La prima volta che Geraint Thomas andò al Tour de France aveva 21 anni, era campione del mondo nell’inseguimento a squadre e indossava la maglia della Barloworld in cui l’anno dopo sarebbe approdato Chris Froome. Sono passati 14 anni e il gallese che si accinge a correre per l’undicesima volta la corsa francese nel frattempo ha fatto strada e conquiste, anche se per qualche inspiegabile motivo qui da noi si tende a sottovalutarlo.
Nel 2008 e nel 2012, Geraint ha conquistato l’oro olimpico nell’inseguimento a squadre e al pari di Wiggins è poi riuscito a vincere il Tour. Solo al Giro gli è sempre andata male, non si capisce se per sfortuna o l’attitudine non spiccata alla guida sulle più nervose strade italiane. E ora che il Team Ineos Grenadiers lo schiera alla Grande Boucle come leader accanto a Carapaz (sembrando però preferirgli l’ecuadoriano) siamo andati a rileggerne la storia attraverso le sue parole.
La bici per caso
Thomas è nato a Cardiff il 25 maggio del 1986 ed è arrivato al ciclismo dopo aver giocato a calcio, rugby e aver fatto nuoto.
«Stavo nuotando nel Maindy Leisure Centre – racconta a People’s Collection Wales – e ho visto un annuncio pubblicitario per l’avvio di un club per bambini, il Maindy Flyers. Mi sono iscritto e intanto giocavo ancora a rugby e un po’ a calcio. Crescendo, i colpi nel rugby iniziavano a farmi male, così smisi. Ho iniziato a diventare abbastanza forte nel nuoto e mi proposero di andare la mattina prima della scuola, alle 5,30. Pensai che fosse folle e puntai tutto sul ciclismo. Me la cavavo, ma su scala locale. Quando poi sono diventato uno junior e ho vinto i mondiali nello scratch a Los Angeles, ho davvero pensato: “Posso guadagnarmici da vivere”. Fino a quel momento, c’erano solo delle persone che mi dicevano: “Hai talento”. Ma una cosa è crederci, un’altra è farlo davvero».
La scoperta del mondo
La bicicletta è la chiave per conquistare il mondo, scoprendolo a piccoli passi. Prima i dintorni di casa, poi attraverso sfide sempre più lontane.
«Il Galles è decisamente buono per fare ciclismo – dice – ho corso e pedalato in tutto il mondo, ma è fantastico tornare a casa e allenarsi. I percorsi sono duri, va bene, ma bastano pochi chilometri e sei fuori Cardiff e puoi andare ovunque. Il bello di questo sport è nel fatto che sei libero di andare dove vuoi, soprattutto quando sei giovane. Puoi esplorare. E’ bello uscire e trovare strade nuove che non conosci. Che nevichi o piova, dobbiamo uscire e allenarci. Mi piace mantenere una buona routine. Esco sempre verso le 9-9,30 qualunque sia il tipo di lavoro che devo fare. Amo andare in bicicletta, anche se ovviamente alcuni allenamenti specifici, come le ripetute, non sono troppo divertenti. Sono difficili, ma ci sono lavori molto più pesanti, quindi sono abbastanza fortunato».
Chili in più, chili in meno
Lavoro duro e alimentazione corretta: correre nel team che ha riscritto la letteratura dell’allenamento significa avere un punto di vista privilegiato sul tema.
«La dieta è estremamente importante su strada – spiega – mentre se porti un chilo o due in più su pista, non importa perché è tutta una questione di potenza e di girare veloce nel velodromo, quindi il peso non è troppo importante. Ma, una volta che devi correre un Tour de France, il ruolo dell’alimentazione è enorme. Se porti uno o due chili in più per tutta la gara, allora spendi tanta energia in più. Nel team abbiamo da anni un nutrizionista con cui lavoriamo a stretto contatto. E sembra funzionare…».
Dalla pista alla strada
Dalla pista alla strada, il passo non è niente affatto semplice. Hai voglia di tirare Ganna per la manica, se bastasse convincersi di poterlo fare, il gioco sarebbe fin troppo banale.
