Quinn Simmons, lo junior che ad Harrogate sbranò il mondiale dall’alto di una clamorosa supremazia fisica, si accinge al quarto anno da professionista. L’americano di Boulder, Colorado, passò professionista nel 2020 dagli juniores e in alcune sue dichiarazioni di inizio inverno, si è capito chiaramente che il 2023 sarà l’anno per tornare a vincere, dopo la tappa al Wallonie nel 2021.
Simmons ha la barba e i capelli rossi, la fronte alta e gli occhi stretti. Ispira simpatia e la sensazione di avere davanti un cavallo brado, di quelli visti in centomila film girati dalle sue parti. Parla chiaro, con frasi brevi e concetti semplici. Di base, è anche spiritoso.
Sei passato professionista direttamente dagli juniores, pensi che sia stata la scelta giusta?
Soprattutto adesso, guardando il Covid e tutto il resto, è stata la scelta migliore che potessi fare. Nel 2020 ho fatto 35 giorni di corsa. Alla fine si tratta del nostro lavoro, per cui sono stato pagato più di quanto sarebbe successo se fossi stato negli under 23. Avrei fatto forse 10 corse e avrei guadagnato 5.000 euro. Sarebbe stato un anno sprecato. Invece ho fatto delle gare WorldTour in linea e anche a tappe. Ho avuto una sorta di cuscinetto prima di fare il primo vero anno da pro’. Per cui penso che sia stata al 100 per cento la scelta migliore.
Cosa ti manca oggi per vincere una gara?
Devo diventare più veloce rispetto all’anno scorso. Servirebbe un po’ di fortuna, anche se non ci credo molto. Forse ho solo bisogno di cogliere il momento giusto e di diventare più intelligente. Ma sento di aver fatto progressi ogni anno, quindi adesso è il momento di fare l’ultimo passo, che è anche il più difficile.
Siamo stati tutti tuoi tifosi nel giorno di Carpegna alla Tirreno. Cosa ricordi?
Ricordo la sofferenza. Quello è stato uno dei giorni più difficili che abbia avuto su una bicicletta. Ma avevo un obiettivo, anche se piccolo. E’ stato bello difendere la prima maglia in una gara WorldTour (quella dei Gpm, ndr) e soprattutto farlo su una salita bella come quella, con dei tifosi così calorosi e tutto il resto. Non è stata una vittoria, ma è uno dei ricordi migliori sulla bici. Ero davvero orgoglioso dello sforzo che ho fatto, perché sono un ragazzo pesante per certe salite. E’ stata una faticaccia.
Arrivare da solo è il tipo di vittoria che preferisci?
A questo punto, prendo qualunque tipo di vittoria. Allo sprint, da solo, in due… Non mi interessa come.
Qual è un programma per il prossimo anno?
Comincio a San Juan in Argentina, che è bello perché non ci sono mai stato. Dovrebbe essere divertente e poi il resto del calendario sarà simile agli anni passati. Farò il calendario italiano. Strade Bianche, Tirreno, poi le classiche e spero di tornare al Tour.
Hai parlato di divertimento. Cosa c’è di divertente nel ciclismo?
Stare sopra tante ore in bici probabilmente non è divertente, per contro mi piace molto correre. Allo stesso modo non mi piacciono molto le prime tre ore di gara, in cui si dorme. Ma quando vai davvero forte e sai che cominciano gli attacchi, quello è il mio momento preferito. Mi piace davvero. Anche se è il momento più doloroso. Come quando il gruppo si riduce a una ventina di corridori e ti giochi la corsa. Quello mi piace molto.
Quindi è meglio gareggiare che allenarsi?
Dipende. Andare in bici per sette ore non è il massimo, ma mi piace fare bene il lavoro e sapere che ho fatto tutto il possibile per essere pronto. E a quel punto la gara è più divertente se sai di aver fatto tutto il lavoro che dovevi fare.
Cosa ricordi del mondiale di Harrogate?
Sapevo che avrei vinto. Al mattino dissi ai compagni sul pullman che avremmo fatto qualcosa di speciale, perché un americano non vinceva quella gara dai tempi di Greg Lemond. Avevo già pianificato con un anno di anticipo dove volevo attaccare. E loro hanno fatto un lavoro perfetto. E’ stato bello ritrovarsi nel gruppo di testa con un altro americano (Magnus Sheffield, ndr) e poi fare 30 chilometri da solo. Da junior non hai mai spettatori e all’improvviso ti ritrovi su un circuito pieno di persone. Ricordo che avevo detto ai miei genitori dove aspettare con la bandiera in modo da portarla fino al traguardo. Fu meraviglioso.
