1995-2025: Nocentini, come sono cambiati gli juniores?

16.08.2025
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Leggendo l’intervista a Riccardo Del Cucina pubblicata pochi giorni fa, il nome di Rinaldo Nocentini (saltato fuori fra le righe come suo preparatore) ha acceso la nostra curiosità. In primis perché non sapevamo che l’aretino si dedicasse alla preparazione di atleti. E poi perché giusto trent’anni fa, il 30 luglio del 1995, il “Noce“ conquistava il podio ai mondiali juniores di San Marino, dietro Valentino China e Ivan Basso. Così, col pretesto di salutarlo, gli abbiamo chiesto di fare un paragone fra il suo ciclismo di allora e quello cui sta preparando il giovane atleta toscano.

Il 1995 è una vita fa. In Italia inizia la diffusione della linea GSM, con la possibilità di sfruttare la messaggistica dei cellulari. I social non esistono. Al governo c’è Dini. Di Pietro lascia la magistratura dopo la stagione di Mani Pulite e finisce a sua volta sotto inchiesta. La lira soffre sui mercati internazionali. La Juventus vince il 23° scudetto, Rominger il Giro, Indurain il quinto Tour (nell’anno tremendo della caduta di Casartelli) e Jalabert la Vuelta, come pure Sanremo e Freccia Vallone. Ai mondiali di Duitama, Olano conquista l’iride davanti a Indurain e Pantani, che subito dopo rimane coinvolto nella caduta di Superga. Quel giorno a San Marino il podio iridato e lo sventolare del tricolore annunciano una grande stagione per il ciclismo italiano.

Nel 1995 ai mondiali juniores di San Marino, podio italiano: oro a China, poi Basso e Nocentini (foto Libertas.sm)
Nel 1995 ai mondiali juniores di San Marino, podio italiano: oro a China, poi Basso e Nocentini (foto Libertas.sm)
Prima di tutto, caro Rinaldo Nocentini, perché conosci Riccardo Del Cucina?

Lo conosco perché lui è di Montemarciano, che è a un chilometro da casa mia. Conoscevo suo padre che correva da dilettante e tre anni fa mi chiese se gli davo una mano con gli allenamenti e da allora è rimasto con me. Quindi non faccio il preparatore, ma seguo soltanto lui. Le cose sono cambiate davvero molto, anche da quando correvo io (Nocentini si è ritirato nel 2019, ndr). Per fortuna, avendo passato parecchio tempo con Pozzovivo, mi sono sempre confrontato con lui sulle preparazioni moderne, per cui riesco a seguirlo bene.

In che modo ti allenavi nel 1995 quando eri uno junior?

Mi ricordo che noi, abitando qua e andando a scuola, eravamo un gruppetto di 4-5. C’era un tale di Pontassieve che veniva a prenderci con il pulmino e ci portava a San Miniato e facevamo l’allenamento tutti insieme il pomeriggio. E ci allenavamo tipo corsa, le salite si facevano a tutta. Ci allenavamo il martedì e il venerdì e poi la domenica andavamo a correre.

Facevate lavori specifici?

Proprio no. Mi ricordo d’inverno un po’ di palestra, ci facevano camminare in montagna e il resto della condizione me la dava la bicicletta. Ho iniziato a fare i lavori con Marcello Massini, da dilettante alla Grassi Mapei.

Nocentini ha affinato le sue conoscenze sulla preparazione stando a lungo con Pozzovivo
Nocentini ha affinato le sue conoscenze sulla preparazione stando a lungo con Pozzovivo
In nazionale con il cittì Fusi non facevate lavori?

Facemmo il ritiro a Livigno. Mi ricorderò sempre l’Albula fatta senza mani per il potenziamento. Senza mani perché ci dicevano di non tirare sul manubrio e allora, per evitare che lo facessimo ugualmente, facevamo le ripetute senza mani per forzare solo con le gambe.

Si correva più o meno di ora?

