Kreuziger ovviamente non poteva immaginare che la presentazione della sua iniziativa sulla sicurezza stradale – Dam Respekt, darò rispetto – sarebbe arrivata alla vigilia della morte di Rebellin, ma forse oggi più che mai l’impegno di tutti diventa cruciale. A Monaco domenica si stava bene e in giornate come quella fai fatica a pensare alle bruttezze della vita. Davide era uno del gruppo, con la sua maglia Work Service, mentre Roman vestito con la tenuta nera del Team Bahrain Victorious aveva appena illustrato il suo progetto e da lì eravamo partiti per raccontare il primo anno sull’ammiraglia.
«Abbiamo iniziato tre anni fa – raccontava Kreuziger – dopo quello che era successo in Italia con Michele. Mia moglie, un suo collega ed io. Abbiamo visto che sulle strade c’è mancanza di rispetto e così ci siamo messi a pensare cosa si potesse fare. Sono nati dei video, uno spot di pubblicità in televisione, in cui abbiamo messo gli autisti e i ciclisti. Perché alla fine tanta gente li divide e non vuole metterli nello stesso gruppo, però la strada è una e bisogna unirci e rispettarci. Quindi il nostro motto è che non dobbiamo amarci, però rispettarsi già sarebbe importante. Ognuno deve partire da se stesso e dare l’esempio, perché è facile lamentarsi che la colpa sia degli uni o degli altri, in realtà riguarda tutti».
Riguarda tutti: potrebbe essere il prossimo slogan…
I nostri comportamenti finiscono sugli altri, quindi ognuno deve partire da se stesso. Così abbiamo preparato tanti altri video contenuti nel nostro account Youtube e siamo in contatto con le autoscuole, che così cominciano a far crescere la cultura della gente. Abbiamo coinvolto la Polizia, l’Autoclub della Repubblica Ceca, abbiamo tanti ambasciatori di altri Sport, dal tennis al ciclismo, cantanti e artisti. Qui a Monaco c’ero stato l’ultima volta a gennaio per fare i video con Elia, con Jasper Stuyven, con Lizzie Deignan, Wout Poels, Valgren…
Come si va avanti?
L’idea è di portarlo più avanti e sperare di condividerlo con altri Paesi. E’ una strada molto lunga, perché se uno guarda le statistiche sui social media, sembra che ci sia la guerra assoluta. Però guardandole com’erano prima che il progetto partisse, la situazione sta migliorando e questo mi fa piacere. Ma sicuramente non possiamo accontentarci, c’è ancora tanto da fare…
Anche perché nel mezzo c’è il nuovo lavoro di direttore sportivo…
Mi considero fortunato. Ho deciso di smettere e sono entrato in un ambiente di gente che conosco da tanti anni. Mi hanno aiutato tanto, non è un lavoro semplice. Se l’anno scorso non sapevo cosa affrontare, dopo un anno ho capito quanto lavoro c’è per far correre una squadra. Da corridore è molto più semplice. Ti alleni le tue 4-5 ore invece qui sei operativo 7-24 e devi pensare a mille cose. Da corridore non capivi che cosa avessero i direttori da essere stanchi. Adesso è chiarissimo, però penso anche che sono entrato bene e sono contento di continuare a farlo.
Ti ispiri a qualche direttore del passato?
Io penso che ognuno ha il suo carattere e non si può copiare qualcun altro. Però a me è sempre piaciuto Bjarne Riis, come lavorava coi corridori, il feeling che aveva con loro e con il personale. Secondo me, quando credono in un direttore, si fa la differenza, perché non dubitano di quello che gli proponi.
Secondo te essere sceso di bici da un anno è un vantaggio nel parlare con i corridori?
Sì, sicuramente c’è un muro più piccolo. Anche se i corridori dopo un po’ capiscono che sei dalla parte del management, quindi accettano che sei direttore e non puoi concedergli sempre tutto, sicuramente ti sentono ancora vicino. Da noi adesso siamo in due ad essere appena scesi da bici. Vedi le cose in modo diverso, vieni da diverse squadre e anche se al Bahrain c’è una bella struttura, puoi sempre aggiungere qualcosa. Quindi aver smesso da poco è sicuramente un vantaggio.
Da direttore sono più belle le classiche o i Giri?
A me piacciono sempre i grandi Giri, però negli ultimi anni preferivo le corse di un giorno. Per cui in un programma ideale, mi piacerebbe ripartire di nuovo con le Ardenne, perché le sento, le conosco. E sicuramente se il direttore fa le gare di cui era appassionato da corridore, anche dalla macchina riesce a dare qualcosa di più.
Nelle WorldTour ci sono tante professionalità molto specifiche, il direttore deve sapere un po’ di tutto?
A me interessa un po’ tutto. Lo staff è sicuramente cambiato rispetto a quando sono passato io, quando i corridori erano più attaccati ai direttori, mentre adesso la persona di fiducia è il coach e si fanno tanti meeting. Però io sono dell’idea che sentire i corridori è importante come pure non avere solo un certo gruppo. Se ti dicono che hai un gruppo di 5-6 corridori e poi non li vedi durante tutto l’anno, le cose non vanno. Quindi una volta che hai il programma, è importante sentirli e capire le loro idee. Perché una cosa sono i numeri che ti dicono i coach, altro il feeling del corridore con la gara.
Prima della corsa studi il percorso o cosa fai?
Abbiamo una struttura in cui si osservano certi protocolli. Sai cosa ti aspetta, devi studiare più che altro gli avversari e la squadra che hai. Io ad esempio ero uno che nei grandi Giri faceva tanti calcoli. Invece nelle gare di un giorno bisogna essere più aperti e non avere paura. C’è da rischiare e avere corridori giovani lo rende più facile, perché quelli vecchi sanno già come vanno le cose. I giovani sono più flessibili.
Tu sei stato uno junior fortissimo e poi sei passato a 19 anni. Gli junior fenomenali di adesso somigliano a quel Roman?
Secondo me sono molto più avanti, perché gli juniores di oggi sono quasi corridori fatti. Hanno già conosciuto nutrizionisti e allenatori. Da un lato penso che sia bene che tutto si sposti un po’ più avanti. Dall’altro però è sbagliato, perché secondo me non bisogna scordarsi che gli juniores e prima gli allievi devono prima finire le scuole. Non possono diventare tutti i professionisti, invece secondo me qualcuno se ne sta dimenticando. E questo è un errore.