato in trionfo al termine della tappa Rovigo-Trieste, uno dei più celebri esempi di come il ciclismo si è intrecciato con la storia politica del Paese (foto FB Giordano Cottur)
Giordano Cottur portato in trionfo al termine della tappa Rovigo-Trieste, uno dei più celebri esempi di come il ciclismo si è intrecciato con la storia politica del Paese (foto FB Giordano Cottur)
Quindi lo sport ha sempre suscitato interesse da parte della politica? 

Assolutamente. Nel 1923 quando Ottavio Bottecchia era maglia gialla al Tour la Gazzetta dello Sport istituì una sottoscrizione in suo favore. Il primo firmatario fu nientemeno che Mussolini, seguito da alti gerarchi come Balbo e Ciano. Il Duce ci teneva a ricevere sempre i grandi campioni, ma Bottecchia non ci andò mai, non si iscrisse nemmeno mai al partito. La politica ha sempre voluto mettere le mani sullo sport, perché è un formidabile strumento di propaganda. 

Viene in mente anche la storia secondo cui la vittoria di Bartali al Tour del ‘48 scongiurò una possibile guerra civile.

Questa è un po’ una leggenda, ma qualcosa di vero c’è. Gino Bartali era amico personale di De Gasperi, erano amici veri. Quando ci fu l’attentato a Togliatti, De Gasperi chiamò Bartali durante il giorno di riposo e gli chiese di provare a fare qualcosa. Il giorno dopo vinse il tappone alpino, quello dopo vinse ancora e indossò la maglia gialla che portò fino a Parigi. Questo ebbe un po’ un effetto-camomilla su quell’Italia in ebollizione, ma dire che quella vittoria abbia evitato la rivoluzione è esagerato. Anche perché anche Togliatti tifava Bartali. Appena si svegliò dall’operazione la prima cosa che chiese fu cosa avesse fatto Bartali al Tour.

Bennati alla Tirreno Adriatico del 2010, l’anno in cui visitò il campo di Auschwitz assieme a Claudio Gregori e Dario Cataldo
Bennati alla Tirreno Adriatico del 2010, l’anno in cui visitò il campo di Auschwitz assieme a Claudio Gregori e Dario Cataldo
Erano gli anni in cui il Giro aveva una forte impronta nazionale… 

Nel ‘50 lo svizzero Koblet aveva la maglia rosa in mano e i giornali cercarono di mettere in piedi una coalizione contro di lui. Gianni Brera, in quel momento il più giovane direttore nella storia della Gazzetta, scrisse un fondo bellissimo dicendo che “Nello sport non ci sono stranieri”. Una lezione bellissima che vale ancora oggi, anche se alcuni politici attuali forse non l’hanno ancora capita. 

C’è qualche aneddoto che hai vissuto in prima persona di incrocio tra sport e politica?

Nel 2010 il Giro partiva da Amsterdam, io ero lì come inviato della Gazzetta per scrivere i pezzi di colore. Ho chiamato Pozzato, volevo andare con lui alla casa di Anna Frank. Ha accettato e abbiamo visitato assieme la casa dove era nascosta con la famiglia. Il giorno dopo la Gazzetta ha fatto una pagina intera sulla storia di Anna Frank. Poche settimane dopo ero al Giro Polonia e una tappa partiva da Auschwitz alle 12,30. Ho convinto Bennati e Cataldo a venire con me a visitare il campo la mattina prima del foglio firma. E’ stata un’esperienza drammatica, ma bellissima.

Possiamo immaginare…

Mi ricorderò sempre che quando siamo arrivati alle camere a gas Bennati, un ragazzone grande e grosso, si è commosso moltissimo, e poi mi ha ringraziato per quel momento. Durante la tappa poi era prevista una sosta all’ingresso del campo, io naturalmente ero lì. Pensavo sarebbe stata una cerimonia poco sentita, invece no. C’erano corridori di 34 Nazioni diverse ed uno per ogni nazione ha portato una rosa davanti al cancello, c’era una tensione che non mi sarei immaginato. Un momento catartico. Il ciclismo è straordinario proprio per questo. Il calcio invece è diverso, anche solo per il fatto che si gioca dentro una scatola chiusa, isolata dal mondo.

