Uno scambio di messaggi con Garzelli nell’ultimo sabato di Glasgow, quando ormai non si vedeva l’ora di rientrare a casa, ci ha permesso di scoprire che appena dopo il ritorno a casa, Stefano si sarebbe imbarcato in una nuova avventura.
«Domani finisco – ha scritto – lunedì riparto, poi il bello sai qual è? Che giovedì parto io con la mia ammiraglia e vado al Giro di Portogallo con cinque allievi, tra cui mio figlio (in apertura il varesino con i due figli, Marco e Luca), a fare il direttore sportivo. Mille chilometri per arrivare alla partenza, tre tappe, poi domenica ritorno e finalmente muoio».
Quanti spunti in tre righe? Una corsa a tappe per allievi e un direttore sportivo che guiderà suo figlio dall’ammiraglia. Per questo gli abbiamo chiesto di prendere nota di tutto e fare foto, che di certo lo avremmo richiamato. Siamo stati di parola.
Com’è andata questa trasferta?
E’ andata bene. E’ la terza volta che vado in Portogallo con gli allievi, tramite un aggancio avuto tre anni fa con l’organizzatore Sergio Sousa, grazie a Joao Correia, il manager di Almeida e Geoghegan Hart. Era stata ed è stata ancora una bella esperienza, perché hanno un modo differente di correre rispetto agli allievi qui in Spagna. Anche più chilometri e dinamiche simili a quelle dei professionisti.
In che senso?
C’è un bel tempo massimo, quindi anche se vai in crisi può raggiungere il traguardo. Però le tappe sono più lunghe. In Portogallo li fanno crescere più rapidamente, vogliono il risultato prima.
E’ già abbastanza interessante che si faccia una corsa a tappe per allievi, no?
Ce ne sono tante anche in Spagna, di due-tre giorni, anche quattro. Una cosa che in Italia non c’è, anche se in certi momenti forse è troppo. La prima tappa era di 80 chilometri, ma facile. La seconda erano 78, ancora facile. La terza tappa era di 80 chilometri, con arrivo duro in salita. Non l’avevano mai fatto. La prima volta che sono andato, vincemmo la prima tappa perché avevamo una squadra molto forte. Poi piazzati nella seconda. Invece saltammo nella terza.
Andiamo con ordine, cosa hai fatto dopo i mondiali?
Lunedì sono andato a Milano, mercoledì sono arrivato a Valencia e il giovedì sono partito in macchina con i miei due figli: Luca il corridore, e Marco il più grande, che mi ha fatto da assistente. Il venerdì è arrivata un’altra persona che mi aiuta e poi sono venuti anche i genitori degli altri corridori, che l’hanno presa come una piccola vacanza.
Quanto è durato il viaggio?
Dieci ore. Siamo partiti giovedì mattina alle 6,30 perché alle 15,30 c’era la punzonatura e dovevo esserci. Quindi ho dovuto fare una tirata unica.
Che cosa rappresenta un viaggio così per una squadra di allievi?
Un regalo che gli faccio. Vai a correre in un Paese diverso, è stimolante. Dormivamo quasi tutti in grandi camerate, i corridori mangiavano tutti insieme, è qualcosa di nuovo. Per me è stato impegnativo, però penso che come esperienza sportiva sia molto utile per crescere.
E come è andata?
Abbiamo fatto quinti nella generale e per due giorni abbiamo avuto il leader del GPM, poi abbiamo fatto un altro quinto posto. Purtroppo alla fine c’era via una fuga di 15 con tre minuti e sull’ultima salita ha attaccato Goncalo Rodriguez, che è arrivato con 40 secondi, staccando tutto il gruppo. Così noi per 20 secondi non siamo arrivati sul podio e per 40 non abbiamo vinto la corsa.
Com’è la gestione del gruppo?
In Portogallo le radioline non ci sono, ma radio corsa ha lavorato molto bene, perché cadute ce ne sono state e non poche, idem le forature. Ne ho approfittato per insegnare ai miei ragazzi dove andare per il rifornimento, il fatto di alzare la mano quando fori, restando in coda al gruppo e segnalando a radio corsa se è la ruota anteriore o la posteriore. Stare dietro è un bello stress, però se imparano la gestione di questi momenti delicati, ne escono più maturi.
