A 36 anni, Fabio Sabatini dice basta, chiudendo una carriera da pro’ durata ben 16 anni. Se si guarda il suo palmarés, i numeri dicono che non c’è neanche una vittoria, ma i numeri talvolta mentono, perché i successi del toscano sono stati tantissimi. Sono le vittorie dei suoi capitani, dei velocisti che hanno dopo anno ha lanciato verso il traguardo, diventando quello che, insieme al danese Morkov, è considerato il più grande “ultimo uomo” della storia recente del ciclismo. Tante volte ha tagliato il traguardo alzando le braccia, perché quei successi erano anche suoi.
La sua figura nel gruppo mancherà e nel ripercorrere la sua storia si capisce come attraverso di lui il ruolo di ultimo uomo sia diventato un cardine delle volate, ma anche qualcosa che la frenesia del ciclismo attuale sta divorando, come tanto altro, nella ricerca spasmodica del campione giovane, del nuovo Pogacar o Evenepoel, dimenticando che questo sport è fatto di tante altre cose.
Iniziamo dalla Milram…
La nostra chiacchierata parte dall’ormai lontano 2006 e dal suo approdo alla Milram, team Professional nel quale Sabatini si ritrovò con un particolare vicino di casa, Alessandro Petacchi: «Lui è di Montecatini Terme, io sono a Camaiore, eravamo a un tiro di schioppo così ci allenavamo insieme. Con lui ho iniziato la gavetta e con Ongarato, Sacchi, Velo, Zabel costruimmo uno dei primi grandi treni per le volate. Al tempo io ero per così dire il primo vagone, ma imparai tantissimo, poco alla volta, gara dopo gara. Capii che le volate sono un meccanismo delicatissimo, dove ci sono mille incastri che devono funzionare».
Nessuno più di te può spiegare che cos’è essere l’ultimo uomo…
Devi capire tantissime cose, essere sempre attento: ci sono variabili che condizionano ogni volata, come dove spira il vento oppure le traiettorie scelte dal gruppo. Bisogna studiare le strade nei minimi particolari: oggi c’è Google Map, ci sono le tecnologie che aiutano, prima dovevi vederle con i tuoi occhi. Ricordo che alla Vuelta mandavamo l’addetto stampa Agostini a visionare gli ultimi chilometri, lui che era stato ciclista e ci raccontava la strada per filo e per segno, curva dopo curva, come prendere le traiettorie, dove chiudere la propria porzione e così via.
Ripercorriamo la tua carriera attraverso i velocisti che hai accompagnato. Iniziamo da Petacchi…
Alessandro è un fratello maggiore. Da lui ho imparato tantissimo, basti dire che per due anni mi ha anche ospitato a casa sua. Mi ha insegnato tantissimo, mi spiegava per filo e per segno la volata in ogni particolare. E’ stato il mentore ideale, quello che purtroppo tanti ragazzi che arrivano oggi al professionismo non vogliono più avere, non ascoltano più…
Daniele Bennati significa parlare del periodo alla Liquigas.
Con lui ho iniziato davvero a fare l’ultimo uomo. Con il Benna la comunicazione era continua, diceva quando partire, quando aspettare e questa partecipazione era totale, mi sentivo veramente parte delle sue vittorie perché era il compimento di una volata fatta bene.
Poi arrivò la Cannondale e Peter Sagan…
Grande Peter, un vero funambolo. Con lui il lavoro era particolare, non serviva tanto tirargli la volata, quanto metterlo in posizione buona per partire. Capitava magari che non te lo trovavi più a ruota e dovevi andarlo a recuperare. Ma alla fine il risultato arrivava…
Hai lavorato anche per Mark Cavendish…
Non sono state molte le volate nelle quali abbiamo lavorato insieme, inoltre già allora era Morkov l’uomo deputato a tirarlo per ultimo. E’ stata però un’esperienza utile e siamo rimasto in buoni rapporti.
Poi due anni con Marcel Kittel…
Con lui si lavorava di potenza, lo portavo dai 400 ai 200 metri, ma la volata iniziava già prima dei 2 chilometri finali. Mi sono trovato bene con lui anche se il nostro era un rapporto molto professionale.
Infine è arrivato Viviani, alla Deceuninck e poi alla Cofidis.
E’ stato il compimento del mio lavoro: con Elia ci lega un’amicizia profonda, fatta di gioie e dolori, nottate a parlare, a condividere tutto. Quando stai oltre 100 giorni in giro per il mondo s’innesca un legame profondo. Le nostre volate sono sempre state meccanismi particolari, avevamo una parola concordata, quando la sentivo significava che dovevo lanciarlo a tutta velocità, oppure che si stava sganciando e andava recuperato. Per questo le sue vittorie mi hanno dato gioie enormi.
Mettiamo tutto insieme: con che spirito chiudi?
Senza rimpianti, penso di essere stato bravo a capire che potevo sì forse vincere qualche corsa, trovare spazi diversi in piccole squadre, ma io volevo il meglio e potevo dare molto di più in quel ruolo specifico. Sono sempre rimasto con i piedi per terra, conscio del mio ruolo e contento di quel che ho fatto.
E’ una questione di approccio dei giovani?
Non solo. Tutti guardano solo i dati, quel che dicono i preparatori, che in base ad essi decidono se farti correre oppure no, ma si dimentica che la corsa ti accresce la condizione per quella successiva e che anche inconsciamente, in allenamento non darai mai quel “di più” che ti viene naturale in gara. I numeri non dicono tutto.
Come saranno le volate del futuro?
Io dico che presto i treni non ci saranno più. All’ultimo Tour io non c’ero e spesso abbiamo guardato le tappe con Cipollini, eravamo d’accordo che alla fine era tutta una confusione, molti sprint vedevano i velocisti compiere mille errori. Cavendish ha vinto tanto proprio perché aveva un treno eccezionale, ma quella gente, i Morkov o i Sabatini della situazione, chi li sostituirà? Io ad esempio ho cercato d’insegnare tanto a Simone Consonni, sarebbe un grande ultimo uomo.
In sintesi, che cosa serve per essere “l’ultimo vagone del treno”?
Innanzitutto acquisire esperienza nel corso del tempo e ne serve tanto. Quell’esperienza ti consentirà di improvvisare quando sei nella m…. perché raramente le cose vanno esattamente come vuoi e devi decidere in pochissimi secondi che cosa fare, sapendo che da te dipende la volata del compagno e la possibile vittoria.
Che cosa farà adesso Fabio Sabatini?
Non lo so, intanto penso di prendere il 1° livello a Firenze, vicino casa, per un futuro da diesse. Quel che è certo è che il ciclismo non lo lascio…