Visita Alessandro Petacchi a casa di Giancarlo Ferretti (immagine Instagram)

Petacchi e quelle due ore indimenticabili a casa di Ferretti

28.09.2025
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«A parte il rispetto – dice Petacchi – per Giancarlo Ferretti nutro un affetto smisurato. Io non avevo mai conosciuto il Sergente di Ferro, come lo chiamavano. Per me è stato una persona speciale. Al Giro d’Italia del 2000 andai per tirare le volate a Konychev. Ero in camera da solo, perché si correva ancora in nove e avevano chiesto se volessi dormire da solo. Non era un bel periodo e una sera me lo ritrovai in camera alle undici. Aveva capito che stavo attraversando una crisi e venne a parlarmi. Ne uscì all’una, si parlò di tutto meno che di ciclismo. E da quel momento per me divenne una persona di riferimento».

L’occasione per riaprire le pagine di questo splendido diario è stata un post su Instagram. Ci sono le foto di Petacchi che abbraccia Ferretti: il tecnico che diede la svolta alla sua carriera. «Semplicemente fantastico vederti – c’è scritto – abbracciarti e aspettare il passaggio dei corridori del Giro di Romagna assieme a te, Ferron, ed alla tua famiglia. Ho passato un paio d’ore indimenticabili piene di emozioni veramente forti».

Foto che toccano il cuore, riportando a galla tempi vissuti come una conquista. Anni in cui l’Italia aveva gli squadroni e andava nel mondo con i suoi capitani. Fra loro, Giancarlo Ferretti, per tutti Ferron, era uno dei più impavidi. Si era circondato dello stesso gruppo di lavoro: i suoi amici, che con gli anni divennero una famiglia. E quando si mise al lavoro per creare la Fassa Bortolo, fra i corridori individuati c’era anche un certo Alessandro Petacchi che alla corte di Reverberi aveva vinto una sola corsa ed era spesso in fuga.

Giro d'Italia 2003, Avezzano, Giancarlo Ferretti sull'ammiraglia e Alessandro PEtacchi in maglia rosa
Al Giro del 2003, Petacchi indossa la maglia rosa per le prime sei tappe: qui con Ferretti all’ammiraglia
Giro d'Italia 2003, Avezzano, Giancarlo Ferretti sull'ammiraglia e Alessandro PEtacchi in maglia rosa
Al Giro del 2003, Petacchi indossa la maglia rosa per le prime sei tappe: qui con Ferretti all’ammiraglia
Come andò?

Se devo essere sincero, mi chiamò perché gli avevano parlato di me. Giancarlo non sapeva quasi che corressi in bici. Poi il giorno dopo mi vide in televisione. Ero al Giro d’Italia e andai in fuga al chilometro zero. Gli piacque come stavo in bicicletta, lo stile che avevo e la sera mi chiamò. Mi disse che faceva una squadra e voleva sapere se mi interessasse andare. Io gli dissi di sì, assolutamente sì. Andò così. Ero seguito da Cecchini, mi allenavo da lui. E quando Ferron cominciò a cercare un po’ di corridori per fare la squadra, chiamò il Cecco. Fu lui a fargli il mio nome, gli disse di fidarsi e di provare a seguirmi in qualche tappa del Giro, perché ai tempi andavo spesso in fuga.

Cominciò davvero tutto così?

Sapevo chi era Ferretti e non mi intimoriva assolutamente quello che si diceva di lui. Poi chiaramente col tempo ho imparato a conoscerlo. Semmai in quel primo Giro avevo paura di non ricambiare la fiducia che mi avevo dato. E lui fu bravo. Se mi avesse aggredito o schiacciato, probabilmente avrei smesso di correre per il carattere che avevo in quel momento. Invece Giancarlo mi capì perfettamente. Non mi è mai stato addosso, mi ha sempre lasciato molto tranquillo, mi ha dato la tranquillità di cui avevo bisogno.

Visita Alessandro PEtacchi a casa di Giancarlo Ferretti (immagine Instagram)
L’occasione per la visita di Petacchi a Giancarlo Ferretti è stato il Giro di Romagna (immagine Instagram)
Visita Alessandro Petacchi a casa di Giancarlo Ferretti (immagine Instagram)
L’occasione per la visita di Petacchi a Giancarlo Ferretti è stato il Giro di Romagna (immagine Instagram)
Come proseguì quel Giro?