In Spagna si usano le radio anche fra gli allievi?
Sono l’unico che negli ultimi tre anni ha continuato a fare senza, ma in Spagna è così. Io ho detto di no, perché voglio che imparino a correre. Se gli dico ogni cosa, non impareranno mai a parlare tra loro, a capire come gestire le situazioni.
A che ora partivano le tappe?
Eravamo in una zona del Portogallo dove di mattina fa anche fresco, invece nel pomeriggio si arrivava a 35-38 gradi. Si partiva alle 10 e si correva fino alle 12,30-13. Quindi sveglia per lo staff alle 6 per preparare le macchine e per i corridori alle 7. Colazione e viaggio verso la partenza. Nel pomeriggio invece hanno corso le donne U19 e in questa settimana tocca agli juniores.
Colazione da corridori?
Mangiavano una via di mezzo, perché alla fine devono fare 80 chilometri. Cercavamo di impostarla come una buona colazione, magari se c’era anche con un po’ di riso, tanto per iniziare a prendere degli stimoli nuovi. E dopo ci trovavamo sotto, si caricavano le macchine, si andava alla partenza, presentazione delle squadre, firma, controllo rapporti e poi si correva.
Tanti misuratori di potenza?
Devo dire di sì. La categoria allievi è molto orientata sul professionismo. Io non sono d’accordo, stanno bruciando le tappe, però adesso funziona così e loro si adattano. Mio figlio è allievo di secondo anno e ancora non ce l’ha, ma l’anno prossimo passa nella squadra juniores della Electro Iper Europa, l’unica continental spagnola, quindi inizierà a lavorare per forza con il misuratore di potenza. Piuttosto, in Portogallo i rapporti erano ancora limitati.
In Spagna no?
No, da quest’anno in Spagna hanno i rapporti liberi, gli allievi usano il 53×11, come gli juniores. Prima c’era il 52×16, mentre in Portogallo abbiamo trovato il 52×14, quindi si vedeva gente cambiare i pignoni, bloccare i cambi, mettere il nastro isolante sul pacco pignoni. Abbiamo dovuto adattarci alle regole locali.
Sei riuscito a passare del buon tempo con i tuoi figli?
Abbastanza. Marco, il grande che aveva fatto questa corsa due anni fa, mi ha aiutato veramente tanto. Ha sofferto, ha vissuto per la prima volta una corsa della macchina, avendo in gruppo il fratello che tra l’altro è caduto. Era la seconda tappa, è andato giù a 60 all’ora a 4 chilometri dall’arrivo. Ha preso botte alle ginocchia, però non si è pelato per niente. Devo dire che è stato particolare anche per me…
Perché?
Quando sei dietro la corsa, ci sono tantissime cadute e tante problematiche. Io sono direttore sportivo, ma anche padre, quindi molte volte vado in conflitto con altri, perché vedo pericoli che altri non vedono. Perciò il giorno della caduta, Marco è sceso, ha aiutato suo fratello a cambiare la bicicletta, perché la sua era rotta. Sono stato momenti molto intensi.
Hai parlato delle famiglie dei corridori che sono venute con voi.
La nostra non è una mega squadra con chissà quali strutture. Abbiamo una macchina, un furgone e tanta voglia di andare a correre in bici. Vista la passione, i genitori vengono e aiutano. Li mando a fare rifornimento, ad altri passo le borracce per andare all’arrivo ad aspettare i corridori. Alle mamme faccio mettere quattro sedie nella zona dove ci sono tutti i furgoni. Abbiamo sempre fatto così, è il modo che abbiamo avuto in questi anni io e mia moglie di gestire la squadra.
Più pesante il viaggio di andata o il ritorno?
Quello di andata, perché nel ritorno hai ancora l’adrenalina della corsa. Parli di come è andata, analizzi le cose. Il ritorno, devo dire, è stato proprio un bel viaggio. Sarà stato anche pesante, ma è la vita che mi piace. Adesso ho delle cose da fare a Valencia, tornerò in Italia per le corse in Lombardia…