Si correva solo la domenica, non c’erano tante corse a tappe. Il Lunigiana, poi ricordo una corsa a tappe in Valle d’Aosta, ma per il resto l’attività era limitata. In più correvamo con i rapporti limitati, con il 52×14. Devo dire che quando passai dilettante, l’adattamento fu graduale, perché Massini ai ragazzi giovani permetteva di correre poco e di adattarsi ai ritmi e alle distanze. 

Da junior pensavi già al professionismo?

Ce l’avevo nella testa, anche perché ero uno che aveva sempre vinto. Nel senso che se al secondo anno da junior vinci dieci corse e fai terzo al mondiale, sai che il sogno del professionismo è possibile. Ma sapevo anche che la strada fosse parecchio lunga. La mia fortuna fu che dopo il primo anno da U23, la Mapei mi mise sotto contratto, a patto che rimanessi per tre anni nelle categorie giovanili. E infatti passai nel 1999.

Quanto era lunga la distanza che facevi in allenamento?

Per quel che mi ricordo, si parlava di un’ottantina di chilometri, 90 massimo. Anche perché, allenandomi dopo la scuola, si cominciava alle tre e mezza del pomeriggio e si tornava in tempo per studiare e poi andare a cena. Non si mangiavano cose particolari. Il petto di pollo e un po’ di pasta prima della corsa, però durante la settimana mangiavo quello che faceva mia mamma.

Per Del Cucina un buon 4° posto nella seconda tappa del Medzinárodné dni Cyklistiky (foto FCI)
Per Del Cucina un buon 4° posto nella seconda tappa del Medzinárodné dni Cyklistiky (foto FCI)
E adesso parliamo di Riccardo Del Cucina…

Bè, per cominciare, il Casano in cui corre lavora con Erica Lombardi, quindi hanno il supporto della nutrizionista anche per i giorni della settimana. Sono seguiti come se fossero già professionisti. Il loro preparatore è Pino Toni, ma Di Fresco ha detto che di me si fida e quindi gli sta bene che lo segua io. Per cui imposto le settimane e la stagione dopo aver visto il programma di gare. A quel punto passo il programma alla nutrizionista, che calibra la parte alimentare. Mi regolo molto anche guardando il momento del ragazzo.

Ad esempio?

Ultimamente è andato forte, ha vinto una tappa al Valdera e fatto quarto di tappa con la nazionale (foto sopra, ndr). All’ultimo però lo vedevo stanco, per cui gli ho detto di mollare, di divertirsi sulla bici. Di non fare lavori e di rilassarsi di testa. Infatti subito dopo è andato forte e ora sta lavorando per un bel finale di stagione e nel frattempo ha fatto anche lo stage di allenamento con la Tudor.

Il suo programma settimanale somiglia al tuo di trent’anni fa?

No, le ore sono di più e vedendo i suoi watt, bisogna dire che sono quasi gli stessi di quando ero io professionista. Lui il professionismo ce l’ha fisso in testa. Quest’anno ha smesso di andare a scuola, passando a un corso on line: ha fatto l’esame finale a Roma e ora può pensare solo alla bici. Lo scorso inverno il padre mi ha chiesto che cosa potesse fare per iniziare bene la stagione. Gli ho detto di portarlo a Calpe e di farlo lavorare per un mesetto, è finita che sono stati per due mesi. Però all’inizio di stagione volava, lui fa proprio tutto per la bicicletta. Il padre mi ha detto che per lui gli juniores sono il trampolino per il professionismo.

E tu sei d’accordo?

Potrebbe avere ragione. Può andare in una squadra come la Tudor, se lo prendono, in cui farebbe un calendario come quello dei Reverberi. Altrimenti ho idea che se finisce in una squadra di dilettanti che fa solo attività locale, rischia di non venire fuori.

Secondo Nocentini, lo stage con il Tudor Development Team potrebbe essere un ottimo step di crescita per Del Cucina
Secondo Nocentini, lo stage con il Tudor Development Team potrebbe essere un ottimo step di crescita per Del Cucina
Che corridore potrebbe diventare?