La mattina dopo, mi ricordo che c’era la tappa di Vasto e avevamo Tosatto con la maglia rosa, che mi pare avesse preso il giorno prima a Peschici. Nella riunione ci disse: «Ragazzi, siamo in maglia rosa e dobbiamo onorarla. Per cui collaboriamo con la Saeco che tirerà per Cipollini». Poi guardò verso di me e disse la frase che credo mi ricorderò tutta la vita. «Tu non tirare, stai vicino a Dima (Dimitri Konychev, ndr), fai quello che sai fare. Se rimani con me, ti stuferai di vincere».

Un’investitura da brividi…

Io rimasi un po’ così: ma cosa sta dicendo? Fino a quel momento, in quattro anni da professionista avevo vinto solo una corsa in Malesia. Evidentemente lui sapeva quello che potevo fare, anche se penso che nessuno potesse aspettarsi che avrei vinto così tanto. Però sapeva che potevo diventare sicuramente migliore. Infatti dopo il Giro d’Italia, cominciai a vincere in Lussemburgo. Poi andai alla Vuelta e vinsi le prime due tappe in un Grande Giro. E anche lì, fu lui che da casa a dare la svolta.

Giro d'Italia 2003, Lecce, Alessandro PEtacchi batte Mario Cipollini in volata
A Lecce, nel Giro 2003, accade l’impensabile: Petacchi batte Cipollini iridato nella prima tappa
Giro d'Italia 2003, Lecce, Alessandro PEtacchi batte Mario Cipollini in volata
A Lecce, nel Giro 2003, accade l’impensabile: Petacchi batte Cipollini iridato nella prima tappa
Perché da casa?

Giancarlo alla Vuelta non veniva mai. Io tiravo le volate a Baldato, però Fabio non riuscì a ingranare più di tanto. Così Ferron chiamò i direttori sportivi, mi sembra ci fossero Zanatta e Volpi, e gli disse che il giorno dopo avrebbero dovuto provare a fare la volata per me: «Quello che la squadra fa per Baldato, domani lo fate per Petacchi». Ricordo che il primo giorno non andò così e lui si arrabbiò.

Che cosa fece?

Richiamò e disse che se non lo avessimo fato il giorno dopo, avrebbe preso l’aereo e sarebbe venuto giù. Fu così che cominciai a fare le volate con la Fassa Bortolo e in quei sei anni vinsi 100 corse, cambiando la filosofia di Giancarlo. A lui piaceva attaccare e andare in fuga, aveva una squadra molto combattiva. Avendo un corridore come me, costruì l’ambiente migliore.

Quando nel 2005 le vostre strade si divisero, continuasti a sentirlo?

Sempre. Quando avevo bisogno di una chiacchiera o di una decisione, lo chiamavo. Per me Giancarlo è sempre stato un punto di riferimento.

Uno dei capolavori della Fassa Bortolo e di Petacchi fu di certo la Sanremo del 2005
Milano Sanremo 2005, Alessandro Petacchi
Uno dei capolavori della Fassa Bortolo e di Petacchi fu di certo la Sanremo del 2005
Nel ciclismo di oggi ci sarebbe ancora posto per un ammiraglio di quel taglio?

Per quello che mi ricordo, Giancarlo ha sempre avuto una mentalità aperta. Non avrebbe avuto difficoltà a sposare l’idea di avere un preparatore o un nutrizionista. Era figlio di un ciclismo di vecchio stampo, però è sempre stato aperto. E poi avrebbe anche oggi il suo punto di forza nel rapporto umano, che si sta un po’ perdendo. Vedo squadre con tanti preparatori, tanti nutrizionisti, magari 30 corridori sparsi per il mondo. Tutto questo altera i rapporti fra le persone. Nel gruppo di Ferretti, i rapporti personali erano la chiave e ancora oggi con tutti loro è rimasto un rapporto incredibile.

Davvero una famiglia?

In un certo senso, sì. Come sono partiti, così sono arrivati. Alla fine, le persone sono rimaste più o meno sempre quelle. I cinque o sei anni, sarà cambiato forse un massaggiatore o un meccanico. In proporzione cambiavano di più i corridori, salvo tre o quattro di noi che Giancarlo definiva i soci fondatori, perché c’eravamo all’inizio e ci siamo stati fino alla fine. Mi vengono in mente Baldato e Petito.

