Ridley Noah Fast, provata al Fiandre la bici della Uno-X Mobility

17.04.2025
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MAARKEDAL (Belgio) – Ridley ha presentato ufficialmente alla stampa internazionale la terza generazione della Noah Fast e noi l’abbiamo provata (anche) sul pavé delle Fiandre. Una bici può rappresentare le fondamenta di una partnership? Sì e la Noah Fast è l’esempio lampante. La nuova bici è stata svelata nel corso dell’inverno, quando in modo altrettanto ufficiale il Team Uno-X Mobility di Hushovd ha dichiarato un accordo di collaborazione decennale proprio con Ridley.

Ridley Noah Fast 3.0, la bici più rappresentativa dell’azienda belga
Ridley Noah Fast 3.0, la bici più rappresentativa dell’azienda belga

Non è solo questione di soldi

«I soldi che arrivano da un contratto sono importanti – ci racconta Thor Hushovd, general manager del team scandinavo – ma non sono tutto. Oggi è importante creare delle connessioni ed allacciare un rapporto che va ben oltre la sponsorizzazione, creare una partnership tecnica su un lungo periodo era il nostro obiettivo.

«Con Ridley – prosegue – abbiamo firmato un contratto di collaborazione di 10 anni, credo che sia il più lungo in essere nel panorama ciclistico mondiale. L’accordo è strategico per entrambi, per noi che ci possiamo affidare ad un player che punta sull’innovazione e tecnologie di altissimo livello, per l’azienda che ha una base solida sulla quale sviluppare le bici del futuro».

Hushovd ha pedalato con noi sul percorso del Fiandre
Hushovd ha pedalato con noi sul percorso del Fiandre

Provata sul pavé

Rispetto a qualche anno addietro tutto è cambiato. In poche parole le bici specifiche per le pietre non esistono più ed i mezzi usati per la Sanremo, per le tappe al Giro e al Tour sono i medesimi che troviamo durante la campagna delle corse del Nord. Le variabili sono legate principalmente alla sezione delle gomme e loro pressioni, talvolta alle ruote e poco altro.

«L’aerodinamica e l’efficienza sono determinanti – ci ha detto Bert Kenens, Product Manager di Ridley – anche a confronto con il risparmio di peso di fronte a dislivelli importanti».

Ad esempio il Fiandre 2025, verrà ricordato come l’edizione con la media oraria più alta di sempre. 45 orari e meno di 6 ore per i primi 4 dell’ordine di arrivo: un record che, come altri, è destinato ad essere frantumato in un futuro non troppo lontano. In bici contano le gambe? Sicuramente, ma chiedete a questi corridori di fare un passo indietro in fatto di dotazione tecnica…

Durante la (nostra) trasferta belga abbiamo usato la Ridley Noah Fast per tre giorni: oltre 220 chilometri, circa 3.000 metri di dislivello e tutti i muri della De Ronde. Bici taglia small, equipaggiata con il nuovo manubrio Nimbus, trasmissione Shimano Ultegra (52-36 e 11-30), ruote DT Swiss ARC1400 da 62 millimetri, tubeless Vittoria Corsa Pro con sezioni differenziate, 28 anteriore e 30 posteriore. Reggisella full carbon Ridley specifico sviluppato in collaborazione con Deda. Peso della bici di poco inferiore ai 7,5 chilogrammi (senza pedali). Prezzo di listino della versione appena descritta: 8.799 euro.

Stabilissima sulle pietre

La Noah Fast è la bici più rappresentativa di Ridley e di fatto è la prima vera bici aerodinamica che dal 2012 ad oggi ha cambiato le carte in tavola. Quindi, la Noah Fast è super veloce? Sì lo è, una considerazione quasi scontata. Quello che lascia di stucco è la stabilità sul pavé (anche quello parecchio scassato) e con il vento laterale, con le ruotone da 62. Tutto facile?

Ridley Noah Fast 3.0 è una bici impegnativa, offre tantissimo, ma chiede molto. E’ una bici aero in tutto e per tutto, che per essere sfruttata al pieno delle potenzialità vuole potenza e watt, pretende concentrazione e una certa propensione a far collimare finezza nella guida e spinta costante. E’ la classica bici che, come si dice, se hai gamba ti aiuta, altrimenti ti picchia in testa.

