«Sono in questa squadra dal 2010, quando era ancora una continental. Di quel gruppo siamo rimasti solo tre corridori», parole di Cesare Benedetti vera colonna portante della Bora-Hansgrohe. All’epoca il team si chiamava ancora NetApp ed era il sogno di un ragazzo, Ralph Denk, che da ex corridore aveva dapprima iniziato a riparare bici in un garage, poi aveva aperto un negozio, poi ancora aveva allestito un team di Mtb, quindi aveva creato una squadra juniores su strada e finalmente era riuscito ad avviare la sua avventura nel modo del professionismo.
Quella che segue è una bella storia di ciclismo, una storia della quale un ragazzo in particolare, Giovanni Aleotti, dovrebbe far tesoro. La storia di un corridore duro, di quelli che ogni cosa se l’è conquistata da solo, con il sudore, di quelli che faticano molto e vincono poco. Insomma uno di quei corridori che piace alla gente.
Benedetti uno di casa
Ma com’è stare in un team straniero, tanto più tedesco dalla testa piedi? C’è freddezza?
«Una famiglia? Piuttosto dico che mi trovo bene con tutti coloro che sono passati – dice Benedetti – e sono stati tanti. Ho un rapporto confidenziale con tutti ormai, ma resta pur sempre un ambiente lavorativo. Io sono sempre stato qua da quando sono professionista. Non saprei come funziona nelle altre squadre.
«Ho la fortuna che essendo trentino non mi discosto molto dalla mentalità rigida. In Bora sono esigenti, diretti e il team manager, seppur giovane, è di vecchio stampo: con lui basta una stretta di mano. Però se c’è un’idea quella è: dieci è dieci. Ma attenzione, non saremo come un team che ha tanti colombiani ma ci si diverte lo stesso. Specie con Sagan, Postlberger, Grosschartner …».
Denk sarà tedesco però è colui che ingaggia un istrione come Sagan e la scommessa Palzer, lo scialpinista.
Quel no della Liquigas
Trovare un ciclista che per tanti anni resta nello stesso gruppo è sempre più una rarità. Benedetti conosce bene ogni meccanismo del team, sia perché ne fa parte da tanto tempo, sia perché ne ha colto la mentalità ed è cresciuto con questo.
«Nel 2009 – racconta Cesare – ho fatto uno stage con la Liquigas. Sembrava mi prendessero, ma a fine settembre mi dissero che non si poteva fare. Uno dei direttori sportivi di questo team che stava per nascere era Enrico Poitschke, il quale a sua volta era stato diretto da Oscar Pelliccioli alla Milram. Io con Oscar avevo corso alla Bergamasca dove faceva il ds. Il collegamento fu lui quindi. La NetApp inoltre cercava corridori delle Nazioni in cui intendeva investire e così intrapresi questa scommessa di andare in una continental. Dico scommessa perché se ne sentivano tanti già all’epoca di team che volevano crescere, ma pochi poi ci riescono».
Tuttavia i primi anni non furono facilissimi. Benedetti “emigrò” in Belgio, sul confine tedesco, dove la squadra aveva il magazzino e partiva per le gare.
«Ho rischiato anche di perdermi. Tutto nuovo, anche gli allenamenti. Non c’erano salite vere per allenarsi. Eravamo in 5-6 ma non era chissà che gruppo. Inoltre per i primi tre anni non avevo il potenziometro, né il preparatore. Col senno del poi feci anche degli errori.
Già non avevo una mentalità vincente e mi ritrovavo ancora più afflitto. Anche fare il gregario non era facile. Se hai il velocista che se tutto va bene fa ottavo non è che la squadra va a tirare. Non potevo mettermi in mostra neanche in quel senso.
«Poi ad un tratto arrivò gente che lottava per la vittoria. E così anche io potevo farmi vedere. Nel 2016 cambiò tutto. Feci un sacco di corse, anche il Tour e la Vuelta, cosa che mi diede molto sul piano fisico. La testa poi fece il resto. Mi ritrovai alla mia prima Sanremo a lavorare per Sagan che poteva vincerla. Mi dissero che avrei dovuto tirare tra la Cipressa e il Poggio. Impossibile non farsi trovare pronti con Sagan che lotta in maglia iridata. Ho scoperto dei limiti. Fu un ulteriore miglioramento».
Benvenuto Aleotti
Un corridore come Benedetti vicino è una manna per un ragazzo che arriva in questo team. E il pensiero finisce subito a Giovanni Aleotti, neoacquisto della Bora Hansgrohe.
«Ho visto Giovanni quei pochi giorni in ritiro in Germania e cosa dirgli? E’ difficile per uno come me. Lui passa professionista da grande vincente. Ha conquistato il campionato italiano, ha fatto secondo a l’Avenir, ha vinto molte corse: da quel punto di vista non saprei davvero cosa potrei dargli.
«Posso però offrirgli dei consigli su come comportarsi in squadra, aiutarlo a tenere il morale alto se avrà difficoltà, cosa che non è detto accada. Spero che nel finale avrà più gambe di me! Magari cercherò di fargli capire quali sono i momenti quando davvero conta stare davanti e quando magari ci si può rilassare.
«Per quel poco che lo conosco la mentalità tedesca non lo spaventerà. Mi sembra già molto inquadrato ed è un ragazzo che tiene la cresta bassa. Vedo che già presta cura ai dettagli, magari dovrò consigliarlo a lasciarsi andare in alcuni momenti. Anche io da giovane ero molto ligio, ma non sempre è un bene».
Infine ci sono i direttori sportivi con cui avrà a che fare Aleotti, tutti stranieri. Anche in questo caso Benedetti non è banale.
«Ho legato di più con il preparatore Helmut Dollinger – conclude Benedetti – che con loro, ma ci sono due ds con cui è tanto che lavoro: Poitschke e Pomer. Soprattutto con Pomer che stava sulla seconda ammiraglia alcuni anni fa ho passato più tempo, perché ero spesso in fuga e lui mi seguiva. Io però credo che quel certo distacco deve esserci. Non dico che il corridore debba temere il ds, ma quel rispetto non deve mancare».
Come a dire: certe distanze fanno bene. Capito Aleotti?