«La pista è dove sono cresciuto – dice Thomas – e ho vinto le mie medaglie d’oro olimpiche. E’ molto più veloce, il tempo è strettissimo. Quando passi alla strada e magari val al Tour, si tratta di passare tutto il giorno in bicicletta. Eppure si completano. La pista è veloce e nervosa, hai bisogno di una buona capacità di guida. Questa però aiuta molto quando si tratta di stare in gruppo al Tour. Al contrario, la strada ti dà la forza e la resistenza per la pista. L’allenamento in pista è scientifico e preciso. Su strada, è tutto più libero e tutto può succedere».
Il miracolo del Tour
Il primo Tour è stato pazzesco. Dice di non aver mai sofferto tanto e ben si comprende se l’abitudine è quella delle gare in pista appena descritte.
«Ogni giorno – racconta – tagliavo il traguardo e pensavo: “Non c’è modo che io possa partire domani. Non riesco assolutamente a salire sulla bici”. Poi andavo a letto, mi svegliavo la mattina dopo e dicevo: “Devo iniziare. Ci provo ancora”. Salivo in bici e non volevo più arrendermi. E alla fine ce l’ho fatta e mi ha dato tanto, mentalmente e fisicamente».
Quante cadute…
Thomas cade spesso. E’ caduto al Delfinato aspettando Porte e anche al Giro dello scorso anno nella tappa dell’Etna, perché si fece trovare a centro gruppo in un tratto di pavé dove le borracce iniziarono a saltare. Il limite di essere cresciuto senza un campione esperto accanto è proprio questo. Wiggins è stato un modello, ma cosa vuoi imparare se anche lui aveva gli stessi problemi?
«Ho avuto cadute – dice – più volte. Nel 2005, eravamo a Sydney, andando in pista. Sulla strada c’erano dei detriti metallici, uno è schizzato dalla bici del corridore davanti a me, è finito nella mia ruota anteriore e sono stato sbalzato. Cadendo ho colpito il manubrio, che mi ha rotto la milza. Hanno provato a salvarla, ma nella notte la asportarono. Ho una grande cicatrice lungo tutto il petto. All’epoca fu piuttosto spaventoso, soprattutto perché ero lontano dalla mia famiglia e dai miei amici. Per fortuna la federazione fece venire i miei genitori e mio fratello, che rimasero con me per la settimana in cui uscii dall’ospedale. Penso che mio fratello sperasse che rimanessi in ospedale un po’ più a lungo perché amava starsene in spiaggia».
Altro incidente al Giro del 2009, nella crono delle Cinque Terra vinta da Menchov. Thomas cadde in discesa e si ruppe il bacino e lo scafoide della mano destra. Altro Giro, altra caduta, ma questa non per colpa sua: era il 2017, finì contro una moto sulla salita del Block Haus, tenne duro per qualche giorno poi si ritirò. Quello stesso anno, ma al Tour, cadde con Porte e si ritirò nella discesa de Mont du Chat verso Chambery.
La bandiera del Galles
L’appartenenza gallese batte forte nel suo petto e racconta che il suo più grande rammarico fu non aver potuto avere la sua bandiera alle Olimpiadi di Pechino. La portò però sul podio di Parigi quando nel 2018 vinse il Tour (foto di apertura)
«Ricordo di essere gallese – dice – soprattutto quando oltrepasso il confine con l’Inghilterra. Se entri in un pub e sei gallese, li senti fare battute sul rugby o sulle pecore. Penso che il solo partire dal Galles rafforzi la passione per il Galles. Te lo senti dentro che rappresenti il tuo Paese, come quando vai alle Olimpiadi. A Pechino, la prima volta, ero lì per la Gran Bretagna, ma anche per il Galles, perché non ci sono molti atleti gallesi che hanno avuto questo onore. Quando scoprii che non avrei potuto sventolare la mia bandiera, sono rimasto deluso, perché sarebbe stato bello fare un giro d’onore con la bandiera gallese, per mostrare alla gente da dove vengo».
La valigia già pronta
Da sabato questo ragazzo divertente di 35 anni sarà al via del Tour. Negli anni, oltre ad averlo vinto, ha scortato al successo Froome e Bernal. Vedremo quest’anno come finirà con Carapaz, scheggia di cultura latina nel blocco di sudditi della Regina, che oltre a Thomas vede anche Yates e Porte.
«Tre parole per descrivermi? Rilassato – sorride – felice per la maggior parte del tempo. Mi piace il cibo. Non so se c’è una parola per questo! Amante del cibo! Sì, un po’ più di tre parole, ma ci siamo. Questo sono io».