Visita Alessandro PEtacchi a casa di Giancarlo Ferretti (immagine Instagram)
Il momento più difficile, ammette Petacchi, è quello di andare via (immagine Instagram)
Visita Alessandro PEtacchi a casa di Giancarlo Ferretti (immagine Instagram)
Il momento più difficile, ammette Petacchi, è quello di andare via (immagine Instagram)
Che effetto fa ogni volta che vai a fargli visita?

Se vedo che posso andare, chiamo sempre sua figlia Federica. Quando arrivo, lo vedo che è contento. Mi saluta a modo suo, mi fa qualche raccomandazione e poi lo vedo che si emoziona e che questo mondo gli manca. Da una parte mi dico che così è la vita, però mi dispiace che ci soffre quando mi vede andare via. Quella è una cosa che mi fa stare male, ma trovo che sia bello che ci sia ancora questo rapporto. Con me c’è stato anche Volpi, che ci è passato anche Michele (Bartoli, ndr). Ferretti ha toccato la vita di tanti corridori, credo sia giusto ricordarselo.

Fra una settimana tutti a Laigueglia, nel giardino di Pozzato

26.02.2025
5 min
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Gli facciamo notare che, battuto definitivamente Merckx, il suo record di vittorie al Trofeo Laigueglia (2003, 2004 nella foto di apertura, 2013) non è ancora nel mirino di Pogacar. Questo basta a Pozzato per farsi una risata e tornare con la memoria a quando la corsa ligure gli fece capire di essere diventato un corridore. Era il 2003, il vicentino correva con la Fassa Bortolo, dopo i tre anni con la Mapei. Avevano appena vinto la cronosquadre al Giro del Mediterraneo e lui per primo aveva colto un secondo posto, così Giancarlo Ferretti gli mise a disposizione la squadra per la corsa italiana.

«Mi ricordo l’impostazione di gara – ricorda Pozzato – io arrivavo da quel secondo posto in cui forse mi ero toccato con Bettini e avevo perso la corsa. Probabilmente avrei vinto in rimonta, se non mi avesse chiuso nell’ultima curva. Mi ricordo che Petito parlò con Ferretti dicendogli che andavo veramente forte. Allora Giancarlo venne con i suoi modi diretti e mi disse: “Adesso vediamo se sei forte per davvero!”. E’ stata la prima volta che mi davano la responsabilità di una squadra così importante. C’erano tutti quanti: Kirchen, Frigo, Tosatto, Petito, Cioni, Ivanov e Gustov. Tutti a disposizione per farmi vincere. Mi tennero tutto il giorno come se fossi veramente un capitano di quelli affermati. L’anno prima avevo vinto 14 corse, ma quel giorno vinsi su Sacchi, Baldato e Bettini e capii che era iniziato il ciclismo vero».

Filippo Pozzato, 43 anni, è stato pro’ dal 2000 al 2018: ha 49 vittorie in bacheca fra cui la Sanremo, due tappe al Tour e una al Giro
Filippo Pozzato, 43 anni, è stato pro’ dal 2000 al 2018: ha 49 vittorie in bacheca fra cui la Sanremo, due tappe al Tour e una al Giro

Il Trofeo Laigueglia si correrà fra una settimana, mercoledì prossimo, il vincitore uscente è Lenny Martinez. Per instradare l’attesa siamo andati proprio da colui che ne ha vinti tre. Domenica ci sarà la Omloop Het Nieuwsblad, vinta da Pippo nel 2007, poi il ciclismo dei professionisti prenderà il via anche in Italia sulle strade della Liguria. Torniamo a quel 18 febbraio del 2003 e alle parole di Pozzato, che in questi giorni è al lavoro per organizzare il Carnival Circuit di Sandrigo, dove la bicicletta sarà per una serata motivo di valorizzazione del territorio, evasione, burla, svago.

Ferretti all’epoca era l’equivalente italiano di Lefevere, forse anche più vincente. Che effetto fece sentirlo parlare a quel modo?

Erano cose che mi gasavano ed era comunque un test necessario. Anche Tosatto me lo disse subito: “Oggi vediamo se hai i coglioni!”. Era il modo di crescere di quegli anni, con il senso di sfida per farti prendere responsabilità e farti diventare grande più in fretta. A me piaceva. Al netto dei problemi che abbiamo avuto, Ferretti è stato il primo che mi ha insegnato a prendermi delle responsabilità e che mi ha messo a disposizione la squadra che a quel tempo era la più importante del mondo. Avevo vent’anni, non era una cosa da tutti e lo apprezzai molto.

