ESCLUSIVO / Una giornata nella nuova galleria del vento di MET

29.04.2025
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TALAMONA – Pensare che in questa piccola frazione circondata dalle montagne della Valtellina, dove la natura è ancora padrona e il verde incanta gli occhi, sia presente uno degli strumenti più all’avanguardia e unici nel mondo del ciclismo fa quasi specie. Tuttavia MET Helmets ci ha abituato, nel corso degli anni, a questa sua caratteristica: guardare avanti.

L’azienda produttrice di caschi ha avuto come obiettivo quello di innovare e rinnovare. Lo ha fatto anche questa volta, con la costruzione di una galleria del vento interna alla propria struttura. Aprendo una semplice porta si viene proiettati in un capannone enorme, al centro una scaletta che porta a uno spazio rialzato con tutti i dispositivi di controllo. C’è una scrivania doppia, dove i tecnici possono monitorare i lavori e plasmare i setting possibili della galleria del vento (in apertura foto Ulysse Daessle). 

Appositamente studiata

Alziamo gli occhi ed eccola davanti a noi: The Tube. Questo è il nome scelto da MET per identificare uno dei suoi macchinari più innovativi e costosi. Un investimento enorme, che ha portato a una riqualificazione dell’area e diversi lavori

«La scelta del nome è di facile intuizione – dice Matteo Tenni, Project Manager – la vetrata ci mostra la camera di prova interna. Davanti è posizionata una turbina a spinta con una potenza di 110 kilowatt, in grado di far fuoriuscire l’aria fino a 100 chilometri orari. Si è deciso di alzare tale dato per lasciare un po’ di margine rispetto alle velocità che normalmente si vanno a praticare in bici.

«The Tube è nata apposta per la bici, ci siamo affidati a un’agenzia esterna specializzata in questi sistemi. Noi come MET abbiamo fornito dei target in termini di obiettivi, un periodo lungo ma fruttuoso che ha portato a delle ottimizzazioni importanti. Una grande influenza ce l’hanno le condizioni ambientali, su una giornata di test ci sono parametri che cambiano, come la densità dell’aria e la variazione di temperatura interna alla camera di prova». 

Maggiore profondità di sviluppo

Riuscire a internalizzare un processo di sviluppo come quello della galleria del vento è un passaggio fondamentale per garantire un miglioramento costante e continuo dei prodotti MET Helmets. Tutta la parte di studio e progettazione è interna, la galleria del vento è l’ultimo step in questa direzione. Ora ogni prototipo può essere testato, migliorato e stampato all’interno dello stabilimento di Talamona. 

«In precedenza – racconta ancora Matteo Tenni – ci appoggiavamo ad altri laboratori, ce ne sono di molto buoni in tutta Europa. Però le cose non sono sempre comode: bisogna prenotare delle giornate e non è facile averne tante di fila, inoltre i costi non erano da sottovalutare. A livello pratico si va una volta e si fanno i test necessari, ma se c’è qualcosa da ottimizzare si deve tornare a casa e fare le modifiche al design. Una volta sistemato il tutto si deve prenotare un altro slot e ripetere i test. Cosa succedeva? Che spesso al secondo giro di test ci si fermava, sia per una questione di tempo che di investimenti».

L’aria fuoriesce a una velocità massima di 100 chilometri orari, ma i test si effettuano tra i 50 e i 60 chilometri orari (foto Ulysse Daessle)
L’aria fuoriesce a una velocità massima di 100 chilometri orari, ma i test si effettuano tra i 50 e i 60 chilometri orari (foto Ulysse Daessle)

Come un riassunto, ma fatto su misura

«Questa galleria del vento – prosegue Tenni – ha voluto essere un riassunto di quello che si trova in altre strutture esterne: test con bici, atleta e casco, oppure con una falsa testa per fare degli studi sull’aerodinamica o la dissipazione del calore. La nostra galleria del vento, The Tube, è in grado di fare tutto questo. A nostro modo di vedere il vantaggio è netto, fondamentalmente abbiamo libero accesso a tutto. Nel momento in cui un prodotto non è stato ancora prodotto su larga scala vale tutto, si possono fare tutti gli esperimenti possibili. Questo comporta la possibilità di andare a indagare su strade che se dovessimo riferirci all’esterno sarebbero impossibili per tempi e costi».