E’ stato difficile passare dal mondo juniores al WorldTour?
Non è per sembrare presuntuoso, ma se da junior decidevo che volevo vincere, vincevo. Non c’era dubbio. Poi passi nel WorldTour e devi lottare per restare nel gruppo. Fa male al morale, ma ovviamente sapevo che sarebbe successo. Ero consapevole della situazione in cui mi stavo cacciando. Forse è stato un po’ più difficile di quanto mi aspettassi, ma è stato davvero un grosso cambiamento. Ho intorno tanti corridori da cui imparare, preferisco lavorare per vincere delle grandi corse, piuttosto che vincerne una da under 23. Non mi darebbe molta soddisfazione. Preferisco essere staccato al Tour che vincere una tappa dell’Avenir.
Cosa ti è parso del Tour?
E’ stato molto bello. Sono arrivato con una grande preparazione, quindi ho iniziato molto bene e davvero in forma. Mi sono divertito. Anche sulle grandi montagne, stando in gruppo, non ho mai avuto un solo giorno di difficoltà pazzesche per arrivare al traguardo. Il Tour è importante per noi americani. Quando dicevo che sarei diventato professionista, la gente quasi non capiva che lavoro avrei fatto. Poi sono andato al Tour e ho cominciato a ricevere messaggi da persone che non sentivo da anni. Non lo sto dicendo perché mi piace il riconoscimento, ma allo stesso tempo è bello dire: «Ehi, guardate, questo è un vero lavoro».
Eppure il ciclismo dovrebbe essere popolare a Durango, no?
Lo è, ma le gare sono un’altra cosa. Mi pare che al Tour quest’anno ci fossero cinque americani e due erano di Durango. E’ una città di 16.000 persone in mezzo al nulla ed è fantastico che avessimo due corridori al Tour.
Sei cresciuto con qualche campione di riferimento?
A essere onesti, fino a 17-18 anni, volevo correre in mountain bike. Seguivamo i corridori dello Specialized Factory Team, soprattutto perché alcuni di loro venivano da Durango. Poi sono arrivato in Europa, sono stato… esposto alle corse su strada e in quel momento sono cambiato. La mia generazione non ha avuto davvero nessuno da guardare. Ovviamente all’epoca c’erano corridori fortissimi, ma ero più fan di Sagan che di altri americani.
Ovviamente è vietato parlare di Lance Armstrong?
Forse con il team o chiunque si occupi dei media, dovrei stare attento. Ma voglio dire che per noi ragazzi è difficile dimenticare. Al riguardo si sono dette tante cose, ma un obiettivo, soprattutto in questo gruppo di giovanissimi americani, è provare a farlo di nuovo. E questa volta lo faremo nel modo giusto.
Cos’è per te la Parigi-Roubaix?
La gara preferita da guardare, difficile da vincere. Ogni anno sono diventato più leggero e vado meglio in salita, perciò non sono più tanto adatto a guidare sulle pietre e a tenere le posizioni. Ho paura passando da un settore all’altro, quindi almeno per ora la mia attenzione si è spostata. Ma sicuramente a un certo punto della mia carriera, quando avrò più fiducia e sarò più forte, con la potenza giusta, la Roubaix tornerà nella lista.
Cosa ne pensi del tuo lavoro?
Penso che il ciclismo sia bello, è sicuramente un sacco di lavoro. Ho trascorso due mesi a casa per la prima volta in cinque anni. Così è stancante, ma allo stesso tempo sei in viaggio verso posti davvero fantastici. E’ qualcosa di diverso dagli altri sport e questo lo rende più interessante. Negli altri sport professionistici americani, ti sposti tra le città ogni fine settimana e non è bello come andare in Francia per un intero mese.
Immagini mai come sarà la tua prossima vittoria?
Ci penso ogni volta che salgo in bici per allenarmi, ogni volta che vado in palestra. E’ un pensiero che deve esserci. E’ qualcosa che ti fa alzare e andare ad allenarti alle 6 del mattino. Riuscite a capirlo?