Andavi forte davvero, quell’anno avresti vinto anche la Tirreno-Adriatico…

E secondo me avrei vinto anche la Sanremo, perché volavo. Invece caddi in discesa, coinvolto nella caduta di Cassani. Forse è stata la Sanremo che sono andato più forte di tutti (la vinse invece Bettini su Celestino e Paolini, ndr).

Che cosa rappresentava il Trofeo Laigueglia in quegli anni?

Per me è sempre stata la corsa di inizio stagione e forse quando l’ho vinta la prima volta era la più importante. Si ricorda più spesso la tappa del Tour, ma con Laigueglia sono entrato nel grande ciclismo. Poi con l’avvento del WorldTour è cambiato tutto. Adesso però la stanno riportando su.

Hai vinto la terza a dieci anni dalla prima, 2003-2013. Percorso diverso, avversari diversi…

Per me è sempre rimasta la corsa importante dei primi tempi, di quando c’era il ciclismo di una volta, anche se a livello internazionale dopo i primi anni 2000 la situazione è cambiata. Avrei potuto vincerla anche nel 2009 quando si impose Ginanni, ma ebbi delle incomprensioni con Ballan e chiudemmo io secondo e lui quinto. E’ sempre stata una corsa speciale perché, abitando a Monaco, si svolgeva anche vicino casa mia. Nel 2013 avevo già corso il Tour de San Luis e poi le gare di Mallorca, ma restava la corsa d’apertura e la sentivo sempre mia, ma questo è un punto di vista personale.

Eri uno cui serviva correre per andare forte?

Assolutamente. Avevo bisogno di correre, perché c’era anche un modo diverso di allenarsi, adesso invece arrivano e vanno forte già dalla prima corsa. Non so come facciano, è un modo completamente diverso di affrontare le gare e forse è quello che ho sofferto a fine carriera. Non riuscivo ad allenarmi come si allenavano i più giovani.

Il Trofeo Laigueglia… riscalda l’asfalto dell’Aurelia nell’imminenza della Sanremo
Il Trofeo Laigueglia… riscalda l’asfalto dell’Aurelia nell’imminenza della Sanremo
Cosa ricordi dei vari percorsi che sono cambiati?

Il primo anno che l’ho vinta, scollinai bene sulla salita del Balestrino. Primo Bettini con Celestino e io ero subito dietro e lì ho capito che andavo forte. L’anno dopo invece passai a un minuto e mezzo dalla testa: ero 6 chili più dell’anno precedente, però sono riuscito a vincere lo stesso, ma in maniera completamente diversa. Nel 2013, invece, andavo forte e la Lampre era a mia disposizione. Mi ricordo che Niemiec fece un lavoro incredibile in salita. La tirò tutta con me a ruota e nessuno riuscì a partire. In finale il percorso era cambiato, si arrivava da Andora. Ci furono attacchi in tutti i modi per farmi fuori, ma vinsi facilmente in volata

Tempo fa si parlò della possibilità che, in quanto organizzatore, prendessi tu il Trofeo Laigueglia…

E’ vero, ci sono stati vari contatti. Ho degli amici da quelle parti, ma perché io possa organizzare una corsa, oltre all’incarico da parte del Comune che è proprietario della gara, serve che ci siano anche i presupposti economici. Però è vero, lo ammetto: mi piacerebbe un giorno provare a organizzare il Trofeo Laigueglia. Sarebbe come chiudere il cerchio.

Chicchi: 20 anni fa a Zolder il mondiale al quarto anno da U23

22.09.2022
4 min
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Vent’anni fa, sulle strade di Zolder, che incoronarono campione del mondo Mario Cipollini, si mise in luce un altro velocista: Francesco Chicchi. Sullo stesso rettilineo il toscano di Camaiore si aggiudicò la maglia iridata della categoria under 23. Una volata di potenza pura a testa bassa sul manubrio, un successo forse insperato ma che gli ha aperto le porte del ciclismo dei grandi

Francesco Chicchi
Chicchi ha smesso di correre nel 2016 dopo 14 anni di carriera nel mondo del professionismo
Francesco Chicchi
Chicchi ha smesso di correre nel 2016 dopo 14 anni di carriera nel mondo del professionismo
Francesco, cosa ricordi di quei giorni?

