Non era mai successo negli ultimi cent’anni che un corridore giovane come Pogacar conquistasse il Tour de France. Prima di lui c’era stato Cornet, due anni in meno, ma accadde nel 1904.
Per contro non era mai successo neppure che il vincitore della maglia gialla sparisse dalla circolazione, senza rilasciare interviste, se non piccoli flash qua e là, in occasione delle rituali visite agli sponsor. Si comprende bene la necessità di tutelarlo da un inverno troppo dispendioso e si comprendono anche gli obblighi di squadra, ma forse anche i tifosi avrebbero meritato un po’ del suo tempo.
La prima data ipotizzata per l’intervista era stata indicata alla metà di novembre, poi era stata rinviata di due settimane, quindi trasformata in una conferenza stampa su Zoom il 7 dicembre, a sua volta rinviata al 21 del mese e adesso a gennaio. Così abbiamo deciso di mettere insieme tutti i contributi raccolti nelle ultime settimane da coloro che sono riusciti a parlarci e fare un punto altrettanto virtuale con il giovane sloveno, che vive a Monaco nello stesso palazzo di Formolo e Valerio Conti e a 100 metri da Roglic. Magari poi, quando ce lo troveremo davanti, parleremo con lui di cosa farà nel 2021.
Slovenia spaccata
Del ritorno in Slovenia, Pogacar racconta con emozioni altalenanti. Roglic è stato nominato atleta dell’anno, entrambi sono risultati ciclisti dell’anno e i loro volti sono stati stampati sullo stesso francobollo
«La gente in Slovenia – ha detto – avrebbe voluto che vincesse lui il Tour e anche io, in qualche modo, pensavo fosse giusto. Lo scenario per la maggior parte del Tour, lui primo e io secondo, stava bene a tutti. Si stavano preparando per festeggiare questo risultato. Alcuni non erano contenti per come è finita. L’ho notato, l’ho visto sui social, mi è stato detto. Ma cosa posso farci? Niente. In Francia il tifo è diviso tra Alaphilippe, Bardet e Pinot. Il tifo spacca, lo ha sempre fatto».
In cima tutti piangevano
Di quel giorno a La Planche des Belles Filles, ha ricordi rumorosi e confusi. Come confuso è stato anche dopo aver realizzato di aver sfilato la maglia gialla dalle spalle del connazionale.
«L’ho avuto chiaro – ha raccontato – quando Primoz Roglic ha tagliato il traguardo. Ero arrivato quasi quattro minuti prima. E’ stato un tempo lungo e molto strano. Intorno a me, il massaggiatore e i due ragazzi del team sapevano che stavo per vincere il Tour, ma non volevano dirmelo senza esserne assolutamente sicuri. Nel tratto pianeggiante non avevo informazioni su suoi tempi. Sapevo solo che Dumoulin era in testa. Poi in salita non ho sentito più niente. Non avevo messo il volume degli auricolari molto forte e c’erano molti spettatori che gridavano. A un certo punto ho sentito: «Hai quattro secondi di vantaggio», ma ho pensato che fosse per la vittoria di tappa. E poi mi sono saltati addosso tutti, piangevano, urlavano, erano eccitati. E qui ho capito davvero».
L’abbraccio di Roglic
Ha raccontato di essere cresciuto con il mito di quel saltatore con gli sci passato alla bicicletta. Fra loro ci sono 9 anni, che nel ciclismo giovanile sono abbastanza per comprendere due mondi completamente diversi.
«Ci siamo incontrati solo nel 2017 – ha raccontato – ai mondiali di Bergen, in Norvegia. Lui era con i professionisti, io ero nell’U23. Ci siamo ritrovati insieme nella conferenza per la stampa slovena. A volte ci alleniamo insieme a Monaco. Prima succedeva in Slovenia, perché non vivevamo molto lontano. A Monaco ci incontriamo per caso, uno dei due gira e proseguiamo insieme. E’ un bravo ragazzo. Non gli piace farsi avanti. Gli parlo spesso mentre corro. Per me non è come un avversario. Per questo lassù non ero molto sicuro delle mie emozioni. Da una parte volevo che Roglic vincesse il Tour, invece sono stato io a impedirglielo. In effetti, è stato proprio lui a tranquillizzarmi. Pochi minuti dopo il suo arrivo, ero già nello spazio interviste per la tv, è venuto ad abbracciarmi. Quel momento non lo dimenticherò mai. E’ come se mi avesse autorizzato a essere felice, come se mi dicesse che non era colpa mia».
La fuga di Imola
Imola sarebbe stata l’occasione perfetta per sdebitarsi. Pogacar si era già chiamato fuori da responsabilità troppo grandi e la Slovenia aveva deciso di puntare su Roglic, lasciando al giovane il compito di fare corsa dura nell’avvicinarsi agli ultimi chilometri. Ma quando Pogacar è partito, sperando di portare via un gruppetto che costringesse la Francia a inseguire, lo ha fatto troppo forte e si è ritrovato da solo.
«Quando vieni da Paesi dove non c’è un grande bacino di corridori – ha detto – sei abituato a cavartela con meno compagni. Mi successe al Tour de l’Avenir e purtroppo, ma per una serie di sfortune, mi è successo al Tour. Eravamo partiti con una grande squadra, ma dopo il ritiro di Aru e Formolo le cose si sono complicate. Per fortuna De La Cruz mi è rimasto accanto. Era strano essere lì in mezzo a lottare contro tanti campioni. Stiamo assistendo a una generazione che cambia. E’ sicuramente una questione di carattere, di responsabilità assunte prima. Tutti i corridori venuti fuori quest’anno sono stati i riferimenti delle categorie giovanili. Contro Hirschi, ho corso sin dagli juniores. Ci sono molti più team continental che ci preparano in modo più professionale. Anche il covid potrebbe aver avuto un ruolo. Ci sono stati meno eventi e molte gare importanti in un periodo di tempo molto breve. I giovani hanno potuto trarne vantaggio. Un corridore più anziano probabilmente impiega più tempo per trovare il proprio ritmo».
Ne avremo probabilmente un riscontro nel 2021, quando ciascuno potrà impostare la stagione nel modo più consono. Avremo giovani chiamati alla conferma e uomini più esperti desiderosi di riscatto. E ancora una volta vivremo una grande stagione di ciclismo.