I test

Grazie alla disponibilità degli ingegneri di MET abbiamo potuto assistere a una giornata di test. I protagonisti sono stati i caschi utilizzati dal UAE Team Emirates – XRG. Abbiamo visto in prima persona i dati sul nuovo modello da cronometro: il Drone II. La testa, ma anche il corpo e le gambe, sono quelle di Alessandro Covi. Il corridore lombardo ha effettuato diverse prove al fine di fornire dati precisi che possano dare consistenza al lavoro di sviluppo e di progettazione di questi nuovi prodotti. 

«Abbiamo sottoposto Covi – conclude Matteo Tenni – a due test durante i quali ha indossato i due modelli dedicati alla cronometro. Il primo con il casco Drone e il secondo con il Drone II. La turbina ha soffiato aria a 50 chilometri orari e i risultati hanno evidenziato un risparmio di cinque watt passando dal Drone al Drone II. In questi termini l’utilizzo di una galleria del vento interna ci permette di avere maggior contatto con gli atleti e di poterli coinvolgere ancora di più nei processi di sviluppo».

Dalla matita alla strada, come nasce (e cresce) un casco MET

17.01.2024
8 min
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TALAMONA – Il casco di Pogacar nasce dietro quel cancello. Fuori non ci sono insegne, ma basta varcarlo per riconoscere il marchio MET sulla porta di cristallo. La Valtellina delle grandi montagne comincia più in alto, ma l’aria frizzante e le vette imbiancate danno il senso di un altro mondo rispetto alle pianure milanesi. La sigla che dà il nome al prodotto è composta dalle ultime tre lettere della parola helmet: casco.

L’azienda fu fondata nel 1987 dalla famiglia Gaiatto che ancora adesso la conduce. All’interno, da quando undici anni fa la produzione si trasferì in Cina, si trovano i reparti di progettazione, sviluppo e test. Ed è attraverso questi uffici che ci muoviamo con Ulysse Daessle che per MET Helmets segue i media e le pubbliche relazioni. Lui è francese e si è arrampicato quassù dal sud della Francia perché aveva bisogno di montagne: guardandosi intorno, c’è da capirlo.

Nostra guida in questa immersione del mondo di MET è Ulysse Daessle, francese, da 7 anni in Valtellina
Nostra guida in questa immersione del mondo di MET è Ulysse Daessle, francese, da 7 anni in Valtellina

Disegno a mano libera

Come nasce il casco? Non c’è distinzione fra il tipo di modello, ci dicono mentre ci muoviamo fra prototipi da non fotografare, il punto di partenza è per tutti il briefing fra ingegneri e disegnatori, che lavorano in simbiosi, perché il casco deve essere sicuro, ma anche bello.

«Ogni progetto è completamente nuovo – spiega Stefano Galbiati, disegnatore – non si fa mai il… copia e incolla da uno precedente. Si definisce l’obiettivo, poi abbiamo carta bianca».

Sulla parete si riconoscono bozzetti e schizzi di ogni genere (foto di apertura), che dopo la fase creativa passano al CAD (il software che consente il disegno tecnico in 2D e 3D) che permette di fare anche i primi calcoli su peso, aerodinamica e risposta agli impatti.

Disegno al CAD

«La simulazione 3D – spiega Matteo Tenni, ingegnere e Project Manager – simula gli impatti per avere dati molto precisi che poi confrontiamo con quelli di laboratorio. Prima di queste tecnologie, si faceva uno stampo pilota su cui eseguire i test, ma era una verifica a posteriori e se non andava bene, bisognava costruirne un altro. Ora con il calcolo strutturale e la simulazione virtuale, si fa un lavoro di ottimizzazione.