Pogacar e la stoffa dei campioni, l’opinione di Claudio Gregori

01.04.2025
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Alla Milano-Sanremo di dieci giorni fa Tadej Pogacar ha messo in scena l’ennesimo capolavoro di forza e fantasia, attaccando lì dove da anni si diceva non fosse più possibile farlo: sulla Cipressa. Il fatto che poi sia arrivato terzo è quasi un dettaglio, perché quell’attacco ha deciso la corsa. Ancora di più ha fatto al mondiale, con un attacco (quella volta vincente) partito a 101 km dal traguardo, in quello che chiunque ha giudicato in prima battuta come un azzardo eccessivo perfino per lui.

Ma forse Pogacar è un campione epocale proprio per questo, perché rende possibili cose che fino al momento prima parevano impossibili. Come fosse questa, ancora prima della densità del palmares, la cifra dei grandissimi. Ne abbiamo parlato con Claudio Gregori, forse l’ultimo grande cantore del ciclismo, che nei suoi libri ha raccontato le vite e le imprese di corridori leggendari come Coppi e Bartali, Bottecchia e Merckx. L’ultimo suo lavoro è “Il fiore che vola” sui i primi 100 anni del ciclismo a Pavia dai pionieri alla Sanremo, edito da Univers Edizioni.

Claudio Gregori, tra i suoi libri sul ciclismo ci sono le fondamentali biografie di Merckx e di Bottecchia
Claudio Gregori, tra i suoi libri sul ciclismo ci sono le fondamentali biografie di Merckx e di Bottecchia
Claudio, per trovare paragoni con Pogacar dobbiamo davvero scomodare Coppi e Merckx?

Pogacar è un fuoriclasse assoluto, anche se non ha ancora raggiunto i livelli di loro due. Lo dice il palmares, anche se non si possono mai confrontare epoche diverse, e poi Pogacar può ancora vincere molto. Di certo è eccezionale perché corre in maniera spettacolare, questo è sempre stato molto importante e lo è ancora di più nell’era della televisione. Il vero protagonista della Sanremo è stato lui, non Van der Poel, è lui che l’ha accesa e ne ha fatto una delle più belle Classicissime della storia. Pogacar è la punta del ciclismo moderno per due motivi. Il primo è che quando parte c’è sempre spettacolo, il secondo è che vince da gennaio fino al Lombardia. Non è Vingegaard che esprime al massimo solo in un periodo dell’anno.

In effetti Pogacar con suo modo di correre ha fatto innamorare un po’ tutti fin dalla Vuelta del 2019

Una volta Saronni mi ha detto: «Guarda, con Pogacar non fai il piano prima della gara, lui inventa la tattica in corsa». Ed è così, lui si sente e attacca a 100 km dalla fine, sembra una follia e invece lo porta a termine. Questo ovviamente accende l’immaginazione delle persone. E’ un momento eccezionale per il ciclismo, non c’è dubbio. Il problema per noi italiani è che non abbiamo campioni davvero competitivi. Ora c’è Ganna che ha fatto una bellissima Sanremo, adesso però deve vincere la Roubaix, io lo sto aspettando lì da 5 anni.

Una delle tre vittorie di tappa alla Vuelta 2019, dove molti scoprirono il talento dello sloveno
Una delle tre vittorie di tappa alla Vuelta 2019, dove molti scoprirono il talento dello sloveno
Hai parlato della Sanremo, per molti anni abbiamo sentito dire che attaccare dalla Cipressa fosse ormai impossibile, invece il campione del mondo ci ha provato e ci è riuscito. E’ questa la cifra del campione?

Lui ha cambiato le regole imposte negli ultimi decenni, cioè quelle dei giochi di squadra, della tattica pilotata dall’ammiraglia, dove non c’era più spazio per la fantasia. Ecco, lui ce l’ha messa, vive il ciclismo come avventura. Mentre negli anni scorsi le ammiraglie quell’avventura la sopprimevano.

E’ solo una questione di gambe o anche di testa?

Prima semplicemente non c’erano talenti per fare imprese del genere. Ho detto che non ha raggiunto Coppi e Merckx, ma sto parlando di campioni unici nella storia. E magari Coppi a fine carriera potrebbe pure raggiungerlo. Comunque contano le gambe ma anche la testa: infatti all’inizio Pogacar, come anche Van der Poel, attaccava e perdeva. Poi sono migliorati e ora fanno un ciclismo bellissimo, incredibile. Sarò ottimista, ma credo siano anche campioni di un ciclismo più pulito, in cui non vediamo più ronzini diventare purosangue. Ora i campioni veri emergono di più, e non a caso vincono tutto l’anno.

