La storia di Mary Cressari: quell’Ora da cui nacque tutto

12.12.2022
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«Tempo fa partecipavo a un dibattito. A un certo punto un giornalista specializzato disse che il ciclismo femminile in Italia è nato negli anni Ottanta. Non ci ho visto più: “E allora, caro il mio signore, il record dell’Ora del 1972 chi lo ha stabilito?”. E’ diventato di tutti i colori». Parole di Mary Cressari, che a 78 anni non ha perso neanche una briciola della sua verve, di quel carattere spumeggiante che la portò a emergere nel ciclismo a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta.

La Cressari è stata per lungo tempo l’unica italiana capace di stabilire il record dell’Ora (poi ci è riuscita Vittoria Bussi), quello che ora, in campo maschile arricchisce il palmares di Filippo Ganna. La conquista di quel record fu un’autentica avventura e a cinquant’anni di distanza molti si sono ricordati di questa ricorrenza. Mary si sottopone di buon grado, ogni volta, ad aprire lo scrigno dei ricordi, ma ogni volta compare sempre qualche spunto diverso, importante.

La Cressari vanta 4 titoli italiani su strada dal 1964 al 1973, più due nell’inseguimento
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«Chi ci mette i soldi?»

La storia di quel record nasce da prospettive ben diverse: «Il mio obiettivo era conquistare i record dei 5, 10 e 20 chilometri, ma decisero che il 30 ottobre avrebbero chiuso il Vigorelli e quindi mi trovavo senza velodromo dove allenarmi e tentare i primati. Venne da me il presidente della società Terraneo suggerendomi di provare i record in Messico dove Merckx aveva appena realizzato il primato dell’ora, a patto che provassi anche io ad allungare. “Bell’idea – feci io – ma chi ci mette i soldi?”. Da lì Terraneo mise in moto tutto il movimento e arrivarono i fondi per provarci.

«Mi allenai a Busto Garolfo, ma l’ora non l’avevo mai fatta, così iniziai ad allungare. Il 17 novembre siamo partiti, un po’ all’avventura. Solo il giorno prima avevamo pagato la tassa necessaria per il tentativo e fatto la richiesta del medico perché fosse valido. Le difficoltà però erano tante e avevamo solo una settimana a disposizione».

La Cressari in pista a Città del Messico: il caschetto è quello del tentativo di Merckx
La Cressari in pista a Città del Messico: il caschetto è quello del tentativo di Merckx

Una Pogliaghi personalizzata

I problemi principali riguardavano la bici: «Prima di partire, il mio diesse Alfredo Bonariva chiese informazioni su tutto quel che sarebbe servito e su quel che avremmo trovato a Città del Messico ad Albani, il direttore sportivo che aveva accompagnato Merckx nel suo riuscito tentativo. Avevamo impostato la preparazione su molte delle sue indicazioni, ma non avevamo una bici adatta. Mi offrirono una Pogliaghi superleggera, pesava 4,7 chili, l’avevano realizzata proprio per il record dell’ora tentato dal dilettante Brentegani tre anni prima. Le misure c’erano, ma c’era da lavorarci sopra perché al tempo sulla bici non potevano apparire pubblicità all’infuori del mio gruppo sportivo.

«Toccò lavorare di carta vetrata sui tubi e anche sulla sella per togliere il marchio Selle Italia. Il risultato fu che andavo avanti e indietro sulla bici e non era proprio la situazione ideale… Pochi però sanno che come casco utilizzai lo stesso di Merckx, nel senso che il campione belga lo aveva dimenticato negli spogliatoi del velodromo. Lo riadattammo alla mia testa con un po’ di imbottiture…».

«Rinunciare? Non se ne parla…»

L’appuntamento era previsto per il mercoledì mattina, era il 22 novembre: «Realizzai i record dei 10 e 20 chilometri e tirai dritto, ma avevo speso tanto nella prima parte. Alla fine mancai il record per appena 70 metri e scoppiai a piangere. Non avevamo i fondi per restare e riprovarci. Venne da noi il console italiano e ci disse che era esaltato dall’impresa e che non se ne parlava di rientrare. Dovevo riprovarci, avrebbe sostenuto lui tutte le spese supplementari».

L’esperienza fu utile per riuscire nell’intento: «Il giorno dopo riposai perché ero distrutta, al venerdì feci il tentativo di record sui 5 chilometri che riuscì. Dovevamo però concentrarci sull’Ora. Prevedemmo di provarci il giorno dopo ma cambiammo i rapporti, passando dal 51×15 al 55×16. E questa volta partii più piano, d’altronde dovevo pensare solo all’Ora, così nel finale avevo più energie e chiusi con 41,471 metri e 74 centimetri. Sì, ricordo anche quelli…».

Il miglior risultato ai mondiali per la bresciana arrivò alla sua ultima presenza: decima nel 1973
Il miglior risultato ai mondiali per la bresciana arrivò alla sua ultima presenza: decima nel 1973

I rapporti con la Fci

Quel record ebbe risonanza? «Molta, ma erano tempi diversi e non era facile gestirla. Mi offrirono molti ingaggi pubblicitari ad esempio, ma non potevo accettarli perché avrei perso lo status di dilettante. Il nostro, quello femminile, era un ciclismo alla disperata. Non ci voleva nessuno e le cose non cambiarono così tanto. Soprattutto la Federazione mal ci sopportava. Pensate ad esempio che nel 1974 non ci portarono ai mondiali perché dicevano che non eravamo all’altezza. Io per tutta risposta andai al Vigorelli e feci il record mondiale sui 100 chilometri: altro che non all’altezza…».

La carriera di Mary è vissuta spesso su scontri con la Fci: «Avevano messo il limite di attività a 30 anni, ma io andavo ancora forte, protestai e lo tolsero, poi lo posero a 35 anni. Dissi: “Ma come, ai mondiali la Burton partecipa a oltre 40 anni con sua figlia? Il limite dobbiamo averlo solo noi?”. Lo tolsero, ma io avevo praticamente saltato la preparazione per colpa loro e non ottenni risultati all’altezza degli anni precedenti. Era il 1979 e decisi che ne avevo abbastanza».

La consegna della sua bici al Museo del Ghisallo: a sinistra il diesse Bonacina, a destra il presidente Terraneo
La consegna della sua bici al Museo del Ghisallo: a sinistra il diesse Bonacina, a destra il presidente Terraneo

Lo sgarbo di Los Angeles ’84

Poco dopo le offrirono l’incarico di commissario tecnico della nazionale femminile: «Naturalmente gratis… Intanto però era stata accettata la proposta di portare le donne alle Olimpiadi, io cominciai a lavorare con tre ragazzine che mi sembravano adatte al percorso di Los Angeles. La Canins non lavorava con noi, ma d’altronde era una ciclista atipica. Doveva per forza staccare tutte perché non aveva volata, io volevo lavorare con atlete più adatte. In Federazione fecero storie, io dissi che avrei pagato di tasca mia per la loro permanenza. Risultato: a Los Angeles portarono la Canins e tre altre atlete, le mie, quelle federali, non vennero neanche tenute in considerazione. Era troppo…».

La Cressari diede le dimissioni e da allora ha guardato in tv la crescita del ciclismo femminile, invitata spesso da organizzatori e appassionati: «Quando guardo le campionesse di oggi penso che siano lì anche per le battaglie che sostenni io, per i sacrifici che affrontavamo in famiglia pagando tutto di tasca nostra. Oggi? Un altro mondo…».