«Il casco non è un capo di abbigliamento, ma un dispositivo individuale di protezione. Quelli ad alte prestazioni devono unire sicurezza, leggerezza e aerodinamica e non si possono fare certi calcoli su un oggetto già finito. L’ultima verifica è quella della galleria del vento. Per il casco da crono, abbiamo previsto un cablaggio in cui dei sensori di pressione rilevano l’azione del vento. Abbiamo aperto al virtuale nel 2001 e dal 2004 abbiamo la stampa interna».

La stampa in 3D

Definite le forme, si passa alla stampa in 3D. La prima è quella a gesso: dura una notte e al mattino si ha in mano un oggetto piuttosto pesante che tuttavia riproduce fedelmente l’aspetto del casco. Verificato che la forma sia quella voluta oppure apportate le necessarie modifiche, si passa alla seconda stampa: ugualmente in 3D però a filo. Essa produce un casco certamente più leggero, diviso in due gusci da assemblare, all’interno del quale è possibile montare le imbottiture e i vari accessori.

La stanza delle stampanti dispone anche di un forno per la verniciatura e di una stampante 3D più piccola, per realizzare le rotelline di regolazione del casco. Anche questi accessori si progettano internamente.

Il primo casco

In un angolo, si riconoscono le macchine di quando la produzione si svolgeva qui. Ci sono sacchetti che contengono i granelli del polimero di varia densità e ci sono gli stampi con i compressori. In una griglia accanto, ecco il primo casco prodotto nel 1992.

Dal 2012 si fa tutto in Cina: la conseguenza di continuare a produrre qui sarebbe stata probabilmente la chiusura dell’azienda. Inizialmente, i tecnici MET viaggiavano periodicamente verso Oriente. Ora il processo è più agile, con figure di riferimento sul posto in grado di verificare che le lavorazioni siano eseguite secondo gli standard e i protocolli inviati dall’Italia. Lo stabilimento non lavora in esclusiva, ma è palese che l’esclusiva riguardi i prodotti.

Un immenso database

Ricevuto dalla fabbrica il necessario numero di campioni, si passa ai test. Il laboratorio MET fa parte di un pool di realtà impegnate nella definizione degli standard internazionali e nello sviluppo dei test di impatto. I test non sono obbligatori, potrebbero bastare quelli del laboratorio deputato alla certificazione. MET li esegue per immagazzinare dati e garantire i propri caschi a un livello superiore.

«Abbiamo un database – spiega Cesare Della Mariana, deputato ai test – nel quale si tiene conto di tutte le valutazioni fatte sul primo round di campioni. La prima fase, che si svolge al computer, serve per definire i punti di impatto. A ciascuno di essi sono associati dei valori che permetteranno di costruire le curve di distribuzione dell’urto. In questo modo possiamo verificare che il risultato del test corrisponda a quello che avevamo approvato in fase di progettazione».

Il casco e l’incudine

Prima di arrivare ai test d’impatto, il casco deve sostenere una serie di stress ambientali che lo indeboliscono al pari di quanto accade pedalando al caldo oppure al freddo.

Il protocollo europeo CE prevede prima un passaggio al caldo e poi al freddo, perché a -20°C le plastiche diventano dure e fragili. Quindi viene la fase dell’invecchiamento, in un forno girevole in cui i caschi sono sottoposti per 72 ore ai raggi UV, che indeboliscono i legami chimici degli atomi degli strati superficiali (il riferimento di temperatura è quello del sole del deserto dell’Arizona). Infine il casco viene esposto all’azione dell’acqua a temperatura ambiente. Gli standard USA e australiani (CPSC e AU/NZ) prevedono che dopo il caldo e il freddo, il casco vada immerso in acqua.

A questo punto si procede al test di caduta libera che porta a un impatto a velocità di 6,5 metri al secondo (23,4 chilometri orari). Il laboratorio è pieno di caschi da testare altri già… provati. Laddove si intravedano microfratture nella calotta interna, si ha la conferma che il casco ha retto l’impatto e ha ceduto, salvaguardando la vita del ciclista.

«Per questo – riprende Cesare Della Marianna – dopo l’impatto violento il casco va cambiato, anche se non si vedono segni. Se ha assorbito un urto violento, da qualche parte ha ceduto. Altrimenti significa che il colpo è arrivato diretto alla testa del ciclista».