Geometria super caricata in avanti

Nella taglia small (quella usata nella tre giorni fiamminga) ha un piantone a 75,5° ed un angolo sterzo a 73°. Significa avere un corpo centrantissimo sul verticale e uno sguardo che è perpendicolare al mozzo della ruota davanti. Traducendo: non solo si sfrutta un gesto pieno e potente, ma portando tutto il peso in avanti e sul manubrio, si tende ad avere un avantreno ultra reattivo nei cambi di direzione, davvero sostenuto quando ci si alza in piedi sui pedali.

Altra nota che ci lascia un ricordo positivo è il manubrio. Il Nimbus Aero si sviluppa con tre configurazioni diverse che considerano l’inclinazione dello stem come valore primario da considerare (insieme a reach e stack dell’integrato). Difficoltà di feeling e presa di confidenza? Nessuna. Per essere precisi abbiamo utilizzato quello con il reach intermedio da 75 millimetri (stem leggermente all’insù), larghezza di 360 millimetri ai limiti dei manettini e 400 sotto.

Gratificante da usare sui continui saliscendi del Belgio
Gratificante da usare sui continui saliscendi del Belgio

In conclusione

Ridley Noah Fast 3.0 è una super bicicletta ed è perfettamente contestualizzata all’interno delle richieste attuali degli agonisti che hanno gamba, spingono forte, vogliono andare veloce e si “preoccupano” fino ad un certo punto della planimetria del tracciato. Testa bassa e menare. Rispetto alla Noah Fast della precedente versione, quella provata in Belgio è ancora più cattiva, ma più stabile, più rigida nella sezione frontale e porta a sfruttare maggiormente la posizione tutta caricata in avanti.

Nonostante una geometria compatta e parecchio aggressiva è capace di regalare un buon feeling sin dalle prime pedalate. Le ruote da 62 non fanno altro che amplificare il suo carattere aero e con tutta onestà ci piacerebbe provarla con un setting più versatile. Magari con ruote da 45 oppure 50 millimetri, combinazione che, a nostro parere, non farebbe altro che “migliorare” le fasi di rilancio per gente che esprime wattaggi “normali”, come noi.

Ridley

Vigilia del Fiandre, in bici con Hushovd che sceglie Van der Poel

05.04.2025
4 min
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MAARKEDAL (Belgio) – Ti trovi a pedalare al fianco di Thor Hushovd, che tolti i panni del corridore ricopre un ruolo di grande responsabilità. Il norvegese è general manager di un team sulla cresta dell’onda, Uno-X Mobility.

Hushovd, come sempre disponibile al 101 per cento: lo era da corridore, lo è ora da dirigente. Resta un grande appassionato della bici e appena si libera dagli impegni manageriali non rinuncia a pedalare (e sul pavé ha ancora un gran passo). Con lui abbiamo fatto una sorta di botta e risposta. I suoi favoriti per la campagna del pavé e il punto di vista sul ciclismo moderno.

Hushovd ricopre un ruolo di peso, considerando l’importanza che ha il ciclismo nel Nord Europa
Hushovd ricopre un ruolo di peso, considerando l’importanza che ha il ciclismo nel Nord Europa
Il tuo favorito per il Fiandre?

Van der Poel è il mio favorito numero uno.

Il nome degli outsider?

Diversi corridori che stanno attraversando un periodo di grazia. Difficile rispondere, sono diversi. Pedersen, Pogacar, lo stesso Van Aert è d’obbligo inserirlo tra i favoriti. Serve anche un buon team a supporto. Nel lotto degli outsider inserisco anche il corridore Uno-X Rasmus Tiller. Vedrete che farà una top five.

Hai menzionato Van Aert, ti sei fatto un’idea della situazione?