Merckx è ormai, assieme a Coppi, il metro di paragone per Pogacar
Merckx è ormai, assieme a Coppi, il metro di paragone per Pogacar
Hai parlato dell’importanza della televisione nelle imprese di Pogacar. Cos’è cambiato rispetto al passato per quanto riguarda il racconto del ciclismo?

Iniziamo a ricordare che Coppi era un campione unico, ancora più puro di Merckx. Coppi ha fatto 10 assoli più lunghi di 100 km, Merckx uno solo. La grande differenza è che gli assoli di Coppi non avevano copertura televisiva. Immaginiamoci se avessimo potuto vedere in diretta i 192 km di fuga alla leggendaria Cuneo-Pinerolo, con Bartali all’inseguimento per 5 colli. Sarebbe stato uno spettacolo indimenticabile. Allora c’era solo la radio, con il conduttore che faceva sognare le persone con poche parole.

Quindi Pogacar ha un vantaggio sotto questo aspetto?

Certo, un vantaggio eccezionale. Per esempio alla Strade Bianche abbiamo potuto goderci tutta l’epopea della caduta, della resurrezione e della vittoria. Una grande impresa, ma resa ancora più grande dalla diretta, perché un conto è leggere alcune cose, un altro è vederle coi propri occhi. La televisione regala immagini calde che ti invogliano a seguire, quando lo vedi scattare partecipi, ti emozioni e ti entusiasmi. Cosa che non ti può dare la lettura, per quanto ben fatta, che è un entusiasmo freddo. L’aspetto mediatico poi non è importante solo per i tifosi ma anche per il corridore, che sa di essere visto.

Ma non c’è solo Pogacar, viviamo un momento zeppo di grandi campioni, come Van der Poel e Van Aert
Ma non c’è solo Pogacar, viviamo un momento zeppo di grandi campioni, come Van der Poel e Van Aert
Accennavi prima al grande momento che sta vivendo il ciclismo. Siamo davvero nell’età dell’oro come a volte sentiamo dire? 

Sì, la paragonerei al momento a cavallo degli anni ‘40 e ‘50 in cui c’erano Coppi, Bartali, Van Steenbergen, Magni, Bobet, un germinare di campioni assoluti. Ma è così anche oggi, quando oltre a Pogacar abbiamo la fortuna di vedere all’opera corridori spettacolari come Van der Poel e Van Aert, ma anche Evenepoel, che secondo me sarà il grande avversario dello sloveno per i prossimi anni.

Tra pochi giorni lo vedremo anche alla Parigi-Roubaix, un altro tassello per avvicinarsi ai grandissimi

Non so se ha il fisico adatto per la Roubaix, forse quel pavé così sconnesso è più adatto a corridori più pesanti e potenti come Van der Poel e Van Aert. I 64 chili di Pogacar per quelle pietre mi sembrano un po’ pochini, ma spero di sbagliarmi. Perché con i grandi campioni non si sa mai.

Il Giro a Peonis, nella leggenda di Ottavio Bottecchia

24.05.2024
5 min
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Il primo traguardo volante di oggi, dopo 56 chilometri dalla partenza, è piazzato a Peonis, frazione di Trasaghis in provincia di Udine. Un paesino di duemila anime tra le sponde del Tagliamento e le prime propaggini montuose della Carnia. Perché RCS Sport ha scelto proprio Peonis? Forse perché lì, il 3 giugno 1927, fu trovato agonizzante Ottavio Bottecchia: il primo italiano a vincere il Tour de France, giusto cent’anni fa. Ma chi era davvero Ottavio Bottecchia, perché è stato così importante nella storia del ciclismo e perché, nonostante questo, è stato a lungo dimenticato?

Poche settimane fa ho avuto la fortuna di presentare ad una serata “Il corno di Orlando. Vita, morte e misteri di Ottavio Bottecchia” la monumentale biografia scritta nel 2017 da quello che è forse l’ultimo grande aedo del ciclismo italiano, Claudio Gregori. Quindi ho alzato il telefono e l’ho chiamato, per farmi raccontare direttamente da lui.

Claudio, perché Bottecchia è stato così importante?

Per questo basta ricordare tre numeri. Ha vinto due Tour de France come Coppi e Bartali, ma Bartali ha portato la maglia gialla 23 giorni, Coppi – il più grande corridore di sempre – 19. Bottecchia in maglia gialla ci è rimasto per 34 giorni! E nel 1924, anno della sua prima vittoria, dalla prima all’ultima tappa. Questo significa che al Tour non è stato solo l’italiano più vincente, ma anche il migliore.

