Un marchio, un hashtag, una trovata di marketing, ma soprattutto uno spirito: questo è il Wolfpack della Deceuninck-Quick Step. Letteralmente si può tradurre come branco di lupi e già questo dà l’idea di un gruppo che si aiuta, che lotta insieme nelle avversità come avviene nella realtà dei lupi appunto.
Come spesso accade nelle belle storie, quella del Wolfpack iniziò quasi per caso. Era il 2012 e nel team di Levefere era arrivato Brian Holm il quale aveva iniziato ad utilizzare in alcune e-mail la sigla Wolfpack, in ricordo di una banda di quartiere nella sua Copenaghen. Una dicitura che piacque subito ai corridori e che Alessandro Tegner, direttore marketing del team, decise di stampare su dei cappellini. A quel punto era nato un brand e l’hashtag #wolfpack che corre sui social ha fatto il resto ponendovi la “bolla papale”.
Partire bene aiuta
Ma se i discorsi di marketing li lasciamo a chi di dovere, a noi interessa capire cosa davvero sia questo “spirito Wolfpack” che circola nella Deceuninck. Insomma, vedere un campione del mondo davvero contento perché un suo compagno ha conquistato il Fiandre, vederlo festeggiare come se avesse vinto lui, qualche domanda ce la fa porre. E cose simili si sono ripetute molte volte in questo team.
«Siamo un gruppo affiatato perché siamo insieme da tanti anni credo – spiega Davide Bramati – abbiamo vinto tanto e da tanto tempo. Ogni anno partiamo bene (e questo conta molto per smorzare le tensioni, ndr) Abbiamo diversi sprinter che portano successi e questo dà morale. La nostra mentalità è vincente e se si perde, si perde sull’arrivo.
«C’è voglia da parte di corridori e staff di fare sacrifici. Quest’anno a gennaio siamo rimasti una settimana di più in ritiro in Spagna e lo stesso abbiamo fatto in quando siamo andati alla Provence.
«Il festeggiamento che avete visto dopo il Fiandre è un qualcosa che succede anche in altre squadre, immagino. Posso dire che siamo un team belga e a certe gare ci teniamo particolarmente».
Vince uno, vincono tutti
Il “Brama” magari tende anche a sminuire, ma sta di fatto che noi eravamo sotto a quel bus nel giorno di Asgreen. Il danese non c’era in quanto impegnato all’antidoping di routine e con i giornalisti, ma sentivamo le urla di gioia, la musica a tutto volume, e vedevamo lo staff che brindava con le birre.
«Da noi vince uno, ma la vittoria è di tutti – riprende Bramati – e spesso abbiamo vinto con tanti atleti, anche questo è importante ai fini del gruppo».
In passato si è capita l’importanza del gruppo e non a caso s’iniziò a parlare di team building. Tra i primi a ricorrervi fu la CSC di Bjarne Riis che portò Basso e i suoi in cima al Kilimangiaro. La sfida, il superare momenti di difficoltà insieme ma senza lo stress della corsa, il divertimento… fanno gruppo.
«Anche noi – dice il diesse lombardo – abbiamo fatto esperienze così. Siamo andati in Slovacchia, giochi di ruolo come caccia al tesoro, oppure in Belgio dove c’era anche il personale abbiamo fatto bungee jumping, tiro alla fune… Nelle ultime due stagioni un po’ per ovvi motivi, un po’ perché siamo sempre più spesso furi casa non lo abbiamo fatto. Però la cosa buona è che i giovani o comunque i nuovi arrivati riescono ad integrarsi bene nel gruppo».
Lefevere capo branco
Ma come un vero branco di lupi che si rispetti c’è un “maschio alfa”, questo potrebbe essere senza dubbio Patrick Lefevere, il team manager, storico referente di questo gruppo. Da fuori è rispettatissimo e “temuto”, ma è davvero un padre padrone?
«La forza di Patrick è la sua presenza. Lui viene spesso alle gare e c’è… anche quando non c’è. E’ molto alla mano, si siede al tavolo con i ragazzi, gli piace parlarci. Da parte mia devo ringraziarlo a lungo».
Ma Bramati è uno dei diesse del WorldTour più sanguigni: vicinissimo ai ragazzi, è un grande motivatore. E lo dicono i corridori stessi, anche quelli di altre squadre, basta rileggere la recente intervista di Agnoli: “Bramati spacca le macchine pur di incitare i suoi corridori”.
«Quanto c’è di mio? C’è tanto del gruppo, piuttosto. Sono tanti anni che siamo insieme e ognuno sa cosa deve fare, c’è rispetto dei ruoli. Ho corso 17 anni, ho visto passare via mezzo gruppo. Ho iniziato con Saronni e finito con tutti altri. E in questi anni ho cambiato solo tre squadre, ma di fatto sono cambiati solo gli sponsor, perché il gruppo era sempre quello ed è ora nel mio Dna. Dalla Mapei con Levefere diesse, alla Deceuninck con lui team manager. E questo te lo porti dentro. Con alcuni colleghi siamo stati compagni di squadra».
Una magia deve esserci però. Cavendish, con tanto di sponsor personale, è ammesso nel branco e aiuta Bennett a fare la volata nella Scheldeprijs e poi vince con l’aiuto dei compagni in Turchia. Alaphilippe che si sacrifica per Asgreen. Almeida, inconsapevole leader del Giro, che si ritrova una corazzata attorno. Chi lascia questo team fa poi fatica a trovare con tanta “facilità” la via della vittoria. Forse il Wolfpack è “solo” un bel circolo virtuoso. Ma per ora funziona…