Mi spiace molto per Van Aert. E’ stato molto sfortunato in alcune situazioni, eppure si è dimostrato un fuoriclasse, soprattutto per come ha gestito il suo ritorno dopo gli incidenti. Sono convinto che tornerà a vincere e come si dice nel ciclismo, si deve sbloccare, credo che sia una questione di testa. Comunque, lui c’è sempre, nonostante tutto.

Cosa conta di più nel ciclismo moderno, la testa o le gambe?

Bisogna combinare le due cose. Il ciclismo è da sempre uno sport da pazzi, oggi lo è ancora di più. Devi essere attento e concentrato per più ore consecutive. Il cervello deve essere costantemente al 100 per cento e quando mancano le gambe, la mentalità, la prontezza, la lucidità e capacità di prendere le decisioni all’ultimo istante possono venire in soccorso.

C’è molta differenza tra la tua generazione di campioni e quella attuale?

Un altro mondo. In generale ora non c’è più paura e rispetto, ma soprattutto manca la paura, i ragazzi di oggi si buttano senza timore. Inoltre hanno una cultura del tutto e subito, fattore che non faceva parte della nostra generazione. Ovvio che il tutto è frutto anche di pressioni/richieste esterne che sono cambiate. A mio parere l’esempio che calza a pennello è Evenepoel, il percorso della sua carriera, riportato a 10 anni addietro, impossibile immaginare una cosa del genere.

Hai provato ad immaginare un Thor Hushovd ciclista professionista oggi?

Qualche volta provo ad immaginare, faccio fatica. La cosa più complicata da metabolizzare, rispetto a come ero abituato a correre, è partire a tutta e arrivare a tutta. Personalmente mi godevo anche le partenze lente delle gare.

Le preferenze di Hushovd: pavé, salita o sprint al Tour de France?

Sprint al Tour.

Pogacar, Van der Poel, Van Aert o Evenepoel?

Pogacar.

Perché lui?

Pogacar è prima di tutto un amico, a Montecarlo dove abbiamo la residenza, ci troviamo spesso a pedalare. E’ una star in senso assoluto e un campione che ha cambiato le regole, ma è prima di tutto una persona estremamente rispettosa degli altri.

Personaggio carismatico e sempre disponibile, Hushovd è un vero appassionato della bici (foto Ridley)
Personaggio carismatico e sempre disponibile, Hushovd è un vero appassionato della bici (foto Ridley)
Rim brake o freni a disco?

Freni a disco, senza alcun dubbio, non solo per questo. Complessivamente, le bici sono migliori e più performanti.

Hushovd che si immagina con le dotazioni tecniche attuali?

Ci penso e dico che i corridori attuali sono fortunati ad avere tutto questo a disposizione. Dotazioni tecniche eccellenti e tante possibilità di scelta.

Tecnicamente, nel ciclismo attuale cosa può fare la differenza?

Nell’ordine: alimentazione, la capacità di allenarsi sfruttando le metodologie attuali e tutto quello che la tecnologia mette a disposizione. L’aerodinamica, il mezzo meccanico e l’equipaggiamento tecnico in genere.

La nuova Uno-X. Per Hushovd deve restare un vessillo nazionale

20.01.2025
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Dallo scorso febbraio, Thor Hushovd è il general manager della Uno-X Mobility. Un ruolo che era forse nel suo destino, considerando quel che l’uomo di Grismatd ha fatto, conquistando tappe in tutte e tre i Grandi Giri, classiche come la Gand-Wevelgem ma soprattutto vestendo la maglia iridata nel 2010. Un riferimento assoluto per il ciclismo norvegese che da lì ha vissuto anni di vacche grasse, sfornando corridori di grande livello: Kristoff, Boasson Hagen, Johannessen. Anche grazie al fatto di avere un team di riferimento, ora nelle sue mani.

Thor Hushovd, 47 anni, è manager della Uno-X dallo scorso febbraio. In carriera ha vinto 74 volte da pro’
Thor Hushovd, 47 anni, è manager della Uno-X dallo scorso febbraio. In carriera ha vinto 74 volte da pro’

Hushovd è partito “a treno in corsa”, si può dire che il 2024 sia stato un anno di assestamento a livello personale, eppure per il team è stato molto proficuo con 26 successi e tanti piazzamenti: «E’ stato fantastico, abbiamo messo in campo bei punti. Le vittorie sono venute in serie, abbiamo anche fatto un buon Tour anche se non abbiamo raggiunto il nostro obiettivo di vincere una tappa. Ma siamo stati una volta secondi, due volte terzi. Quindi in generale, penso che abbiamo fatto una buona stagione».