Ogni mese dalla UAE arriva a MET una scatola di caschi caduti, utili per analisi e osservazioni approfondite
Ogni mese dalla UAE arriva a MET una scatola di caschi caduti, utili per analisi e osservazioni approfondite

I caschi della UAE

Per lo stesso motivo, MET ritira tutti i caschi di ritorno dai due team UAE Emirates (ne arriva una scatola ogni mese), per verificare e studiarli dopo eventuali cadute.

L’impatto della testa sull’incudine provoca ogni volta un brivido. Il rumore è secco, fa pensare parecchio. Qui si lavora per salvare vite, comprendiamo lo scrupolo di ogni passaggio: che si tratti di Tadej Pogacar o di un bambino sul seggiolino della bici di sua madre.

Il packaging di MET promuove la sostenibilità

28.08.2023
3 min
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MET realizza caschi da ben 36 anni. L’azienda di Talamona, situata alle porte della Valtellina, produce caschi che accompagnano in gara, in allenamento o anche nelle pedalate del fine settimana grandi campioni e semplici amatori. Dal 2008 ha ampliato al sua offerta al mondo off road con il marchio Bluegrass. Negli ultimi anni ha legato il suo nome ad uno dei fenomeni del ciclismo moderno. Stiamo parlando di Tadej Pogacar che fino ad oggi ha conquistato tutti i suoi successi indossando esclusivamente caschi MET. Di recente l’azienda valtellinese ha prolungato fino al 2027 il proprio rapporto di collaborazione tecnica con l’UAE Team Emirates, la formazione nella quale milita l’asso sloveno fin dal suo debutto nel professionismo.

MET ha allungato la sua collaborazione con la UAE Emirates fino al 2027
MET ha allungato la sua collaborazione con la UAE Emirates fino al 2027

Stile di vita

MET non è solo caschi. E’ anche promozione della bicicletta come stile di vita sano e mezzo per una mobilità più sicura e sostenibile. A sostenerlo con forza sono gli stessi responsabili dell’azienda.

Per perseguire questi obiettivi lavorano continuamente a migliorare i loro prodotti e tutto ciò che ad essi è in qualche modo collegato. Ci riferiamo in particolare al tema dell’imballaggio dei caschi e alla loro spedizione. Non dimentichiamo infatti che i caschi MET sono venduti in ogni angolo del mondo.

Il nuovo imballaggio dei prodotti di MET permette di risparmiare peso e materiali: dimensioni ridotte, consumi ridotti
Il nuovo imballaggio dei prodotti di MET permette di risparmiare peso e materiali: dimensioni ridotte, consumi ridotti

Meno cartone

Da sempre nella sede di Talamona si lavora per ridurre al minimo l’uso di cartoni in eccesso, risparmiando spazio ovunque sia possibile in fase di spedizione. Il motto da rispettare è il seguente: dimensioni ridotte, consumi ridotti.

Ultimamente in MET sono aumentati gli sforzi per ridurre l’impatto ambientale degli imballaggi utilizzati. Tutto questo non ha in alcun modo inficiato la qualità e la sicurezza in fase di spedizione. Tutti i caschi MET che lasciano i magazzini di Talamona diretti in ogni angolo del mondo sono garantiti da un imballaggio estremamente sicuro. L’utilizzo di meno cartone in fase di imballaggio ha solamente ridotto l’impatto ambientale generato dalla scatola in cui è inserito il casco.

Riassumendo: meno inchiostro superfluo, meno plastica e più materia prima riciclata.

Meno plastica

A proposito di plastica, in MET si è lavorato per ridurre al minimo la quantità utilizzata in fase di imballaggio e nello stesso tempo minimizzando il più possibile la dimensione degli imballaggi stessi. Imballaggi più piccoli consentono spedizioni più efficienti e meno frequenti. Grazie a scatole più piccole è possibile infatti effettuare meno spedizioni e di conseguenza ridurre anche l’incidenza sull’ambiente circostante che si ha spedendo quotidianamente la merce.

MET