Si rischierebbe di passare per miopi a non riconoscere che una bella fetta di italiani da prima pagina è ferma ai box per problemi di salute. Colbrelli e il suo cuore. Trentin e la pausa forzata dopo il colpo della Parigi-Nizza. Moscon, costretto a fermarsi del tutto per gli strascichi del Covid. Ballerini arrivato al Nord ugualmente con ritardo sempre per il dannato virus. Bagioli, uno dei più attesi, frenato da cadute e uno stato di affaticamento. Con tutti loro al via delle ultime corse, probabilmente la cosa salterebbe meno agli occhi. Già, la cosa…
Il vuoto di corridori di alto livello. Non parliamo di campionissimi, quelli nascono se va bene ogni vent’anni. Parliamo di buoni corridori. Gente tosta, capace di lottare, che evidentemente non c’è, sebbene il nostro movimento produca un quantitativo importante di professionisti a ogni stagione. Più che in ogni altro Paese al mondo. Qualcosa di compulsivo, diremmo, di vagamente… bulimico.
Grazie al “Pozzo”
E così ci siamo ritrovati più indietro delle retrovie, con Pasqualon (34 anni) primo italiano alla Roubaix, Pozzovivo (39 anni) alla Freccia Vallone e Ulissi (33 anni, foto di apertura) alla Liegi. Ottimi corridori di cui andare orgogliosi, ma che non bastano per coprire il vuoto alle loro spalle. Non è andata meglio al Tour of the Alps, dove la presenza dei nostri si notava ai raduni di partenza e in qualche fuga, senza che si sia mai provato a incidere negli ordini di arrivo o nella classifica generale (primo italiano è stato Simone Ravanelli, 37° a 22’57’).
Mangio e butto via. Chi soffre di bulimia fa esattamente questo. E questo è ciò che accade grazie a un sistema incapace di controllarsi e garantirsi qualità di vita e prospettive.
Quanti corridori passano ogni anno? Quanti diventano grandi professionisti? Quanti smettono prima di averci provato? Quanti avrebbero avuto bisogno di crescere ancora? Quanti devono pagarsi da soli i ritiri a inizio stagione o comprarsi quello che gli serve per lavorare? E quanti soldi genera questo commercio annuale in termini di percentuali versate? E perché alla fine si dà sempre la colpa ai corridori – svogliati e rammolliti – come si sente dire di fronte a risultati che non arrivano? Ma sarà davvero tutta colpa loro? E l’ambiente non c’entra proprio mai? Se così fosse, passata un’infornata, il meccanismo riprenderebbe a funzionare. Invece le generazioni passano e il problema rimane. E allora?
Un gradino per volta
Qualche giorno fa, Davide Cassani ha usato parole cristalline. «Si deve fare un gradino per volta, prima di pensare di arrivare in cima alla scalinata. Ma si continuano a prendere ad esempio le eccezioni e si fanno calendari che non hanno l’obiettivo della maturazione, quanto piuttosto la conta delle vittorie».
Mangio e butto via. Diciannove anni, vinci un paio di corse, passi professionista. Fai due anni e se non li hai convinti, a 21 sei in cerca di lavoro. Oppure porti lo sponsor per correre in una continental. Quanti di questi ragazzi, maturando come giusto, avrebbero potuto avere una carriera?
Parliamo di sport?
Adesso, saremo forse illusi, ci aspetteremmo che gente di sport ragionasse avendo lo sport come priorità. Invece ci si attacca al diritto al lavoro, si studiano residenze estere per aggirare le norme federali e si tira avanti. Mangiando e buttando via. Preferendo tante briciole a un buon panino.
Eppure le esperienze non mancano. I vari Colbrelli, Modolo, Pozzovivo, Belletti e Battaglin che uscirono da quella Bardiani, ad esempio, passarono professionisti dopo un percorso solido e convincente fra gli under 23, altrimenti chissà se avrebbero avuto le loro carriere. Il modo giusto di fare le cose lo conosciamo, forse però abbiamo deciso di ignorarlo.
Una delle ultime regole scolastiche prevede che avendo la media di 8 al quarto anno di liceo si possa accedere direttamente alla maturità. In questo stesso senso, bandendo il verbo aspettare dal dizionario, si prelevano corridori dai team U23 o juniores e si inseriscono nei WorldTour. Questo non ci convince, perché nel lungo tempo in cui ad esempio Tiberi ha iniziato a capire il professionismo senza vedere un arrivo e alzare le braccia, avrebbe potuto strutturarsi fisicamente e mentalmente, vincendo e imparando a farlo. Come invece ha fatto Baroncini (anche lui frenato da una frattura), che nell’ultimo anno alla Colpack ha aggiunto importanti mattoni alla sua costruzione.
La FCI cosa fa?
Ci aspetteremmo che la Federazione mettesse mano a questo saccheggio di talenti italiani che, a cascata, svuota il dilettantismo e poi intacca pesantemente il mondo degli juniores. Perché dovrebbero farlo? Intanto le società chiudono. I ragazzi non trovano squadra. Il ciclismo vacilla. Ma dato che da anni nessuno ci mette mano e l’alto livello in qualche modo funziona (su pista e nel femminile), perché dovrebbe essere l’attuale gestione a voler risolvere la situazione?
Una WorldTour italiana
E poi c’è il discorso sempre caro, ma tremendamente concreto, dell’assenza di una squadra WorldTour italiana. E’ per caso, senza andare troppo indietro ma limitandoci a quel che abbiamo vissuto, che Bartoli, Casagrande, Pantani, Simoni, Bettini, Cunego, Basso, Nibali, Pozzato, Viviani e Trentin siano diventati grandi in squadre italiane e abbiano poi spiccato il volo?
Prendiamo Bagioli, forse al momento il più atteso fra gli italiani. Se non fosse stato fermo ai box e fosse andato alla Liegi, avrebbe avuto la minima chance di giocare le sue carte con un Remco del genere in squadra? Assolutamente no e nei confronti della Quick Step-Alpha Vinyl ci sarebbe stato poco da recriminare. Remco è belga, la squadra è belga: vorremmo fosse così anche per noi!
Di questo passo però, Bagioli potrà mai mettersi alla prova contro i migliori in queste corse? Se fosse stato in un team italiano, sia pure all’ombra di un grande leader, è assai probabile che gli avrebbero lasciato lo spazio per affilarsi i denti. Magari avrebbe provato a inseguire Evenepoel. Oppure avrebbe provato a stare con gli inseguitori. Avrebbe corso per crescere e non per aiutare. La mentalità vincente non si coltiva faticando e basta.
Gli interessi di pochi
La speranza è che questo editoriale ci venga ricacciato in gola dalle vittorie dei ragazzi italiani che da anni teniamo nel mirino: non chiederemmo di meglio! Stamattina abbiamo raccontato le speranze su Aleotti, ad esempio. Perché a nostro avviso il problema non sono le mamme italiane né i loro figli. Forse c’entra la società, che insegna a vivere in un mondo touch e virtuale in cui sudore e mal di gambe faticano a essere taggati, ma quello che veramente non funziona è il mondo del lavoro. Si curano da anni gli interessi di pochi a scapito dei tanti che col tempo diventeranno semplici statistiche. Per costruire la grandezza, un po’ come per gli stadi del mondiale di calcio, dove serve tanta forza lavoro a basso costo. E se alla fine qualcuno dovesse emergere, ci faremo belli per averlo scoperto. Dopo averne però mangiati e buttati via a centinaia.