La storia di Roberto Menegotto, rivista oggi alla luce del ciclismo che stiamo vivendo, è esemplare di come lo sport sia un ambiente che vada vissuto rimanendo sempre presenti a se stessi. Il veneziano di San Donà di Piave era da dilettante un validissimo prospetto, capace addirittura di conquistare il Giro della Valle d’Aosta nel 1993, che sappiamo essere un trampolino preferenziale verso il professionismo. Menegotto passò nel 1994 nelle file della ZG Mobili, ma la sua parentesi durò appena 4 stagioni, per poi mollare a 27 anni e mettersi a lavorare, prima in proprio, poi, dopo che la sua azienda è fallita 6 anni fa, in una fabbrica di motori elettrici.
Il veneto non si è mai distaccato dal mondo del ciclismo, ha preso il patentino di tecnico di 3° livello e si è dedicato ai più giovani, per insegnare loro cos’è il ciclismo, nei suoi tantissimi lati belli e anche in quelli oscuri, poi è arrivato Jacopo, suo figlio che ora sta attraversando la sua stessa parabola, essendo uno dei giovani più promettenti del florido vivaio veneto.
«Non avrei voluto che facesse il ciclista – dice – ma ha tanta passione, quella che avevo io alla sua età. Sa che è un mondo duro, difficile ma ci vuole provare. Insomma, attraverso di lui sono rientrato anch’io nel mio mondo…».
Ripensandoci adesso con la maturità dell’età adulta (Roberto ha 54 anni), ti sei mai pentito di aver mollato così presto?
Sì, molto. Mi sarebbe bastato un pizzico di fortuna in più. Ma quelli erano anni pesanti, era un ciclismo molto discusso, molto “incasinato”. Oggi gli scalatori sono tornati scalatori, i velocisti sono tornati a fare le volate, poi ci sono i campioni assoluti che ci sono sempre stati, quelli capaci di vincere dappertutto perché baciati dal talento naturale. Io ho vissuto un’epoca di grandi atleti: Simoni, Casagrande, lo stesso Pantani erano miei rivali da dilettanti e si vinceva a turno, anch’io li ho messi alle spalle. Per affermarsi però dipende molto dalla squadra.
Come ti trovasti alla ZG?
La scelta era stata quella giusta, ma al secondo anno cambiò proprietà e non trovai l’accordo. Passai nella squadra di Marino Basso, andavo anche forte, finii secondo in una tappa del Midi Libre dietro l’attuale diesse della Cofidis Vasseur, ma non vedevo intorno a me la fiducia tale da darmi il tempo di crescere. Io venivo dal calcio, avevo iniziato a 18 anni con il ciclismo, maturavo molto tardi. Troppo per i tempi del ciclismo di allora, figuriamoci adesso…
Il ciclismo lo hai mollato?
No, mi sono dedicato ai più giovani e negli anni le loro vittorie, ma soprattutto le loro storie, la loro gratitudine, la loro crescita umana prima ancora che ciclistica sono stati i miei successi, quelli che mi hanno ripagato. Ora mi dedico agli esordienti nel Gs Spercenigo, società con 52 anni di storia. Negli ultimi anni abbiamo sofferto la rivalità con la Borgo Molino, ma stiamo completando tutta la trafila da giovanissimi a juniores nella stessa società e questo è importante. Ci prenderemo altre soddisfazioni.
A proposito di giovani, abbiamo visto sui social che sei molto sensibile al discorso legato al passaggio prematuro verso il professionismo…
Ho vissuto sulla mia pelle le difficoltà del passaggio, devi essere pronto innanzitutto mentalmente e caratterialmente. Tutti cercano l’Evenepoel di turno dimenticando che i fenomeni sono tali perché sono rarissimi. Noi bruciamo tanto, questa è la verità, anche le iniziative come il team under 23 della Bardiani lasciano il tempo che trovano. Avrebbe più senso imporre almeno un paio d’anni di permanenza fra gli under 23, per dare tempo di crescere. Poi c’è un problema di calendario.
Spiegati meglio…
Ai miei tempi trovavi in regione una o due gare dove fare esperienza, crescere gradatamente, per certi versi allenarti in vista delle sfide più importanti. Oggi ad ogni gara trovi i migliori, sembra che ogni corsa junior sia una sorta di campionato italiano e questo non fa bene, consuma. Bisogna anche avere spazio per gare più alla portata, permettere alle società di programmarsi, cercare spazi, far crescere l’autostima ai propri ragazzi. Le categorie giovanili sono cruciali nella formazione fisica ma anche mentale dei ragazzi.
Parliamo di Jacopo: come corridore è come te?
Per nulla… Io ero uno scalatore puro, di taglia minuta che aveva dalla sua l’esplosività. Lui ha una grande potenza, peccato che quest’anno non si sia ancora potuto mettere in mostra perché ha contratto un virus a inizio stagione che l’ha di fatto bloccato per due mesi. Praticamente ha corso tutte le gare internazionali con la retromarcia innestata… Lui va forte sulle salite medie, mi ricorda un po’ Argentin, anche se deve ancora dimostrare tutto. Ma ha tempo per crescere e anche in questa stagione può abbondantemente rifarsi.
Che ti aspetti per lui?
Che possa trarre soddisfazione per quello che fa e ricompensa per i sacrifici. Ha talento, spero riesca a dimostrarlo. In bici va da quando aveva 7 anni. Sa che in me ha un bagaglio enorme di esperienza, gli ho parlato spesso, gli ho insegnato che cos’è il ciclismo, ora deve andare per la sua strada sapendo che all’occorrenza ci sono.