Siamo proprio sicuri che l’avvicinamento degli azzurri alle Olimpiadi sia stato il migliore possibile? Nella stessa sera della corsa Cassani è parso rassegnato davanti alla superiorità degli avversari. E all’osservazione se non sarebbe stato meglio suggerire ai nostri ragazzi la partecipazione al Tour de France, la sua risposta è stata trasparente: «Non posso essere io a suggerire ai team dove far correre i loro atleti». Sacrosanto, eppure paradossalmente la situazione avrebbe fornito l’occasione di lavorare diversamente. Facciamo un passo indietro.
Occasione mancata
Quando alle Olimpiadi correvano i dilettanti, che nell’anno olimpico non disputavano neppure il mondiale tanta era l’importanza dei Giochi, la federazione approntava un piano di avvicinamento e preparazione al limite del maniacale. Nulla doveva sfuggire al caso. Prima di Barcellona 1992, Giosuè Zenoni e Antonio Fusi misero in tavola un programma pazzesco che fruttò l’oro su strada di Casartelli e l’argento nella 100 Chilometri. Quando lo stesso Fusi, divenuto tecnico dei pro’, iniziò a preparare la trasferta di Sydney, toccò con mano l’estrema difficoltà del suo nuovo ruolo.
Il professionismo non rinuncia alla sua agenda, figurarsi se l’Uci rinuncerebbe mai a un mondiale ogni quattro anni. Eppure proprio questa volta, con il solo Nibali al Tour e gli altri in montagna, perché la Federazione non ha colto la palla al balzo, organizzando un ritiro con gli altri e gestendo il loro avvicinamento?
Niente mai per caso
In una chiarissima intervista con Laura Martinelli, è emerso chiaramente che l’avvicinamento ideale alle gare giapponesi, dati fuso orario e caldo, avrebbe richiesto di trasferirsi là due settimane prima. In questo quadro, una dettagliata strategia alimentare e di integrazione avrebbe permesso agli azzurri di adattarsi alla grande umidità e di non ritrovarsi, ad esempio, alle prese con i crampi. In una altrettanto chiara intervista con Malori a proposito di Van Aert, è emerso che sarebbe stato meglio andare a Tokyo 2-3 giorni prima, in modo da non avere il tempo di risentire di fuso e fattori ambientali: vado, corro e riparto. I nostri sono volati in Giappone una settimana prima della corsa e a quanto ci risulta, a parte le prelibatezze di Mirko Sut, non avevano una strategia alimentare per assorbire il cambio di ambiente. C’era da sperare che ad essa avessero pensato le loro squadre.
Il Tour e la Sardegna
I primi otto di Tokyo venivano dal Tour. Sono arrivati in Giappone quattro giorni prima della corsa avendo nelle gambe l’abitudine alla fatica sviluppata in Francia. I nostri che cosa hanno fatto?
Si sono allenati da sé fra Livigno e lo Stelvio. Poi hanno corso in Sardegna (in apertura, Bettiol e Caruso).
Bastano tre giorni di gara su percorsi da velocisti per essere all’altezza di coloro che escono dal Tour? Non sarebbe stato quantomeno necessario chiedere di avere tappe durissime, visto l’impegno che li attendeva?
Valgono più di così
Quando alle Olimpiadi andavano i dilettanti, gli organizzatori erano ben lieti di adattare i percorsi delle gare di preparazione per partecipare allo sforzo olimpico. Questa volta non è andata così. E priva di un piano di avvicinamento convincente e senza corse nelle gambe, l’Italia è andata a Tokyo come i nostri antenati sfidarono l’inverno russo con le scarpe di cartone. Le Olimpiadi avrebbero meritato una programmazione di profilo più alto. Quei cinque ragazzi valgono molto più di quel che hanno potuto dimostrare e non possono essere i programmi dei team a scandire la preparazione della nazionale per le Olimpiadi. Se solo fossero stati preparati al pari di coloro che li hanno piegati come fuscelli, a Tokyo ne avremmo viste delle belle.