Alan Marangoni è stato compagno di squadra di Dylan Van Baarle per due stagioni al Team Cannondale. Dopo la sua vittoria alla Parigi-Roubaix l’ex pro’, ora in forza a GCN, aveva scritto che non era stupito del fatto che l’olandese avesse vinto. “Dylan ha avuto bisogno di tempo. Si è messo sotto e alla fine ci è arrivato. Non tutti sono Pogacar ed Evenepoel”.
E ancora: “Mi riempie di gioia – si leggeva sulla pagina Instagram di Marangoni – vedere un corridore che, resosi conto di non essere un fenomeno nonostante le pressioni, ha saputo aspettare lavorando sodo”. Parole non banali e che in qualche modo si legano anche all’articolo di ieri con i diesse degli U23.
Alan, qual è il tuo primo ricordo di Van Baarle?
La percezione che si aveva di lui quando arrivò in squadra. Era preso molto in considerazione dai tecnici. Quando lo conobbi aveva 21 anni. Se ne parlava un gran bene. Aveva vinto subito il Giro di Gran Bretagna alla Garmin da neoprofessionista.
E lui?
Nonostante fosse iper-pompato è sempre rimasto con i piedi per terra. Non è mai stato arrogante, sempre sorridente. Un ragazzo rispettoso. Sempre pronto a dire grazie.
Qual era il vostro rapporto?
Si era legato parecchio a me. Diceva che si divertiva. Lo scorso autunno, nell’evento BeKing di Montecarlo, quando ci siamo visti mi ha fatto una gran festa. La realtà è che si rischia di perdere dei talenti. Si mettono subito pressioni e se un ragazzo è debole mentalmente il rischio è quello di perderlo. Ci possono essere delle fragilità in quel periodo della carriera e non tutti sono già formati. E poi c’è una cosa che mi fa un po’ rabbia.
Cosa?
Oltre al fatto che in questo momento non ci sono italiani forti, è il vedere certi commenti sui social. Commenti spesso cattivi e infondati che non capisco. Ma di chi è la colpa se un corridore non va? Perché ce l’hanno con un ragazzo che non va forte? Perché se la prendono con il sistema? Okay, allora iniziassero a mettere su una squadra di giovanissimi. Noto che sta crescendo una dialettica calcistica.
Com’era Van Baarle in corsa?
Preciso. Ho avuto modo di correre con lui nel Fiandre del 2016 in cui arrivò sesto. Di quel Fiandre ricordo bene che Klier, il diesse, fece una precisa tattica a tavolino. E gli disse: prima di questo punto – mi sembra il secondo passaggio sul Kwaremont, adesso di preciso non ricordo – devi attaccare forte. Vedrai che i big si controlleranno e non ti seguiranno. Però quando esploderà la bagarre tu già sarai davanti“. Ebbene Dylan eseguì quell’ordine al dettaglio. Quindi, soprattutto se ha la gamba, è molto preciso, non sbaglia nulla. Un computer. E infatti in Ineos-Grenadiers non hai mai sbagliato. Ci sta bene: con la testa e con le gambe.
Hai detto che è un ragazzo rispettoso: queste sue qualità sono emerse subito?
Quando andavamo alle classiche del Nord lui e Langeveld erano due colossi. Stavano sempre insieme. Langeveld era il più esperto, Dylan il più giovane. Ma Langeveld era più sbruffoncello, più saccente e spesso quando un giovane è affiancato ad un capitano così tende a prendere l’atteggiamento del leader. Non Van Baarle. Lui è rimasto sulla sua linea.
C’è un qualcosa che ti ha colpito di Van Baarle?
Come si presentò al primo ritiro del 2016. Rispetto all’ultima corsa del 2015 era un’altra persona. Era diventato molto più magro, aveva perso peso. Il corridore massiccio e potente non c’era più. Tuttavia in quel ritiro andava piano. E lo stesso nei primi mesi dell’anno. Forse doveva adattarsi al suo “nuovo” fisico. Quel sesto posto al Fiandre fu un po’ una sorpresa.
E in allenamento? Era uno che si staccava o un coriaceo?
Era preciso, seguiva le sue tabelle. Ma in realtà poi in allenamento l’ho visto poco perché noi di ritiri ne facevamo pochissimi in Cannondale: 7-8 giorni a gennaio e stop. Magari ci organizzavamo noi in autonomia. Andavamo sullo Stelvio con Formolo, Bettiol, Moser…
Il motore quindi ce lo ha sempre avuto Van Baarle?
E alla grande direi! Vinse molto da junior e fu un ottimo under 23 tanto che passò nella continental della Rabobank. Di certo da giovane era più esplosivo, più veloce, proprio perché ancora non aveva perso peso. Ricordo che vinse una piccola corsa tappe in cui c’erano quasi tutti arrivi in volata. Però dopo quella trasformazione si è messo giù, con calma e tanto lavoro e alla fine è arrivato in alto. Non avrei mai pensato però che sarebbe potuto diventare un “gregarione” anche per i tapponi dei grandi Giri.
Alan, come mai secondo te Dylan ci ha messo un po’ di più ad esplodere nonostante il motore grande?
Spesso non si considera che quando un corridore passa non è per forza pronto. O che se passa e vince subito sia scontato che poi vinca sempre di più. No, non è matematica. Ogni anno ha le sue dinamiche. Per me Dylan ha sofferto il momento del passaggio alla Cannondale. Lì era il “Dio” e nonostante tutto ha fatto bene. Però aveva delle pressioni. Poi cambiando squadra si è dovuto mettere al servizio degli altri e non ha avuto più certe pressioni. Doveva lavorare da A a B, pressioni da gregario. Nel frattempo ha fatto esperienza, è maturato e quando ha avuto i suoi spazi è riuscito a vincere.
Aveva bisogno dei suoi tempi insomma…
Come ho scritto anche nel mio post: lui non è un fenomeno. Quelli si contano sulla dita di una mano. Dylan è un ottimo corridore che è maturato più lentamente. Ripeto, il fatto di vincere subito, non significa che poi crescendo si continui a vincere a valanga come Merckx.