26 vittorie è un bottino che ti saresti aspettato a inizio anno?

Si ha sempre un obiettivo alto, ma certamente quel numero fa piacere, anche perché al suo interno ci sono stati anche traguardi importanti. E’ chiaro che vorresti sempre fare meglio, che qualche piazzamento è una vittoria mancata, che avremmo potuto giocare meglio le nostro carte soprattutto nelle grandi classiche, ma abbiamo cercato di migliorare i nostri difetti emersi l’anno prima.

La più importante vittoria di Hushovd, ai mondiali 2010 di Geelong, battendo Breschel (DEN) e Davis (AUS)
La più importante vittoria di Hushovd, ai mondiali 2010 di Geelong, battendo Breschel (DEN) e Davis (AUS)
La maggior parte dei successi sono venuti da Kristoff e Cort che sono over 30. Dietro di loro chi sono i giovani che hai visto in maggiore crescita?

Io dico che ci sono nuovi talenti in arrivo. Sono davvero felice per questo, ma onestamente so che ci vuole tempo perché maturino. Ora abbiamo firmato qualche nuovo giovane, di ottime aspettative come Dalby e Pedersen. Stiamo crescendo bene, avremmo bisogno di alcuni più giovani, ma ne abbiamo così pochi che vengono.

Nel WorldTour vi confrontate con tutte multinazionali, solo il vostro team ha corridori di due sole nazioni. Perché questa scelta?

Questa è una scelta presa dal proprietario del team perché l’azienda ha mercato solo in Norvegia e Danimarca e quindi ha interesse che i corridori siano di questi due Paesi. La Uno-X Mobility deve avere una forte identità come squadra scandinava. Per certi versi è più difficile perché ci sono meno corridori da raggiungere, ma penso che sia anche più divertente e penso anche che il nostro ciclismo abbia ancora bisogno di squadre con una forte identità come questa. Non sto dicendo che tutti dovrebbero farlo, ma è una cosa positiva.

L’ultimo successo 2024 della Uno-X, con Magnus Cort al Veneto Classic
L’ultimo successo 2024 della Uno-X, con Magnus Cort al Veneto Classic
Anche in futuro sarà una squadra esclusivamente scandinava o seguirà l’esempio del team femminile che ha anche rider italiane come la Confalonieri?

Chi può dirlo? Per ora il piano è questo e si lavora su questi progetti per il futuro, poi le cose possono sempre cambiare. La storia siamo sempre noi a scriverla. Abbiamo fatto passi importanti, ora ci piacerebbe progredire, tornare al Tour con un ruolo e risultati migliori. Per quanto riguarda le donne, lì abbiamo meno bacino da cui attingere, quindi era necessario allargare i confini per rinforzare il team che resta però un riferimento per il ciclismo norvegese e danese.

Tu hai iniziato come general manager lo scorso febbraio, a stagione iniziata. E’ stato difficile?

Sì, molto, non lo nego. Non c’è un momento perfetto per iniziare, ma sono anche arrivato alla stagione in cui tutto era pianificato e organizzato, quindi non spettava a me pianificare tutto, ma così è più difficile agire perché le cose si sistemino. Ma ha funzionato bene, ho trovato una buona accoglienza e molta collaborazione, abbiamo lavorato tutti per la stessa causa.

L’esperienza di Alexander Kristoff è fondamentale nella crescita del team
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Rispetto a quando correvi, stai vivendo un ciclismo diverso?

Beh, rispetto a quando correvo sono passati pochi anni, un decennio eppure le differenze sono molto marcate. Il ciclismo è cambiato in molti modi diversi, ma penso anche che sia cambiato in meglio perché è bello allargare i confini, sfidare nuovi limiti.

Che cosa vi attendete per il 2025?