E questo nonostante abbia gareggiato da professionista per pochissimi anni, dal 1922 al 1927.

Esatto, questo è fondamentale per capire il livello della sua grandezza. La carriera di Bartali è durata vent’anni, quella di Coppi quasi altrettanto, pur dovendo fare i conti con la Seconda Guerra Mondiale. Bottecchia invece ha corso davvero solo per quattro anni.

La sua vita è stata sempre segnata dal dolore, dalla miseria e dalla tragedia.

Veniva da un mondo umile, dove prima di tutto si doveva trovare il modo di guadagnare “schei” per andare avanti. E’ stato eroe di guerra, catturato tre volte e tre volte fuggito. Durante la rotta di Caporetto, si trovava vicino al Tagliamento a difendere la ritirata dei suoi commilitoni quando il suo battaglione è stato attaccato con l’iprite, il terribile gas usato in quegli anni. Lui è rimasto al suo posto, si è caricato la mitragliatrice da 50 chili sulle spalle e con quella teneva occupati i tedeschi.

Bottecchia rimase in maglia gialla per 34 giorni: 11 più di Bartali, 15 più di Coppi
Bottecchia rimase in maglia gialla per 34 giorni: 11 più di Bartali, 15 più di Coppi
Come è finita?

Quando ha sparato l’ultima pallottola, l’hanno catturato. Lui durante una marcia ha finto di cadere in un burrone e l’hanno lasciato lì. Così la mattina dopo si è ripresentato dai suoi compagni, riportando anche la mitragliatrice dicendo: «Ciò, l’è roba del Governo, no poteva miga lasarla là». Dopo la guerra è stato ricoverato per la malaria e per le conseguenze dell’esposizione all’iprite. Poi si è rotto la clavicola, ha dovuto affrontare la morte della primogenita… Insomma, Bottecchia ha sempre dovuto duellare con il dolore, ancora prima che con gli avversari. Basti pensare che portava a casa alla moglie il rifornimento che gli davano alle corse.

E in tutto questo è stato il primo corridore italiano a vincere il Tour de France. Come ci è riuscito?

Con la perseveranza e la fame. Dopo il Giro del 1923, in cui corse da “isolato” e si fece notare arrivando 5° in classifica generale, fu ingaggiato dalla squadra francese Automoto per il Tour dello stesso anno. Doveva aiutare il suo capitano Henri Pélissier, ma si trovò in maglia gialla. Prima della 10ª tappa aveva oltre 12’ di vantaggio sul secondo, Alavoine, e quasi mezz’ora sul terzo, proprio Pélissier. Ma in quella frazione, la Nizza-Briançon, fu vittima di una congiura. Gli misero del lassativo nella borraccia. Così Bottecchia visse una via crucis che al traguardo gli costò 41’ di ritardo sul vincitore e, naturalmente, la maglia gialla.

E chi fu il vincitore quel giorno?

Henri Pélissier, il suo capitano. In questo modo Automoto al termine del Tour fece 1° e 2° in classifica generale. I francesi erano contenti e, tutto sommato, anche Bottecchia. Perché tornò dalla Francia con un contratto principesco per i tre anni successivi, che pose fine ai famosi problemi di schei. E in più la promessa di poter correre da capitano unico. Infatti nel 1924 indossò la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa, poi vinse anche il Tour del 1925.

Nell’antica mola della frazione di San Martino, dove Bottecchia nacque nel 1894, sorge ora un museo a lui dedicato
Nell’antica mola della frazione di San Martino, dove Bottecchia nacque nel 1894, sorge ora un museo a lui dedicato
Bottecchia è rimasto famoso anche per la sua morte, un mistero tuttora irrisolto. Cosa successe quella mattina a Peonis?

Di certo c’è solo che la mattina del 3 giugno 1927 fu trovato ferito e incosciente da un gruppo di contadini sulla strada di Peonis, zona in cui si allenava abitualmente. Lo caricarono su un carro e lo portarono all’ospedale di Gemona, dove i medici riscontrarono due fratture al cranio oltre ad altre ferite meno gravi. Morì il 15 giugno dopo 12 giorni di agonia. Ci sono almeno venti versioni diverse e io nel mio libro le vaglio tutte. Dall’aggressione fascista ad una vendetta legata a giri di scommesse, dal malore alla caduta accidentale. La mia tesi è questa: il mistero si accompagna bene a Bottecchia, lo ingigantisce, lo esalta. Perché lui non appartiene alla storia, ma alla leggenda.