Lui è parecchio veloce. Prima faceva le volate di gruppo, però quest’anno gli ho fatto anche cambiare un po’ gli allenamenti, nel senso che ha fatto più salita. Non a caso, le due corse che ha vinto avevano entrambe l’arrivo in salita.

Torniamo al Nocentini del 1995: spingendo più sul gas, saresti stato in grado di passare professionista a 19 anni?

Penso di no, perché prima era totalmente un altro mondo. Non si era pronti per andare a fare i professionisti subito, mentre ora a 19 anni vedi arrivare Evenepoel che vola e non c’è soltanto lui. Prima era difficilissimo, magari ci potevi provare, però dopo un paio d’anni non ti vedevano più.

Quanto è lunga una sua distanza?

Saranno 120-130 chilometri. Però se l’anno dopo vai in una squadra che ti porta alla corsa a tappe con i professionisti, bisogna che un minimo ti abitui alla fatica. Perché di là se ne fa davvero tanta, questo glielo ripeto ogni giorno…

Nocentini, 9 anni (e 9 giorni in giallo) alla corte di Lavenu

01.09.2024
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Ha fatto notizia il recente licenziamento di Vincent Lavenu da team manager della Decathlon-Ag2R La Mondiale, squadra da lui fondata nel 1992. Dapprima si chiamava Chazal-Vanille, poi diventò la Casinò e infine, dal 2000 al 2023, ha avuto come primo sponsor Ag2R.

Qualunque fosse il nome, Lavenu è stato per 32 anni l’anima di quella realtà, tuttora il più antico team professionistico francese in attività. Capace di conquistare complessivamente 19 vittorie di tappa al Tour de France, 5 al Giro d’Italia e 7 alla Vuelta a España.

Ne abbiamo parlato con Rinaldo Nocentini, nove anni alla corte di Lavenu, tra i quali spicca un 2009 memorabile in cui ha indossato per 8 tappe la maglia gialla al Tour de France. Oggi il toscano collabora con una squadra juniores che si chiama Mepak.

Rinaldo, come hai preso la notizia del licenziamento di Lavenu?

Non ne sapevo niente, me l’ha detto l’altro giorno Enzo Vicennati al telefono. Mi sembra molto strano, qualcosa dev’essere successo, si devono essere rotti degli equilibri. Anche perché normalmente i francesi sono molto attenti a queste cose, a gestire queste dinamiche internamente. Ripeto, è strano che sia stato licenziato così, a stagione in corso, subito dopo il Tour. Avrebbero potuto aspettare la fine dell’anno, quando anche l’attenzione mediatica è meno presente. Ho letto che sembra possa entrarci il caso doping di Bonnamour. Quello che posso dire io è che con noi ha sempre trattato il discorso doping molto chiaramente e rigidamente. Quindi l’impressione è che, forse, la nuova dirigenza possa avere preso la palla al balzo per sistemare attriti interni con questo pretesto.

Di lui che ricordi hai, che tipo di team manager è stato?

Ho corso nella sua squadra per nove stagioni, dal 2007 al 2015, ed è sempre stato un ottimo manager. Meticoloso, sempre presente nelle gare più importanti, al Tour la prima ammiraglia la guidava lui. Personalmente mi ci sono sempre trovato bene, perché ha un carattere molto tranquillo, ci potevi parlare, non era uno che urlava o sbraitava. Per esempio, quando sono stato in maglia gialla ha lasciato che mia moglie rimanesse con noi tutti i nove giorni, assieme alla squadra, una cosa tutt’altro che scontata. Mi trattava come un figlio, si potrebbe dire.

Hai accennato a quella maglia gialla del 2009, un momento speciale per te ma anche per tutto il team. Ci racconti com’è andata?