Potrei dire vincere più dell’anno prima, ma io guardo soprattutto al Tour dove vogliamo vincere una tappa. E magari provare a fare qualche colpo a sensazione nelle classiche dove abbiamo gli uomini giusti per farlo.

L’età media del team danese-norvegese sfiora i 26 anni con 5 corridori Under 23
L’età media del team danese-norvegese sfiora i 26 anni con 5 corridori Under 23
Ti viene mai il rimpianto per non poter essere in strada a lottare per la vittoria, invece che in ammiraglia?

Penso di aver avuto la mia occasione, aver corso tanto e vinto altrettanto, anche gare importanti. Il tempo non fa sconti, ora è di un’altra generazione e io sono contento di poterci essere in un’altra veste. Mi piace vedere i corridori che seguono i miei consigli. Mi piace anche seguirli in allenamento. E’ questa ora la mia vita.

L’ultima volta in Australia? A Pozzato girano ancora

16.09.2022
6 min
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L’ultima volta che i mondiali si sono corsi in Australia fu nel 2010 e a Pozzato girano ancora le scatole. Il vicentino aveva 29 anni e arrivò quarto, dando però la sensazione di poter vincere. Hushovd, Breschel, Davis. E poi Filippo. Per questo, strappato per qualche minuto alla routine di organizzatore proiettato verso i mondiali gravel di ottobre, il tono di voce cambia e si inasprisce.

Fu un anno maledetto. Il 7 febbraio l’incidente si portò via Franco Ballerini, il cittì di 4 mondiali vinti e un’Olimpiade. Al suo posto fu spinto Paolo Bettini, che non riuscì a dire di no e grazie a questo avrebbe scoperto negli anni di avere qualità tecniche eccellenti. Il suo lavoro, guidato da emotività e senso del dovere, fu mantenere in nazionale lo spirito di Franco. In Australia portò Gavazzi, Nibali, Oss, Paolini, Pozzato, Tonti, Tosatto e Visconti. Pozzato ricorda, la voce adesso è bassa.

Pozzato arrivava ai mondiali di Geelong dopo la Vuelta. Sulla maglia la scritta per Ballerini
Pozzato arrivava ai mondiali di Geelong dopo la Vuelta. Sulla maglia la scritta per Ballerini

Da Madrid a Melbourne

Corse la Vuelta, quella di Nibali. Si fermò proprio alla vigilia della Bola del Mundo, con il terzo posto di Toledo nelle gambe, ad appena un secondo da Gilbert in forma smagliante e Tyler Farrar.

«Andammo via presto – ricorda – perché c’era un’altra gara il sabato prima, quindi era tutto previsto. Mi sono fermato il venerdì e ricordo di aver fatto un buon avvicinamento, sarei arrivato al mondiale come volevo io. Poi si sa, in Italia ci sono sempre stati i giornalisti che mi davano contro. Non è che ti facessero lavorare tranquillo. Dovevo sempre dimostrare qualcosa, dicevano che comunque non avevo vinto, anche se andavo forte. E si chiedevano se fossi pronto per fare il leader e cose di questo tipo».

Una settimana prima del mondiale, Pozzato vince la Herald Sun World Cycling Classic: la gamba c’è
Una settimana prima del mondiale, Pozzato vince la Herald Sun World Cycling Classic: la gamba c’è
Come andò?

Paolo, che comunque a me è sempre piaciuto molto per come ha interpretato il ruolo di cittì, forse viveva la corsa come le faceva lui, col suo modo di correre. Io invece correvo al contrario rispetto a lui e questo forse ci portò a fare una corsa un po’ troppo d’attacco. Ma la colpa per come andò il finale fu solamente mia. Era un mondiale che avrei vinto con una gamba sola o comunque abbastanza facilmente. Bastava solo partire due posizioni più avanti.

Cosa successe?

A un certo punto, verso fine corsa, mi convinsi di non avere le gambe per fare la volata. Invece quando sono partito, mi sono chiesto: come mai gli altri non vanno? Sembravano tutti fermi, piantati. E io rimontavo, rimontavo, ma non abbastanza. Un metro dopo l’arrivo ero praticamente primo. Venivo su a doppia velocità, bastava partire due posizioni davanti.

