Salita e velocista, dicotomia più che binomio. Da sempre le ruote veloci del gruppo fanno molta fatica quando la strada sale. La loro conformazione fisica non li aiuta di certo: più muscoli, più peso, più esplosività e meno resistenza e, se vogliamo, anche meno attitudine mentale a questo a sforzo. Uno dei velocisti che più incarna questo prospetto è (è stato) Francesco Chicchi, iridato U23 nel 2002 a Zolder e professionista per ben 14 stagioni, dalla Fassa Bortolo (2003) all’Androni Giocattoli (2016), oggi ds in forza al Team New Speedy Bike Casano.
Velocista puro addio
E il problema si va ad acuire. Oggi infatti anche nelle tappe altimetricamente più facili ci sono non meno di 1.500-2.000 metri di dislivello. Simone Consonni vinse un campionato italiano U23 che non era affatto facile. C’era una salita da ripetere molte volte. Non era lunga ma era dura. E infatti non si arrivò con una volata di gruppo. Eppure oggi Simone è considerato un velocista.
«Vero – commenta Chicchi – basta pensare alla vittoria dell’italiano di Nizzolo quest’anno o a quella di Viviani qualche anno fa, quando arrivò in gruppo con Visconti e Pozzovivo. Pozzovivo, scalatore.
«Il velocista moderno deve essere in grado di scollinare con gruppi anche di 50-60 corridori, altrimenti rischia grosso o non arriva nel finale con la giusta forza. Oggi sprinter come me o Napolitano farebbero tanta, ma proprio tanta fatica. Credo che il velocista puro andrà a scomparire».
Salite a tutta
Ma cos’è che rende il velocista puro o meno? Contano anche gli allenamenti? Lavorare più in salita va a modificare le peculiarità dello sprinter?
«Un ragionamento che ci sta. Lavorare in salita fa perdere quel chilo o due, anche di muscolo, che ti fa fare lo sprint a 71 all’ora anziché a 72. Senza contare che lavorare per la salita ti fa perdere esplosività. La salita per il velocista è come l’aglio per i vampiri! Anche in allenamento…
«I lavori sono più o meno gli stessi per tutti: scalatori, passisti, sprinter. Si va dalle SFR ai 40”-20”, ma il velocista deve pensare che in salita è costretto ad andare sempre “a tutta”, perché il piano dello scalatore è il forte del velocista. Per questo se deve fare 10 ripetute ci sta che alla fine ne faccia 8, tanto è in acido lattico».
Velocisti-scalatori
«Credo che oggi sia cambiato il modo dei velocisti di lavorare in salita. Fanno più chilometri di salita in allenamento, anche perché le tappe davvero piatte non ci sono più. Io vinsi il Manservisi: 200 chilometri di pianura. Oggi anche la più piccola delle corse ha uno “zampellotto”. Non ho numeri certi, ma credo che oggi uno sprinter faccia almeno il 30 per cento di salita in più rispetto a 10 anni fa.
«Come facevo io le salite? Con tanta pazienza! Avendo come maestro Petacchi ricalcavo un po’ il suo schema, quindi salite di 3 chilometri fatte così: 1° chilometro fuori soglia, 2° al medio, 3° a soglia. Era un esercizio che allenava la resistenza a stare a tutta. Però si faceva così tanto acido lattico che magari alla quarta salita dicevi: vabbè questa la faccio piano».
«Oggi gli sprinter fanno salite più regolari, impostando un passo di 2-3 chilometri orari più forte della soglia e si aiutano molto con il dietro motore. L’idea del velocista è quella di accorciare il tempo di fatica. Di velocizzare. Guadagnare 10” su una scalata per scollinare 30 posizioni più avanti».
Approccio mentale
E si tende ad andare più regolari. Ci si affida agli strumenti e l’approccio alla salita è diverso, anche mentalmente, se vogliamo.
«Il velocista (ma non solo lui) è anche più attento a tavola. A me è capitato di correre anche con 4 chili in più e di arrivare alla volata, oggi sarebbe impossibile. Guardate anche quest’anno come è andata. Non avevano corso eppure alle prime gare erano già tutti magrissimi.
«E sì, chiaramente cambia anche l’approccio mentale e credo siano seguiti da chi di dovere. Io le tappe mi spaventavo solo a vederle sulla cartina! Quando faticavo ero lì a pensare: ho mangiato troppo. Quella salita l’ho impostata male… Ci pensavo un po’ troppo insomma e sprecavo energie».