Ormai i ricordi sono rimasti veramente pochi – ride – si parla di 20 anni fa. Ricordo però che il percorso mi piacque molto, era sostanzialmente tutta pianura ad eccezione di due strappetti. 

Che corsa fu?

Durante tutta la gara ebbi la fortuna di rimanere a ruota, avevamo la nazionale con quattro ragazzi che avevano il compito di entrare in fuga. Fusi, il cittì dell’epoca, aveva concordato che se non si fosse creato un gruppetto, la strategia era tirare per me ed arrivare in volata. 

Francesco Chicchi
Dopo aver smesso di correre Chicchi è stato diesse della Dimension Data Continental nel 2019
Francesco Chicchi
Dopo aver smesso di correre Chicchi è stato diesse della Dimension Data Continental nel 2019
Dalle immagini si vede che un tuo compagno, Bucciero, è stato ripreso ai 300 metri dall’arrivo…

Nell’ultimo giro ognuno dei miei compagni cercò di tirare acqua al proprio mulino, Antonio (Bucciero, ndr) scattò sull’ultimo strappo per anticipare tutti. Io ebbi la fortuna di rimanere a ruota, battezzai le ruote di Dekkers e Baumann, i due più rapidi. Nella curva a “esse” vidi lo spazio per inserirmi più avanti, ci fu una caduta dove loro due furono coinvolti. Rimasi in piedi quasi per il rotto della cuffia e lanciai lo sprint venendo fuori da dietro a tutta.

Una volata in solitaria.

Sì, ma non posso certo recriminare ai miei compagni di non avermi dato una mano, i piani saltarono ma è comprensibile. Al mondiale under 23 ti giochi il passaggio nel professionismo ed una buona fetta di carriera. 

Tu l’anno dopo passasti in Fassa Bortolo.

A Zolder arrivavo al quarto anno da dilettante, l’anno della maturazione: o passavo oppure avrei smesso. Si trattava di un mondiale facile nella stagione dove ero sbocciato e quella vittoria mi ha proiettato nel professionismo. 

Peccato non aver potuto indossare quella maglia…

E’ un po’ un paradosso, ma è così. Vinci il mondiale e se ti va bene metti la maglia due o tre volte. E’ un peccato non vedere l’arcobaleno nelle gare, però è anche vero che la vera ricompensa è passare nel ciclismo dei grandi.

Quando si vince il mondiale under 23 è difficile godersi la maglia iridata, il salto nei professionisti arriva di conseguenza
Quando si vince il mondiale under 23 è difficile godersi la maglia iridata, il salto nei professionisti arriva di conseguenza
Come andò in Fassa Bortolo?

C’era tanta aspettativa nei miei confronti, tutti si aspettavano questo Chicchi super veloce ed esplosivo pensando fossi già pronto per competere con i migliori. Arrivare quell’anno in Fassa Bortolo era l’equivalente di giocare nel Barcellona. C’erano i migliori corridori al mondo: Bartoli, Cancellara, Pozzato, Petacchi, non dico che fu un errore passare in quella squadra perché è impossibile rifiutare una proposta del genere. Però fu difficile per me ritagliarmi un posto e con quei super campioni soffrii il passaggio.

Tu hai trovato queste difficoltà al quarto anno da dilettante, ora l’età si è abbassata ancora di più.

Qui mi sembra che l’età del passaggio al professionismo sia una cosa che si abbassa ogni anno. Ci sono juniores che già firmano contratti da pro’, se mi si chiede se sia giusto rispondo “ni”. Ci sono dei casi in cui è normale ed è quasi giusto, se si pensa ad Evenepoel, ma in altri è giusto che il corridore faccia il suo percorso di crescita tra i dilettanti. E’ normale che poi ci siano atleti che fanno l’ascensore tra pro’ e dilettanti, basta mezza stagione storta e torni giù, è tutto molto estremizzato

Questo trend però vale in tutti gli sport…

Chiediamo troppo ai giovani ed insegnamo poco. Talvolta mi trovo a parlare con juniores ed allievi che vogliono il procuratore, a 20 anni pensano di essere arrivati, ma non è così. Manca la base di apprendimento. In Italia i tecnici bravi ci sono e bisogna dare il tempo di formare i ragazzi e lavorare.