Quel giorno era in maglia gialla Cancellara, e alla riunione della mattina avevamo deciso di andare in fuga. La tappa era Barcellona-Andorra, arrivo in salita oltre i 2000 metri. Alla fine ci siamo riusciti, in tutto eravamo in dodici, due della nostra squadra. All’inizio ovviamente pensavo solo alla tappa, poi negli ultimi chilometri è passato la moto con la lavagnetta che diceva che avevamo ancora quasi 6 minuti di vantaggio. In quel momento ho detto, ok, ci provo, vediamo se riesco a prendere la maglia. Non mi sono più preoccupato di seguire gli scatti degli altri e sono andato su del mio passo, anche se mi ricordo che c’era vento contro ed è stata molto dura. Ma dopo l’arrivo del gruppo, quando abbiamo capito che avevamo conquistato la maglia, è stato fantastico.  In hotel abbiamo festeggiato tutti assieme, per quanto possibile durante un Tour de France, e Vincent era più che felice, radioso.

Anche perché quella maglia poi l’avete tenuta per molte altre tappe, otto in totale.

Esatto, otto tappe più il riposo, nove giorni in totale. Non è stato facile perché avevo solo 6’’ di vantaggio su Contador e 8 Armstrong. Quindi sarebbe bastato un buco, una volata, per cui è stata battaglia ogni giorno. Poi c’è da dire che a loro, i favoriti, andava anche bene che la maglia la tenessimo noi, almeno per un po’. Quel periodo per noi è stato bellissimo, il giorno di riposo poi hai il mondo addosso, tutti ti cercano, tutti vogliono farti interviste. A fine Tour calcolarono che il valore della visibilità per lo sponsor data da quei giorni in maglia gialla era quantificabile in circa 60 milioni di euro. Capite bene perché Vincent non poteva che essere contento.

Facciamo un passo indietro, all’inizio della tua esperienza con Lavenu. Qual’è il tuo primo ricordo a riguardo?

Molto bello direi. La prima corsa con loro è stato il Giro del Mediterraneo e sono riuscito a vincere la 4ª tappa, quella del Mont Faron. Era la salita simbolo della gara, dove avevano vinto campioni come Bartoli e Casagrande. Lavenu lì non era mai riuscito a vincere, e così è stato un tripudio. Mi ricordo che feci la premiazione e poi partimmo subito in macchina per correre in albergo a berci una birra tutti assieme. Eravamo appena partiti quando gli addetti dell’antidoping ci hanno bussato sul finestrino per fermarci. In quanto vincitore di tappa dovevo presentarmi al controllo, ma dalla contentezza tutti in squadra se n’erano dimenticati. Ovviamente poi siamo scesi e l’abbiamo subito fatto.

Un team manager presente e allo stesso tempo alla mano, insomma.

Direi proprio di sì. Mi ricordo un altro episodio, al Tour del 2010. Quell’anno ero reduce da un infortunio, quindi tendevo a correre sempre in fondo al gruppo. Ad un certo punto Lavenu è venuto da me e mi ha detto, con la sua pacatezza ma comunque molto deciso: «Non penserai mica di stare lì tutto il tempo…». Allora ho annuito e ho subito risalito il gruppo.

Per finire un’ultima domanda su quel magico 2009. Quel Tour non era nei tuoi programmi ad inizio stagione. Quando hai saputo che ci saresti stato?

La stagione iniziò bene con la vittoria di una tappa al Giro di California, poi purtroppo presi la mononucleosi. Al campionato italiano però feci bene e il giorno dopo, era un lunedì, Lavenu mi chiamò per chiedermi se volessi andare al Tour. Io ovviamente accettai di corsa, perché si trattava della mia prima volta alla Grande Boucle. In squadra c’era una certa aspettativa perché l’anno prima avevamo fatto 9° e 10° in classifica con Valjavec ed Efimkin. Io avrei dovuto aiutarli, ma loro ebbero dei problemi e alla fine io feci 13°, un risultato di tutto rispetto per un esordiente. Però nulla a confronto con quei 9 giorni in giallo. Quelli, per me e per la squadra, certamente anche per Vincent Lavenu, valsero quasi un podio.