Gilbert è in gran forma e attacca a raffica per arrivare da solo: Pozzato lo segue
Gilbert è in gran forma e attacca a raffica per arrivare da solo: Pozzato lo segue
Da mangiarsi ancora le mani?

Forse Geelong è il più grosso rammarico della carriera. Io avevo due sogni. Vincere la Sanremo e il mondiale e il mondiale non sono mai riuscito a vincerlo.

Si parlò dell’ultima curva presa troppo indietro…

L’ultima curva l’ho presa indietro perché ero suonato, ero convinto di non avere le gambe. Perché comunque c’era Gilbert che volava. Attaccò cinque o sei volte e io gli sono sempre andato dentro. L’ultima volta non sono riuscito a seguirlo, perché avevo un inizio di crampi e sono andato un po’ in crisi di testa. Mi sono detto: hai i crampi, vedi che sei finito e gli altri vanno il doppio?

La volata di rimonta non basta, Hushovd iridato, Pozzato “solo” quarto
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Bastava crederci di più?

Mi sono messo in testa questa cosa qua, invece alla fine ero quello che stava meglio di tutti. Erano morti, ma il mio più grande problema è sempre stato che quando vincevo non facevo tanta fatica, quindi pretendevo di andare alle corse e arrivare sempre senza soffrire. Così, se magari sentivo una mezza cosa che non andava, era crisi.

Ci pensi ancora?

Ci penso sì. Mi girano veramente le scatole di non essere mai diventato campione del mondo. Per un motivo o per l’altro, anche se magari andavo forte, m’è sempre sfuggito, Al mondiale di Stoccarda sono stato l’ultimo a staccarmi da quelli davanti per i crampi, per una cavolata mia e vabbè… Più o meno una ti ritorna sempre indietro, ma quella in Australia è stata l’occasione che ho buttato io. Certi treni non passano più.

Come andò con il fuso?

All’andata andò bene. Anticipammo parecchio perché il sabato prima ci fu una corsa (Herald Sun World Cycling Classic, ndr) e la vinsi io. Fu la scelta giusta proprio per prendere il fuso orario. Corremmo quasi subito e io ero ancora suonato per il viaggio, però vinsi e quindi era il segno che andavo.

Com’era il clima?

Era inverno, non era caldo. C’era una bella temperatura, era freschino. Il giorno che ho vinto, avevo la maglia a maniche lunghe. Invece il mondiale lo feci a maniche corte. Saranno stati 20 gradi.

Invece in squadra?

Paolo era stato veramente bravo a costruire la squadra, essendo uno che aveva appena smesso ed era stato in gruppo fino a due anni prima. Era comunque uno di noi e creò un gran clima. Secondo me era riuscito a rimettere in piedi le stesse idee che Ballerini aveva cercato di portare in nazionale, quindi stavamo veramente bene.

Al via da Melbourne, Pozzato con il suo fan club: dietro, suo zio
Al via da Melbourne, Pozzato con il suo fan club: dietro, suo zio
Ricordi il pubblico?

C’erano un sacco di italiani d’Australia. Tra l’altro ho anche dei parenti e mi ricordo che erano venuti anche mio papà e mia mamma. C’era gente immigrata tanto tempo prima, quindi era bello perché comunque sembrava quasi di essere a casa e loro erano orgogliosi di vederci con la maglia azzurra. Una bella sensazione, un bel modo di correre anche a livello emozionale. Un qualcosa in più.

Il pensiero a Ballerini?

Avevamo sulla maglia una scritta per Franco: “Ballero sempre con noi”. Secondo me era stata una cosa veramente bella. Diciamo che il clima non era cambiato tanto rispetto a quando c’era lui. Si sentiva la mancanza, però Paolo era stato bravissimo a rimettere in piedi l’atmosfera che Franco aveva creato negli anni. Perché Paolo è quello che l’ha vissuta meglio di tutti, ha vinto i mondiali e le Olimpiadi con lui, era quello che meglio di tutti sapeva interpretare quel suo spirito.