Se metti un direttore sportivo di 70 anni a guidare un team di juniores non è detto che ne tirerai fuori dei corridori, ma è abbastanza certo che se gli esiti dell’esperimento non saranno quelli sperati, la colpa sarà tutta dei ragazzi. Non ci sono più i corridori di una volta: il titolo è già fatto. Eppure i corridori ci sono e non è un caso che l’unica categoria davvero in attivo del ciclismo italiano sia quella dei loro agenti. Sono loro che danno la linea dello sviluppo, che prendono i corridori e li distribuiscono fra i vari team. Se qualche regola li ostacola, trovano con competenza la via d’uscita. Fanno la loro parte, poco da rimproverargli. Se porti un goloso in pasticceria e lo lasci libero di prendere quel che vuole, sai già che non farà prigionieri.
In questi pochi mesi che porteranno alle elezioni federali, questo sarà uno dei fronti più caldi. Non tanto per imporre dei vincoli che la legge europea sul lavoro può scavalcare senza troppi problemi, ma per cercare di rimettere lo sport al centro del ragionamento. Siamo certi che chi gestisce il ciclismo giovanile abbia le carte in regola? Con quali argomenti può confutare le tesi dei procuratori? Siamo certi che non sia arrivato il momento per un sostanzioso ricambio su alcune ammiraglie? I corridori ci sono, i corridori di oggi: sottoposti a tensioni da cui quelli di una volta sarebbero stati sbriciolati (in apertura una foto dal Giro della Lunigiana). Quanto può cambiarti la vita un contratto da professionista se non sei in grado di onorarlo come (giustamente) ci si aspetta?
Pro’ a 18 anni
Uno dei primi punti di domanda fu il passaggio al professionismo di Tomas Trainini nel 2021, a 19 anni appena compiuti. Correva alla Colpack e anche a Villa d’Almé rimasero stupiti vedendolo andar via. I suoi giorni di corsa tra i professionisti non arrivarono a 15 e nell’aprile del 2022 annunciò il ritiro. Le motivazioni sulla sua presunta fragilità furono prese per buone, perché dubitarne? Resta il fatto che, essendone a conoscenza, probabilmente quel contratto non andava neanche proposto. E da quel giorno anche Reverberi imparò a prendere meglio la mira.
E’ di questi giorni notizia del ritiro di due corridori dal devo team della Soudal-Quick Step: il britannico Cormac Nisbet e Gabriel Berg, un promettente francese classe 2005, passato a 19 anni . In una intervista molto interessante su L’Equipe proprio lui spiega il perché della sua scelta. Questo un passaggio.
«La mia vita ruota attorno al ciclismo. E’ diverso da quando correvo alla Argenteuil da junior e andavamo alle gare con gli amici nel fine settimana. La mia età ha avuto un ruolo nella decisione di smettere. A 18 anni non ero pronto, era troppo presto. Non avevo la maturità per mettere tutto da parte per il ciclismo. Non sapevo come trasformare la mia passione in una professione. Ero pronto per rendermi conto a 30 anni che mi ero perso gli anni migliori della mia vita? Ma quello che non ha funzionato per me funziona anche per altri, come Matys Grisel, Léo Bisiaux o Paul Seixas (campione del mondo junior della crono, ndr) che sono diventati professionisti molto giovani».
La catena di montaggio
Quello che va bene per uno non funziona necessariamente per gli altri, invece è diventato regola. L’orologio biologico che un tempo era riferito quasi unicamente alla maternità oggi investe i corridori con ripercussioni che non tutti siamo in grado di immaginare. Da un lato è giusto capire per tempo di non essere tagliati per un certo lavoro. Va bene che nel frattempo si finisca la scuola, in modo da non arrivare a 23 anni sul mercato senza arte né parte. Dall’altro è semplicemente assurdo che non ci sia una via di mezzo per chi a 18 anni vorrebbe avere il tempo di capire e si ritrova invece in un frullatore.
«I miei compagni di squadra sono colleghi – racconta ancora Berg – facciamo il nostro lavoro. Veniamo pagati circa 450 euro al mese. Vogliamo andare tutti nel WorldTour. Tutto è fatto in modo perché tu debba soltanto pedalare. La mia preparazione è molto più avanzata e più scientifica che negli juniores, ad Argenteuil. Faccio dei test. Prendono i livelli di lattato, i livelli di CO2… E’ un altro mondo. Sono in contatto con il mio allenatore e i direttori sportivi. Vedo un nutrizionista e un medico se ne ho bisogno».
Il mondo di adesso
Montoli ha smesso perché nessuno l’ha cercato e a 22 anni si è sentito vecchio. Leo Hayter ha smesso per fragilità psicologiche troppo grandi che il WorldTour ha reso più evidenti. E poi ci sono coloro che son sospesi. Come Alessandro Verre, mandato troppo giovane alla Arkea senza che ne avesse l’urgenza e la solidità. Dopo tre anni e calendari cambiati senza una logica che vedesse lui al centro del ragionamento, si ritrova alla ricerca di un contratto. Non avrebbero meritato di crescere, fare il loro percorso negli under 23 e poi tentare il grande salto quando fossero stati pronti?
In questa società così diversa, di famiglie spesso disintegrate e valori dispersi, lo sport giovanile è un momento educativo e aggregativo e non un’agenzia di avviamento al lavoro. I ragazzi di oggi hanno mille fragilità che sarebbe indecente non considerare. Occorre quindi un accordo fra le parti per stabilire che 18 anni sono spesso pochi per l’accesso ai vertici. Occorre garantire un’attività di livello anche senza finire necessariamente all’estero. Se vengono a prenderli da noi a 19 anni, vuol dire che sono forti e che fino agli juniores s’è lavorato bene. Non è possibile che avere la struttura giusta in tempi più lunghi sia necessariamente una condanna al fallimento.